Anche le sconfitte, se affrontate con una giusta concezione, ci spingono ad avanzare

Lettera di Rosalba Romano

Come i lettori di Resistenza sanno, l’iter processuale contro l’operato di Vigilanza Democratica che mi vedeva imputata si è concluso: la Cassazione ha confermato la mia condanna al risarcimento di Vladimiro Rulli, un ex celerino del VII Reparto mobile di Bologna, che avrei diffamato con un articolo pubblicato sul sito di cui ero intestataria.

Non mi aspettavo un esito diverso: è abbastanza chiaro a quanti seguono la lotta contro gli abusi di polizia che nel nostro paese è difficile averla vinta se fai controinformazione su un tema tanto delicato. Lo Stato protegge gli uomini di cui si serve per mantenere il suo potere e se ogni tanto il clamore mediatico rende inevitabile che uno di essi finisca in carcere, ci resta per poco per ritornare presto finanche a vestire la divisa.
Ma le regole, si sa, non valgono per tutti e la giustizia con la G maiuscola non esiste. Anche la pandemia ce lo dimostra: in carcere puoi morire tranquillamente di Covid-19 se sei un disgraziato qualunque o un prigioniero politico affetto già da patologie debilitanti, mentre per Denis Verdini che ha come genero Salvini e come compari i vari faccendieri che frequentano i salotti bene della politica, le celle, manco a dirlo, si spalancano in un battibaleno.
Le condanne per diffamazione, quand’anche comminate, fanno un baffo ai vari Gianni Tonelli di turno (ex poliziotto del VII Reparto mobile di Bologna, ex segretario del Sindacato Autonomo di Polizia divenuto parlamentare in quota Lega nel 2018) che sulla diffamazione dei familiari delle vittime di Stato basa la sua carriera.

Condanne che sono al contrario devastanti, tanto sul piano economico quanto su quello psicologico, quando colpiscono (e avviene di prassi) chi per ottenere giustizia per i propri cari, morti o menomati per mano della polizia, osa vestire i panni di Davide contro Golia nella lotta che è costretto a ingaggiare contro lo Stato. Ma d’altronde è questo lo scopo di tali condanne.
Conosco compagni che passano la vita a lavorare non per garantirsi un’esistenza dignitosa, ma perché non possono sottrarsi a risarcimenti conseguenti a condanne ingiuste.

Per me il destino sarebbe stato similare se non avessi avuto il P.CARC a sostenermi, se la mia battaglia contro gli abusi di polizia e per la libertà di espressione non fosse inserita in un contesto più ampio: quello del lavoro che come Partito ogni giorno conduciamo per costruire un governo di emergenza popolare.

Formalmente esco sconfitta da questo processo. Ho deciso di non pagare a fronte di una condanna ingiusta e per farlo ho dovuto rinunciare a un lavoro che mi garantiva autonomia economica e dignità.
Una condanna pecuniaria pende, sempre e comunque, come una spada di Damocle sulla tua testa.
Se decidi di pagare la cifra iniziale – cosa che con sacrifici grandi potresti anche fare – ti ritroverai a pagare di continuo: risarcimenti civili ben superiori a cui il verdetto di Cassazione ha aperto la strada, altre multe e sanzioni pecuniarie con cui non tarderanno a colpirti per affossarti del tutto e allontanarti dalla lotta di classe. Se invece decidi di lasciare i vari Rulli – che all’indomani della sentenza vengono immediatamente a batter cassa – col “cerino in mano”, allora dovrai essere conseguente a tempo indefinito con la scelta fatta e non potrai fare/avere cose che una persona normale desidera: comprare una casa, una macchina, avere un lavoro regolare.

In realtà, da questo processo io esco vittoriosa e rafforzata. Ho contribuito col mio modesto esempio, determinando per tempo e col supporto del mio Partito le condizioni che mi avrebbero consentito di non rendere esigibile la condanna, ad aprire una strada, una strada che non tutti attualmente possono o si sentono di percorrere, ma su cui altri, sono certa, si metteranno.
Ho impedito al “nemico di classe” di usare i suoi mezzi per distogliermi dalla lotta, per farmi desistere (se non anche dissociare da chi con me quella lotta la conduce). Ho/abbiamo usato anche questo processo per portare in tutti gli ambiti in cui siamo intervenuti la nostra linea sulla repressione, sulla lotta alla repressione e sulla solidarietà di classe.
Ci siamo rapportati con elementi singoli e organismi che già operano su questo terreno in ordine sparso e abbiamo spinto per il loro coordinamento, un coordinamento che travalica i limiti dell’ambito ristretto per incidere in senso più ampio: la lotta contro la repressione sempre più dispiegata, contro le sanzioni pecuniarie, per la libertà d’espressione è, infatti, anche lotta per la difesa dei posti di lavoro (vedi cariche e multe ai SI Cobas), per la sicurezza sul posto lavoro (vedi provvedimenti punitivi contro chi denuncia la carenza dei Dispositivi di Protezione Individuali), per la difesa dell’ambiente (vedi repressione No TAV), ecc. È in definitiva lotta per una società non piegata agli interessi dei capitalisti.

A pensarci bene, questa condanna mi ha reso più libera anche mentalmente, mi ha in un certo qual modo affrancato da modi di pensare e agire fortemente “condizionati” dall’ideologia dominante. La pandemia ha stravolto l’esistenza di milioni di persone, le certezze sono crollate e ciò che un tempo era “stabile” all’improvviso è divenuto “precario”. In tutto questo, in un certo senso, io ho solo rinunciato, in anticipo, a una “stabilità” che era solo fittizia (il lavoro i capitalisti te lo tolgono quando vogliono e non c’è contratto che tenga) e sto imparando che ciò che è in grado di darmi reale slancio morale, serenità e anche sicurezza io lo trovo nel Partito.

Nel Partito non si è soli e la conduzione della battaglia che colpisce ogni singolo membro viene pianificata e condotta alla luce della concezione comunista del mondo, con obiettivi che travalicano la lotta particolare e che per questo sono in grado di infondere fiducia al di là del risultato solo apparentemente negativo di un procedimento giudiziario.
Per me non era il primo processo, ne ho subiti degli altri e in tutti le autorità intendevano “punire” la mia militanza. Pertanto, questa ultima condanna confermata dalla Cassazione è solo l’ennesima dimostrazione di come un’azione repressiva può sempre sortire un duplice effetto: può indebolire chi viene colpito da essa, ma anche ribaltarsi contro chi l’ha ordinata.
Esco anche da questa esperienza con la convinzione consolidata che vincere la guerra che ci porterà a instaurare il socialismo è del tutto possibile e la lotta alla repressione, la resistenza contro la repressione e la solidarietà di classe forgiano le masse popolari a condurla con successo.
Rosalba Romano

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