Scuola, aprire o non aprire? Gli studenti e gli insegnanti sanno cosa fare e come farlo

Il Ministero dell’Istruzione e le istituzioni locali non hanno ancora dato l’ok all’anno scolastico in presenza per tutti e continuano col balletto delle chiusure e aperture. Che una Regione decida o meno di riaprire le scuole non ha quasi o niente a che vedere con gli indici di contagio: dietro ci sono spesso ragioni di ordine economico.
In autunno le scuole sono state aperte e subito richiuse non per evitare i contagi, ma perché adeguarle alle norme contro la pandemia (assunzione di personale, aumento di mezzi pubblici, ampliamento delle aule, ecc.) costava troppo! Abbiamo visto zone gialle, arancioni, rosse… L’unica costante sono state le scuole chiuse o quasi: sono state le prime a serrare le porte e le ultime a riaprirle, mentre nel frattempo il governo autorizzava lo shopping natalizio, le messe e via dicendo. La scuola pubblica non produce profitto immediato per i capitalisti, è solo un costo, quindi può rimanere chiusa.

Oggi, a fronte delle nuove parziali aperture (ottenute dopo mesi di lotte), tra gli studenti e i lavoratori della scuola esistono tre linee di condotta:
– C’è chi ha paura del contagio e non vuole rientrare a scuola perché non possono essere garantite le misure di sicurezza. Effettivamente la situazione è, bene o male, la stessa di settembre. Poco o nulla è stato fatto per mettere le scuole in sicurezza e prevedere un rientro che non si risolva in una chiusura dopo pochi giorni. Il pericolo di contagio c’è: perché le classi-pollaio sono ancora un problema, perché non è stato assunto personale, perché ci si contagia sui mezzi pubblici, ecc.

– Tra chi preferisce rimanere a casa ci sono anche gli studenti a cui “va bene” continuare con la Didattica a Distanza (DaD). I media borghesi li usano come leva contro le mobilitazioni di chi è sceso in piazza e ha occupato le scuole per imporne la riapertura. Al di là dell’uso strumentale, si tratta di una questione reale: anche chi non vuole rientrare a scuola ha, in un certo senso, ragione. Perché intuisce, crede e vede che la scuola in presenza, fatta mettendo una toppa qua e là, effettivamente serve a poco e nulla. Passare le giornate in casa al computer anziché in classe cosa cambia? Pandemia o non pandemia, ai padroni serve una scuola che formi, nel migliore dei casi, personale per le proprie aziende, non membri a tutto tondo della società: ecco perché la scuola è classista, la didattica frontale e nozionistica e molti studenti la vivono più come un obbligo che come un diritto!

 – C’è chi, in conseguenza di quanto appena detto, la scuola l’ha lasciata o è in procinto di farlo. La crisi da Covid-19 ha esasperato questo fenomeno che è in crescita da anni. Per questi ragazzi spesso la percezione dell’inutilità della scuola si combina con la necessità di trovare un lavoro per dare una mano alla famiglia e non è un caso che l’abbandono scolastico riguardi principalmente i ragazzi più poveri, gli studenti stranieri e del Sud Italia.

– Ma c’è anche chi vuole ritornare a scuola e alla didattica in presenza. Di quest’ultima categoria prendiamo in esame la parte più avanzata, cioè chi si sta mobilitando per delle effettive riaperture. Ad esempio, i genitori degli studenti, che hanno agito per vie legali ricorrendo al TAR contro le ordinanze regionali di chiusura delle scuole in Lombardia, Campania, Friuli, Veneto, Emilia Romagna. Oppure i dirigenti scolastici come quello dell’istituto professionale Ianas di Tortolì, in Sardegna, che hanno riaperto gli istituti interpretando a favore degli studenti i DPCM del governo.

In tutto questo non sono mancate iniziative “legittime anche se illegali”.
Oltre alle varie proteste di piazza, fin dai mesi autunnali molti studenti hanno seguito le lezioni in DaD, ma ritrovandosi davanti alle proprie scuole (a volte subendo anche l’espulsione o addirittura la repressione poliziesca), coinvolgendo professori e genitori.
I professori del gruppo Priorità alla Scuola hanno cominciato a organizzare le lezioni all’aperto davanti alle scuole insieme alle loro classi (come a Firenze). Undici scuole superiori di Milano sono state occupate dagli studenti a gennaio per imporne la riapertura. A Roma, il 23 gennaio, la polizia ha cercato di impedire con la violenza l’occupazione del liceo Kant.
Spesso, come nel caso del liceo Severi-Correnti e del liceo Virgilio di Milano, le occupazioni sono state fatte in sicurezza, con gli studenti che si sono sottoposti al tampone prima del rientro (vedi l’articolo sulla Brigata “Soccorso Rosso” a pag. 9). Questo a dimostrazione che persino degli studenti minorenni sanno prendere misure di sicurezza migliori di quelle che il governo ha messo in campo a quasi un anno dall’inizio della pandemia…
Le mobilitazioni sono tante, ogni giorno ne nascono di nuove. Il governo continua a non occuparsi della cosa e, anzi, manda la polizia a picchiare i ragazzi che vogliono tornare a scuola. Quello che ci preme far notare è che il movimento per la riapertura in sicurezza è diffuso da una parte all’altra del paese perché, da marzo in poi, il Ministero dell’Istruzione ha abdicato al suo ruolo (lasciando mano libera alle Regioni) e ha creato una sorta di “vuoto di potere”. Così facendo ha, in negativo, continuato sulla strada dello smantellamento dell’istruzione pubblica, ma ha, in positivo, costretto studenti, professori e genitori a “cavarsela” da soli. Essi si sono ritrovati infatti a dover provvedere da soli alla necessità di garantire il diritto allo studio e alla socialità. Se, da una parte, hanno toccato con mano che le istituzioni non hanno interesse alcuno a garantire i diritti delle masse popolari, dall’altra hanno sperimentato di poter gestire in prima persona, dal basso e in modo finanche migliore la situazione.

Il diritto all’istruzione e a una scuola pubblica e di qualità è una conquista frutto di dure lotte. Con il movimento studentesco del 1968 e gli avvenimenti successivi dell’Autunno Caldo del 1969, le masse popolari italiane hanno imposto alla classe dominante una serie di riforme che essa ha dovuto ingoiare in attesa che, esaurita la prima ondata della rivoluzione proletaria, fosse possibile smantellarle un po’ per volta.
Oggi gli studenti e i professori stanno imparando sulla loro pelle che quei diritti occorre riprenderseli.
Perché ciò avvenga una volta per tutte, occorre fare dell’Italia un nuovo paese socialista!

Campania maglia nera. De Luca straparla, ma se ne lava le mani.
Nell’anno scolastico in corso, la Regione Campania ha tenuto le scuole chiuse più di ogni altra regione italiana nonostante sia stata classificata principalmente “zona gialla”:
– gli asili nido, le scuole dell’infanzia e le prime classi della scuola primaria sono stati aperti per 60 giorni;
– le seconde classi della scuola primaria sono state aperte per 31 giorni;
– le terze, quarte e quinte classi della scuola primaria sono state aperte per 26 giorni;
– le scuole medie sono state aperte per 21 giorni;
– le scuole superiori sono state aperte per 15 giorni tra il 24 settembre e il 15 ottobre e molti istituti hanno scelto autonomamente di fare didattica in presenza per il 50 o il 75% degli studenti. Solo il 1 febbraio riapriranno con “modalità integrata” (50 o 75% di studenti in presenza, come previsto dal DPCM del 17 gennaio), con una settimana di ritardo rispetto al resto delle regioni italiane.
La riapertura delle scuole medie e medie superiori è stata imposta dal TAR dopo i ricorsi presentati dalle famiglie.
A fronte di tanti siparietti a beneficio di social network e pagine di giornali, De Luca non ha fatto niente per affrontare l’emergenza sanitaria: ha deliberatamente deciso che l’istruzine pubblica non è più un diritto per i bambini e i ragazzi della Campania…

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