Gramsci e Dimitrov: due processi (e due concezioni) a confronto

Il 28 maggio 1928 a Roma si aprì il processo contro Antonio Gramsci e l’intero gruppo dirigente del Partito Comunista d’Italia, conclusosi con la condanna inflitta a gran parte degli imputati e allo stesso Gramsci, sulla base dell’accusa di ricostituzione del disciolto partito comunista.
Nel 1933 si svolse a Lipsia, in Germania, il processo contro Georgij Dimitrov, dirigente dell’Internazionale Comunista accusato di aver partecipato all’incendio del Reichstag.

La conduzione dei due processi, i loro esiti (Gramsci e i dirigenti del PCd’I furono condannati, mentre Dimitrov e gli altri imputati a Lipsia furono tutti assolti) e le loro conseguenze offrono ai comunisti e a tutti coloro che lottano contro la repressione insegnamenti universali, validi tanto allora sotto il regime fascista quanto oggi che il nostro paese è occupato dalla NATO, dalla UE, dalle organizzazioni criminali, dai capitalisti e dal Vaticano. Essi attengono al principio di non farsi legare le mani dalle autorità borghesi e tenere in pugno l’iniziativa per trasformare la repressione in un boomerang contro chi la promuove.

Con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, il fascismo prese in mano il governo del paese.
Dopo una prima fase di consolidamento, l’omicidio Matteotti (1924), le leggi speciali (1926-1927, con la messa fuori legge dei partiti di opposizione, l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, ecc.), l’arresto di Gramsci (avvenuto nel 1926 fuori dalla Camera, a dispetto dell’immunità parlamentare) e l’incriminazione di quasi tutto il vertice del PCd’I (1928), sancirono il passaggio alla dittatura terroristica aperta.
In ragione dei limiti di analisi rispetto alla natura della crisi generale e al bivio che essa poneva all’umanità (rivoluzione socialista o guerra imperialista), il PCd’I fu preso alla sprovvista dall’evoluzione del fascismo che aveva considerato fino a quel momento una parentesi temporanea, anziché la risposta della borghesia all’ondata di mobilitazione rivoluzionaria del Biennio Rosso. In conseguenza a ciò, il PCd’I considerò l’attività clandestina – compresa la clandestinità del suo gruppo dirigente – come una “condizione a margine”, come “soluzione estrema”. Il risultato fu che gli arresti e il processo del 1928 determinarono lo smantellamento del gruppo dirigente del partito, che si riorganizzò solo attraverso enormi sacrifici e svariati tentativi e solo grazie all’iniziativa del centro estero.

Il processo durò dal 28 maggio al 4 giugno 1928. Solo una settimana fu sufficiente al Tribunale Speciale per condannare 18, fra dirigenti e semplici militanti. Gramsci fu condannato a 20 anni di carcere.
Durante la sua vicenda processuale e carceraria Gramsci fu assolutamente fermo nell’opporsi a qualsiasi campagna politica per la sua liberazione, che comunque l’Internazionale Comunista lanciò a livello internazionale. La linea che aveva definito, del resto, era basata sull’evitare di presentarsi pubblicamente come massimo dirigente del Partito Comunista. Anche questa linea è frutto di limiti che caratterizzavano il gruppo dirigente del partito nel suo complesso.
L’arresto di Gramsci, infatti, non solo privò il Partito Comunista Italiano del suo più importante dirigente, ma interruppe anche il processo di bolscevizzazione che aveva avviato e impedì dunque di affrontare e risolvere quei limiti di assimilazione della concezione del mondo che si portava dietro dalla sua costituzione e che partivano dallo stesso Gramsci.
Questi limiti si rifletterono nella condotta del partito e dello stesso Gramsci nel corso del processo.

I tentativi di ottenere la liberazione di Gramsci dal carcere, tramite complesse operazioni di trattativa e mediazione, furono tre, ricostruiti con dovizia di particolari nel libro di Giorgio Fabre Lo Scambio (Ed. Sellerio – Palermo, settembre 2015).

Il primo fu quello collegato ad una mediazione del Vaticano tra il governo fascista e quello sovietico, basata sullo scambio tra Gramsci e alcuni vescovi prigionieri in URSS. Si rivelò inconsistente e inefficace. Partì nell’ottobre del 1926, quando l’incaricato d’affari sovietico Stefan Bratman-Brodovski incontrò il cardinale Pietro Gasparri in Nunziatura a Berlino. Nunzio a Berlino era Eugenio Pacelli.

Pacelli sarà papa dal 2 marzo 1939 al 9 ottobre 1958 con il nome di Pio XII. Pacelli fu uno dei mediatori per i Patti Lateranensi, tra i cui firmatari ci fu Gasparri. Il 20 luglio 1933 Pacelli firmò il concordato che riconobbe il regime nazista fondato pochi mesi prima. Appena eletto tolse dall’indice dei libri proibiti quelli di Charles Maurras, animatore del gruppo di estrema destra, antisemita e anticomunista Action Française, di cui Gramsci si interessa e di cui tratta a più riprese nei Quaderni. Scomunicò i comunisti nel 1949.

Il secondo, approfittando di un momento relativamente positivo delle relazioni Italia – URSS (Patto di Amicizia del settembre del 1933) e facendo leva anche sulla buona condotta del detenuto (in quel periodo c’era stata un’amnistia per il decennale della marcia su Roma ed erano state modificate in senso meno restrittivo alcune norme del codice penale), avrebbe dovuto attivare nuovamente la triangolazione tra URSS, Vaticano e governo fascista, ma si risolse solo nel riconoscimento di una “libertà condizionale” che presto si rivelò uno strumento per stringere ulteriormente le maglie del controllo da parte del governo. Qui fu coinvolto Mariano d’Amelio, zio di Piero Sraffa, l’economista amico di Gramsci che gli forniva i libri in carcere. D’Amelio dal 1923 era primo presidente della Corte di Cassazione e quindi carica altissima nella magistratura italiana.

Il terzo tentativo di un Gramsci ormai quasi del tutto sfiduciato consistette nel chiedere che gli fosse concesso l’espatrio in Russia per ricongiungersi alla famiglia anche in virtù delle sue gravi condizioni di salute.
I tentativi di ottenere la liberazione dei prigionieri politici si basarono solo sui rapporti con soggetti come il Vaticano o esponenti delle istituzioni statali, sperando nella benevolenza di Mussolini oppure nell’intervento risolutore dell’Unione Sovietica, anziché sulla spinta dell’Internazionale Comunista a fare leva sulla mobilitazione e l’organizzazione delle masse popolari.

L’eroica resistenza di Gramsci e del gruppo dirigente comunista, e la stessa comprensione da parte di Gramsci della forma della rivoluzione socialista (guerra di posizione o guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata), della natura del Partito Comunista (Il Moderno Principe) e della trasformazione particolare a cui devono sottoporsi i comunisti dei paesi imperialisti non bastarono, non furono sufficienti per elaborare una strategia adeguata per arrivare alla liberazione di Gramsci e degli altri dirigenti del PCd’I.
La condotta di Gramsci e del PCd’I fu certamente fonte di insegnamenti per l’Internazionale Comunista e per Georgij Dimitrov che nel 1933 fu messo sotto processo nella Germania nazista, con l’accusa di essere tra i responsabili dell’incendio del Reichstag, appiccato dagli stessi nazisti il 27 febbraio 1933.
Oltre a Dimitrov altri imputati furono Marius van der Lubbe (presente al momento dell’incendio e presentato dalle autorità naziste come membro del partito comunista olandese, ma in realtà assoldato dai nazisti per l’occasione), Ernst Torgler (dirigente del partito comunista tedesco), Blagoj Popov e Vasil Tanev (comunisti bulgari anch’essi, coinvolti per fare del processo un’arma di propaganda contro l’URSS).

Dimitrov dovette difendersi da solo perché le autorità naziste gli negarono la possibilità di nominare un avvocato.
Affrontò da subito il dibattimento con spirito di attacco per mettere sotto processo i suoi accusatori, smontando pezzo per pezzo le accuse che gli venivano rivolte. Dal resoconto stenografico della sua difesa:

“I nazionalsocialisti avevano bisogno di una manovra di diversione per sviare l’attenzione dalle difficoltà createsi nell’interno del campo nazionalista, e per far fallire il fronte unico degli operai (…). Durante il processo è stato dimostrato che noi non abbiamo niente a che vedere con l’incendio del Reichstag, perciò non può sussistere alcun sospetto. Noi bulgari, come anche Torgler, dobbiamo essere assolti non per insufficienza di prove, ma perché noi, come comunisti, non abbiamo e non potevamo avere niente di comune con quest’azione anticomunista.
Io propongo la deliberazione seguente:

1) che il Tribunale supremo riconosca la nostra innocenza in questa causa e dichiari l’accusa ingiusta; ciò si riferisce a tutti, anche a Torgler, Popov e Tanev;

2) considerare van der Lubbe come uno strumento del quale i nemici della classe operaia hanno abusato;

3) mettere sotto processo i colpevoli dell’accusa infondata, diretta contro di noi;

4) a spese di questi colpevoli risarcire noi dei danni per il tempo da noi perduto, per la salute sciupata e per le sofferenze subite. (…)

Noi comunisti possiamo ora dire con la medesima risolutezza del vecchio Galileo: Eppur si muove!
La ruota della storia procede in avanti, verso l’Europa sovietica, verso l’unione mondiale delle repubbliche sovietiche! E questa ruota, spinta in avanti dal proletario, sotto la direzione dell’Internazionale Comunista, non potrà essere arrestata né da provvedimenti di sterminio, né da condanne all’ergastolo né da pene di morte. Essa gira e girerà sino alla piena vittoria del comunismo!”.

Alla fine del processo tutti gli imputati furono assolti per insufficienza di prove e liberati definitivamente: un risultato straordinario ottenuto grazie alla combinazione della vasta campagna internazionale contro la montatura giudiziaria e l’incarcerazione dei comunisti con la condotta processuale esemplare di Dimitrov e compagni.
Quest’ultima fu caratterizzata da due aspetti: l’uso politico della difesa per mettere in luce il vero obiettivo delle accuse, cioè reprimere la mobilitazione rivoluzionaria e mettere fuori legge i comunisti; l’uso del tribunale come “palcoscenico” per alimentare la mobilitazione contro gli accusatori.

Ciò che emerge dal raffronto fra il processo contro Gramsci e il PCd’I istruito dal fascismo e quello contro Dimitrov, l’Internazionale Comunista e l’URSS istruito dal nazismo attiene all’importanza – è l’aspetto decisivo nella lotta alla repressione – di puntare tutto non sulla ricerca di appigli legali, sull’eventuale benevolenza del nemico di classe e delle sue istituzioni, ma sulla mobilitazione delle masse popolari e sulla solidarietà di classe.
L’autonomia ideologica dei comunisti permette di tenere in mano l’iniziativa e usare ogni appiglio per tessere la tela dell’organizzazione e della mobilitazione delle masse popolari. Questa è la condizione essenziale per attuare fino in fondo questa linea.

Il Patto d’amicizia Italia – URSS
Nel 1933 l’Italia fascista e l’Unione Sovietica strinsero un Patto d’Amicizia incentrato sul rafforzamento della cooperazione commerciale tra i due paesi e sulla reciproca garanzia di non aggressione.
Questa mossa, come la firma del Patto Molotov – Ribbentrop (1939), vengono additate dai denigratori del comunismo come esempi delle “nefandezze commesse dall’URSS di Stalin”, senza tenere conto della linea strategica dell’URSS e del movimento comunista che fu quella “di contrastare in ogni paese la limitazione dei diritti democratici delle masse popolari, guadagnare tempo per dar modo al movimento comunista e al movimento di liberazione nazionale delle colonie e semicolonie di rafforzarsi, impedire la coalizione di tutti i gruppi imperialisti contro il movimento comunista e che la guerra in arrivo incominciasse con l’aggressione della Germania contro l’URSS a cui tutti i gruppi imperialisti si sarebbero in una forma o nell’altra associati (…).
I demagoghi e le vere o finte “anime belle” rinfacciano all’URSS e al movimento comunista le nefandezze che i nazisti partner dell’URSS nel patto Molotov – Ribbentrop, commettevano da tempo e commisero dopo, tra cui l’eliminazione sistematica di milioni di ebrei. Ma nascondono il quadro strategico sopra esposto. Omettono di far presente la debolezza dell’URSS nel rapporto di forza internazionale. Sorvolano sul fatto che il movimento comunista aveva fatto e ha fatto tutto quello che sapeva e poteva fare per contrastare l’avvento al potere in Germania di Hitler e dei suoi seguaci e il consolidamento del loro potere, che i comunisti furono le prime vittime del nazifascismo e che nonostante questo continuarono la resistenza, che gran parte dei gruppi imperialisti, ivi compresi i gruppi borghesi ebrei e in particolare i sionisti, boicottarono la lotta contro l’avvento del nazismo al potere” – da “Dieci Tesi sulla Seconda Guerra Mondiale e il movimento comunista” – La Voce del (nuovo)PCI n.20.

Articolo precedente
Articolo successivo

Articoli simili
Correlati