Molti lettori di Resistenza conoscono già la mia storia, perché molte volte è stata trattata su questo giornale e perché affrontare la mia vicenda giudiziaria ha significato per me anche scegliere di diventare un personaggio pubblico, di metterci la faccia, come si suol dire.
Sono un’infermiera, ma ho dovuto lasciare il mio lavoro per creare le condizioni che mi permetteranno, a fronte di una condanna tanto ingiusta quanto pressoché scontata, di non risarcire un ex celerino del famigerato VII Reparto Mobile di Bologna, Vladimiro Rulli. Grazie al mio Partito – il P.CARC – e alla solidarietà concreta che ho ricevuto e ricevo tutt’ora, ho modo di non dover lavorare una vita solo per arricchire un poliziotto sulla base di una condanna che ha il valore di una rappresaglia.
Il 12 gennaio 2021 si terrà a Roma il grado conclusivo del mio processo: sono già stata condannata due volte ed è probabile che la Cassazione confermerà i verdetti precedenti.
La mia colpa? Essere l’intestataria di un sito – Vigilanza Democratica – di denuncia degli abusi di polizia. Il processo contro di me, al di là dei pretesti addotti, è un processo alla libertà di informazione critica, al diritto/dovere di ogni cittadino di esercitare un controllo dal basso sulle azioni di chi, invece di tutelarci, sperimenta forme violente di controllo sociale, di repressione del dissenso, confortato dall’impunità che il nostro “Stato democratico” gli riconosce.
Esagero? Invito chi vuole a leggere gli atti dei miei processi, a vedere quali forzature sono state compiute per arrivare a una condanna che serva da monito.
Invito chi confida nella giustizia borghese a informarsi su quanti sono i casi di gravi abusi di polizia che nel nostro paese sono stati riconosciuti in un aula di tribunale; a controllare quanti sono invece i poliziotti e i dirigenti di Forze dell’Ordine che, seppur condannati (a volte il clamore dei casi lo rende inevitabile), hanno veramente scontato pene idonee alla gravità degli atti compiuti o non sono stati, piuttosto, premiati e omaggiati nei modi più vari.
A tutti gli italiani sono ormai familiari i nomi di alcune vittime di Stato, assassinate “dai tutori dell’ordine”: dall’anarchico Pinelli – volato giù da una finestra della Questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 – a Federico Aldovrandi, a Stefano Cucchi. Meno noti sono invece i nomi di chi è stato “solo” massacrato di botte e magari reso invalido a vita, come l’ultras del Brescia Paolo Scaroni. Tutti però abbiamo visto scorrere sui telegiornali o visto su Internet, le immagini di qualche pestaggio ingiustificato delle Forze dell’Ordine: contro i NO TAV, operai, lavoratori o studenti che rivendicano il rispetto di diritti costituzionalmente riconosciuti.
Altro che “mele marce”, è l’intero sistema a essere marcio!
In tutto questo, di buono c’è che quello che succede da noi succede in tante parti del mondo e le masse popolari reagiscono contro la classe dominante e i suoi tentativi di preservare “culo e profitti”. Il mondo intero è in fiamme.
La crisi ci unisce nel bene e nel male, rende più comprensibili, più vicini a noi, avvenimenti che accadono in parti più o meno lontane. Tanto più siamo consapevoli di questo legame, tanto meglio riusciamo a trarvi forza, a cogliere le mille crepe che si aprono ovunque nel sistema di potere della classe dominante e a trarre esempio dalle mobilitazioni popolari che scoppiano ovunque nel mondo e che incidono oramai ben oltre le realtà locali in cui si manifestano.
Mentre scrivo penso in particolare a quello che succede negli USA e in Francia, a quello che accade a due passi da casa nostra, dove il disegno di legge Sécurité Globale minaccia di rendere illegale la diffusione “malevola” di immagini di poliziotti in servizio. Bene, gli eventi francesi fanno capire meglio perché in Italia siti come Vigilanza Democratica non sono tollerati e la ragione per cui probabilmente io riceverò una condanna esemplare. Aiutano anche a comprendere perché la mia dovrebbe essere la battaglia di tanti.
Io non ho affatto fiducia nella giustizia borghese, ma ho fiducia nella forza che le masse popolari organizzate possono dispiegare, nella solidarietà di classe che unisce i popoli oppressi di tutto il mondo.
L’esito del mio processo non lo deciderà un’aula di tribunale, ma quello che accadrà fuori e che farà sentire anche in tribunale il suo peso. Se i tempi però non sono ancora maturi perché questo accada, chi come me e il collettivo che mi supporta utilizza anche questi processi per favorire il coordinamento e l’autorganizzazione popolare, avrà comunque vinto la sua battaglia. Avrà fatto un piccolo passo in più verso la costruzione di quel governo di emergenza che risponde ai reali interessi delle masse popolari.
Questi sono mesi che valgono anni: la lotta contro gli abusi di polizia diventerà presto lotta dispiegata delle masse popolari e campo fecondo di crescita della coscienza di classe.
Rosalba Romano