Se l’antitrust dell’UE darà il via libera, l’agenzia statale Invitalia acquisirà il controllo sul gruppo ILVA. Secondo l’accordo raggiunto entro la fine di gennaio del 2021 Invitalia dovrebbe investire 400 milioni in AM InvestCo Italy SPA, la società di Arcelor Mittal che controlla il gruppo ILVA. A maggio 2022 è previsto un ulteriore aumento dell’investimento pubblico fino a 680 milioni di euro, mentre Arcelor Mittal arriverebbe a sottoscrivere fino a 70 milioni. Con questa operazione Invitalia sarà azionista di maggioranza con il 60% del capitale di AM InvestCo, mentre Arcelor Mittal avrà il restante 40%.
L’accordo abbonda di belle parole sulla riconversione ambientale della produzione e sul mantenimento dei livelli occupazionali, ma la storia di ILVA non permette ottimismi a riguardo. Non è chiaro se si tratta di una formula per giustificare nuovi finanziamenti pubblici “a perdere”, se è un accordo con Arcelor Mittal che prevede una qualche immunità o scudo penale per i vertici aziendali, se è una copertura della formula “perdite pubbliche e guadagni privati” o, probabilmente, una combinazione di tutto ciò.
Al momento, l’accordo viene strombazzato dal governo e dai soggetti coinvolti nell’investimento, mentre solleva critiche o sonore bocciature in ambito sindacale, in particolare da USB e Slai Cobas. Arrivano bocciature anche dal sindaco di Taranto Melucci e dal governatore pugliese Emiliano, entrambi del PD. La posizione delle istituzioni locali potrebbe sorprendere vista la loro affiliazione politica al partito governativo, ma risulta più chiara se la contraddizione fra loro e il governo viene letta alla luce di due aspetti. Il primo è la pressione che le masse popolari e i lavoratori di Taranto esercitano sulle autorità locali e il secondo è il tentativo di alzare la posta per amministrare fette corpose dei fondi che dovrebbero arrivare in Italia attraverso il Recovery Plan.
È chiaro che questo ritorno dello Stato nella produzione dell’acciaio non sarà la soluzione ai problemi di ILVA, dei suoi lavoratori come del resto delle masse popolari di Taranto. Quello che serve è una vera nazionalizzazione, ma questo cosa significa? Nazionalizzare ha un significato preciso: mettere al servizio della società un determinato apparato produttivo. La fumosità stessa dell’accordo rivela invece che l’obiettivo principale del governo è continuare a tutelare anzitutto gli interessi padronali e non quelli delle masse popolari. Nazionalizzare è cosa diversa dal salvataggio statale e comporta la messa in opera di precise scelte politiche, una determinata visione della società.
D’altra parte neppure la nazionalizzazione di una singola azienda è la soluzione, neanche nel caso particolare. Rimane inscindibile il legame con il restante apparato produttivo, alla lunga non è possibile creare un’isola felice in cui vigono regole differenti dal restante contesto produttivo nazionale. È impossibile condurre una reale nazionalizzazione di ILVA senza fare lo stesso con la ex Lucchini di Piombino o l’AST di Terni, per esempio. La mancanza di un piano simile rivela la mancanza di vera volontà di rilanciare un settore che è strategico per l’autonomia produttiva del paese. Il problema è che lo sviluppo oggettivo della società e delle sue forze produttive richiedono una gestione collettiva, pubblica, ma la natura del capitalismo, tanto più in questa fase di crisi generale, reclama a sé ogni possibile spazio di investimento e speculazione. Nazionalizzare significa rompere con i capitalisti: questo lo può fare solo un governo che si dà i mezzi per farlo.
Il ritorno dello Stato nella produzione di acciaio può essere un passo verso il Governo di Blocco Popolare oppure sarà un tentativo di diversione?
Questo non lo si può stabilire a priori. Teniamo presente che a questo passaggio siamo arrivati attraverso lo sviluppo concreto della lotta di classe. Senza l’apertura della breccia nel sistema politico del paese, senza il ruolo della mobilitazione e dell’organizzazione popolare e operaia a Taranto, Genova e oltre, non si sarebbe spontaneamente sollevata la questione dell’intervento statale. Quelle stesse organizzazioni operaie e popolari possono determinare lo sviluppo in un senso come nell’altro.
Mobilitarsi affinché lo Stato metta fin da subito in campo le misure necessarie a soddisfare le esigenze delle masse popolari facendo leva sulla sua quota di maggioranza è una via per rafforzare e ampliare queste organizzazioni, per promuovere emulazione e ottenere vittorie che possono innescare percorsi virtuosi. Abbiamo citato la ex Lucchini e l’AST, ma lo sviluppo positivo di questa lotta interessa tutti i lavoratori di aziende in crisi e non solo. Che i lavoratori organizzati spingano già oggi verso una nazionalizzazione orientata alla tutela degli interessi delle masse popolari è un passo concreto per costruire il governo d’emergenza che serve a questo paese!