Università occupata a Genova – intervista al collettivo “Come studio?”

Sono Federico del collettivo universitario “Come Studio? Genova” che è nato circa un anno e mezzo fa. Noi nasciamo come collettivo universitario sulla base di rivendicazioni prettamente studentesche come la questione delle tasse. Però all’interno del collettivo coesistono varie anime e fin da subito abbiamo intrapreso anche un percorso politico perché ci rendiamo conto che la questione studentesca va inserita all’interno di problematiche generazionali e sociali più ampie.

La nostra generazione è nata nell’epoca della retorica della crisi, del Debito pubblico, del sistema capitalista che tenta di ristrutturarsi tramite le sue crisi. Tutto questo ha a che fare con noi studenti.

Genova in passato era un’area fortemente industrializzata, dove l’IRI aveva un’importanza strategica e industrie come l’Ansaldo, l’ILVA e altre erano centrali nella vita delle persone. Adesso questa area geografica e in generale tutto il paese sono stati fortemente de-industrializzati principalmente per direttive europee. Questo ha portato molte regioni a puntare sull’industria del turismo che però qui a Genova è abbastanza ridotta perché la sua vocazione era e in parte è ancora industriale. E noi giovani in tutto ciò non possiamo diventare altro che carne da macello per le speculazioni dei potenti.

Anche se guardiamo all’università, a Genova soffriamo un enorme drenaggio di menti, di studenti che se ne vanno a studiare altrove. Questo perché il sistema universitario italiano è basato sulla competizione tra atenei per l’assegnazione di fondi e risorse. L’ateneo genovese è piccolo e meno importante rispetto ad altri e per questo è fortemente e cronicamente sottofinanziato.

Quindi diciamo che la situazione è veramente drammatica, perché abbiamo una città che non è in grado di “assorbire” i suoi giovani, né nel mondo dello studio, né in quello del lavoro e questo alimenta il fenomeno delle cosiddette “periferie sociali”.

Questa premessa serviva a far comprendere il concetto che noi come collettivo siamo partiti dall’ambito universitario, ma guardiamo e ci confrontiamo anche con molti altri soggetti cittadini e piano piano abbiamo capito che l’unica forma di agire è quella di essere anche un soggetto politico. Per questo dall’inizio della nostra esperienza ci siamo inseriti nella contraddizione fondamentale dell’università che dovrebbe essere un diritto e invece viene gestita come un’azienda. Quindi abbiamo cominciato a partecipare a tavoli di trattativa sulla questione delle tasse con gli organi universitari, coi vari enti che si occupano del diritto allo studio, ci siamo organizzati per quanto possibile anche con i ragazzi della Casa dello Studente per far fronte ai loro problemi nei mesi più acuti della pandemia (ci sono stati casi di studenti confinati per Covid nelle loro camere che sono stati completamente abbandonati, nemmeno gli veniva portato da mangiare!). Poi siamo arrivati a organizzare, lo scorso 25 settembre, un partecipato corteo studentesco che ci ha anche permesso di capire che c’era la possibilità di “alzare l’asticella”. Abbiamo quindi iniziato a tastare il terreno per arrivare poi all’occupazione dell’università.

Lo scorso 19 aprile abbiamo occupato il Dipartimento di Scienze della Formazione: è un dipartimento “strategico” per certi versi, perché si trova in pieno centro, in un quartiere della Genova bene dove si concentra la gran parte delle sedi impiegatizie della città, molto vicino anche alla sede di Confindustria e a quella di Aliseo (l’agenzia regionale ligure per gli studenti-ndr).

A inizio occupazione abbiamo avuto dei tavoli di discussione con gli organi e le istituzioni di Ateneo. Ci hanno dato vari ultimatum e probabilmente hanno anche spinto alcune liste universitarie a darci contro pubblicamente. Hanno perfino provato a giocarsi la carta delle sanificazioni in vista della “riapertura” del 26 aprile: solo fuffa, anche perché solo 5 aule in tutto il Dipartimento potrebbero essere usate effettivamente per le lezioni in presenza, dato che per ogni corso ci sono molti iscritti (ma manca il personale-ndr), il che è un paradosso perché la struttura del Dipartimento è gigantesca!

Ci teniamo ad affermare che questa occupazione è fortemente politica e stiamo cercando di far sì che diventi centro di attrazione per le altre lotte e organismi studenteschi del territorio. Infatti in questi giorni sono venuti al Dipartimento molto collettivi universitari e delle scuole superiori. Quello che noi cerchiamo di spiegare agli studenti è che le loro rivendicazioni e le questioni che pongono non si esauriscono all’interno dell’università e non possono essere risolte agendo solo sul piano della lotta studentesca. Per esempio, se l’università pubblica un bando di ricerca su questioni militari finanziato con i soldi del Recovery Plan, già qui si vedono gli interessi che ci sono dietro la ricerca e la questione si allarga al campo della guerra imperialista con tutto ciò che ne consegue. Quindi è logico che dobbiamo ragionare sempre in questi termini, ampliando la nostra visione e azione anche fuori dall’Ateneo.

Per questo abbiamo organizzato l’occupazione aprendola il più possibile alla città tutta. Abbiamo organizzato una serie di appuntamenti e invitato soggetti politici e realtà cittadine perché venissero a dialogare con gli studenti. Per citarne alcuni, sono venuti i compagni del CALP del porto di Genova, con i quali abbiamo tenuto un’assemblea partecipatissima e molto interessante in cui abbiamo legato al tema della repressione, che i compagni stanno subendo per essersi opposti al traffico di armi da guerra nel porto, il tema della ricerca. Questo perché la ricerca che parte dalle università è il primo motore che dà il via all’industria delle armi per la guerra imperialista. Quindi le battaglie dei portuali e degli studenti sono legate tra loro a doppio filo.

Poi sono venuti i compagni del Si Cobas che ci hanno parlato degli scioperi della logistica a Piacenza. Noi come collettivo abbiamo anche partecipato al corteo dei lavoratori lo scorso 13 marzo. Anche Piacenza è una città vittima della de-industrializzazione: non essendoci più industrie il territorio è stato trasformato in un gigantesco hub della logistica e dei servizi del terziario. Il merito del Si Cobas è quello di essere riuscito a sindacalizzare questo settore di lavoratori che storicamente non erano organizzati. Anche qui la cosa ci riguarda da vicino: noi giovani siamo condannati al precariato, al lavoro in nero, in grigio, senza tutele e spesso lavoriamo in settori come quello della ristorazione o del turismo che sono molto difficili da sindacalizzare.

Oltre a loro sono venute le compagne di Non Una di Meno che ci hanno parlato delle questioni di genere, i compagni della Casa Editrice Derive e Approdi che hanno presentato un libro sull’autonomia operaia ligure. Sono venuti anche i compagni de La Resistente: una squadra di calcio popolare socialista genovese che lavora sulle periferie e con i ragazzi usando il calcio come strumento di lotta dal basso.

Insomma, abbiamo concepito l’occupazione come un momento in cui confrontarci con le varie realtà genovesi e tirare un po’ le fila del discorso per costruire un’alternativa a questa società, in un momento che per noi giovani in particolare è molto confuso e difficile.

Anche la data non è casuale: abbiamo iniziato l’occupazione il 19 aprile, a pochi giorni dalla Festa della Liberazione per stabilire un collegamento con questa giornata. Infatti il 25 aprile saremo in piazza insieme agli altri compagni e poi nel pomeriggio tutti insieme abbiamo organizzato un’assemblea in università per continuare il discorso.

Stiamo discutendo molto sulla durata dell’occupazione, sicuramente la logica è quella di continuare a resistere finché riusciremo: non è il momento di demordere ma di continuare a costruire questo percorso che è veramente importante. Erano 12 anni che non c’era a Genova un’occupazione universitaria e in questi giorni siamo riusciti a creare uno spazio che accoglie e fa dialogare tra loro i vari soggetti politici e studenteschi. Il nostro obiettivo non è quello di “ricomporre” il movimento cittadino, ma discutere sul che fare, sulla prospettiva da darsi.

Infatti non abbiamo occupato solo o principalmente per protestare e rientrare a fare lezione in presenza, anche perché tornare alla situazione di prima in un’università che già faceva schifo che senso ha? La nostra ottica è quella di un cambiamento strutturale, di sistema, ma soprattutto di classe.

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