Raccontaci quando e come è nata l’iniziativa di sostegno alimentare dell’Isolotto.
Il sostegno popolare dell’Isolotto è nato nel gennaio di quest’anno, dopo che varie compagne e compagni avevano preso parte ad attività autorganizzate in altri quartieri. Siamo partiti, quindi, un po’ in ritardo rispetto ad altre esperienze, anche per limiti nostri. Io, ad esempio, ricordo che nella primissima fase del lockdown mi ero illuso che la crisi fosse così grave che le istituzioni avrebbero dato una risposta collettiva e in grado di difendere tutta la popolazione, realizzando, poi, che le disuguaglianze invece si approfondivano e la parte più vulnerabile della popolazione soffriva particolarmente. Così, prima ho preso parte ad altre esperienze di mutualismo e poi, con altre persone che venivano dai quartieri più periferici, abbiamo deciso di tornare nei nostri spazi e di far nascere qualcosa anche in periferia, all’Isolotto.
Quali sono state le difficoltà principali a cui avete dovuto far fronte?
La parte più difficile probabilmente è reperire le risorse per tutte le persone che hanno bisogno, che aumentano sempre di più: dopo che si sparge la voce, che la crisi si acuisce, c’è necessità di molto più di quello che abbiamo.
Siamo sempre alla ricerca di cibo da distribuire, la stessa Casa del Popolo che ci ospita non ha più soldi per pagare le bollette, quindi siamo senza frigo, senza luce, cosa che complica la nostra attività.
Anche le istituzioni ci hanno messo la loro parte, nel senso che non ci hanno favorito in nessun modo, anzi, ci hanno intralciato nella ricerca di spazi che sarebbero stati idonei e disponibili e non ci sono stati concessi, questa è stata un’ulteriore frustrazione, perché persone che dovrebbero essere pagate per risolvere i nostri problemi alla fine sono state più un intralcio che non un supporto.
Che tipo di risposta avete ricevuto dal quartiere? Siete riusciti ad allargare la rete di partecipazione a quanto già esisteva sul territorio se sì in che modo?
L’incontro con altre realtà è stato molto positivo: ora collaboriamo con una Casa del Popolo, già prima ci eravamo avvicinati ai Rossi del Calcio Storico, al Circolo dei Pensionati… siamo molto contenti della risposta che c’è stata. La zona in cui operiamo ora- quella di San Bartolo, nella zona sud di Firenze, è molto periferica e marginalizzata. Già da tempo, ormai, è abbandonata a se stessa, quindi anche i legami sociali e le attività del quartiere sono molto precarie. Nonostante questo, tutti i negozianti con cui abbiamo parlato ci hanno dato la loro solidarietà anche concreta. Mancava e manca tutt’ora una “politicizzazione”.
Una delle questioni più dibattute all’interno degli organismi del sostegno alimentare, delle brigate, ecc. è il come non scadere nell’assistenzialismo e non agire come “stampella del sistema”. E’ una discussione che state affrontando anche voi?
Sono d’accordo sul fatto che l’assistenzialismo sia un grande rischio che corriamo con la nostra attività, tanto più vedendo che progetti di solidarietà preesistenti adottavano quasi esclusivamente questa logica. Mi riferisco a quelli degli anni passati, prima del lockdown, quando le attività solidali erano in mano a Caritas e altri gruppi che, esplicitamente, adottano pratiche solo assistenziali.
Noi, anche grazie al confronto con altri gruppi autorganizzati, proviamo a coinvolgere il più possibile le persone che hanno bisogno del pacco, e anche chi pensava di trovare in noi i “buoni samaritani” che aiutano il prossimo si è accorto abbastanza in fretta che non eravamo e non possiamo essere questo, anche perché noi siamo i primi ad essere toccati dalla crisi… la Casa del Popolo, ad esempio, non ha la luce… Non siamo persone ricche che provano ad aiutare il più povero per questioni di coscienza. Siamo persone che hanno bisogno, come loro, di una rete solidale che ci protegga, e questo è stato – almeno per ora – abbastanza capito dalle persone che si sono rivolte a noi. Crediamo che fare parte di un gruppo unico – chi aiuta e chi è aiutato, senza distinzioni di ruoli al nostro interno – aiuti a superare l’assistenzialismo, un altro ingrediente è la volontà di sognare in grande, non limitarci a “sbarcare il lunario”, a far passare quest’emergenza, ma avere progetti più di ampio raggio.
Alcuni spazi liberati in città, tra cui l’occupazione di via del Leone che ospita e che ha promosso le attività del sostegno alimentare, sono al centro di un importante attacco repressivo per la manifestazione del 30 ottobre scorso. Pensate che la repressione possa essere una leva o un freno all’attività?Alcuni spazi liberati in città, tra cui l’occupazione di via del Leone che ospita e che ha promosso le attività del sostegno alimentare, sono al centro di un importante attacco repressivo per la manifestazione del 30 ottobre scorso. Pensate che la repressione possa essere una leva o un freno all’attività?
Intanto, da parte nostra, esprimiamo la massima solidarietà alle compagne e ai compagni del Sostegno Alimentare San Frediano e a tutti gli altri movimenti colpiti dalla repressione, sto pensando anche alle lavoratrici e ai lavoratori della TexPrint di Prato, una lotta per la quale ci stiamo adoperando anche concretamente.
Chiaramente, la repressione è di ostacolo, complica la nostra attività, perché avere persone in meno che si dedicavano anima e corpo a questi progetti è sempre un danno per noi che viviamo di solidarietà. D’altro canto, a lungo andare, non può essere certo la repressione a fermare questi progetti, anzi: la miseria, le contraddizioni che ci sono in questa società vengono acuite da questi interventi. I nodi vengono al pettine e la repressione non può abolire le motivazioni della nostra azione. Questo si è visto anche concretamente nella solidarietà che, istintivamente, abbiamo ricevuto da tutti e tutte le volontarie e le famiglie che fanno parte del Sostegno Popolare.
Sulla base della vostra esperienza potete descriverci la situazione di emergenza nel territorio in cui intervenite?
Come dicevo, l’Isolotto e, in particolare, l’isolato in cui operiamo, sono estremamente periferici e abbandonati. Degrado e cementificazione vanno di pari passo. Ormai non c’è praticamente più niente, tutto sta chiudendo e i giovani – chi può – lasciano la zona. Chi resiste ha dimostrato grande empatia collaborando col nostro progetto, dandoci attivamente una mano. Qualche anno fa c’era il Campo Nomadi del Poderaccio, che poi è stato sgomberato con le ruspe dall’amministrazione Nardella (PD), senza che questo ovviamente risolvesse il problema: questo oggi lo tocchiamo con mano, perché tante delle persone che prima hanno “subito la ruspa”, oggi subiscono il lockdown, vengono da noi a chiedere aiuto e sono anche in prima linea a dare una mano.
Dall’inchiesta che abbiamo fatto, è emerso che molte famiglie non riescono più a pagare l’affitto… neanche quello calmierato dal Comune, dato che si tratta comunque di prezzi esorbitanti. Ci sono molti sinti, molti immigrati, soprattutto di seconda generazione, tutte persone ben integrate, che parlano un italiano perfetto e in alcuni casi lavoravano in settori particolari, come ad esempio lo spettacolo. Il Covid ha fatto traboccare il vaso: già prima lavoravano a nero, con poche garanzie, erano abituati a doversi fare andare tutto bene e sopportare questa situazione che già prima era pesante. Quei sacrifici che facevano fino a prima del Covid non sono più una strategia percorribile per sopravvivere, quindi c’è bisogno di ricreare legami sociali che si erano un po’ “appassiti” nel tempo.
Avete preso parte a diversi confronti nazionali e locali tra brigate: che cosa ne avete ricavato in termini di insegnamenti e quali sono, secondo voi, le prospettive di sviluppo?
Noi abbiamo avuto la fortuna di nascere “in ritardo” rispetto ad altri organismi e quindi di poter sfruttare l’esperienza che avevano accumulato altre realtà di cui facevamo parte. In verità non si può dire che queste esperienze ci abbiano lasciato particolari “verità” o illuminazioni, ma una pratica quotidiana di come agire in situazioni particolari, estremamente emergenziali, ci ha aiutato nell’affrontare al meglio i problemi dell’Isolotto. Il coordinamento, sia locale che globale, è imprescindibile se vogliamo far di questo progetto l’occasione per dimostrare che l’organizzazione dal basso può essere più efficace di quella che ci viene proposta dalle istituzioni borghesi.