[Cagliari] Intervista ai lavoratori del Porto Canale, Gianluca Stellino, Danilo Agus e Raffaele Loddo

Abbiamo intervistato tre lavoratori del Porto Canale di Cagliari. L’intervista è sintetizzata in una risposta “unica” e solo dove non abbiamo potuto farne a meno abbiamo citato chi dei tre operai parla. La vicenda di Porto Canale è emblematica del progressivo smantellamento del tessuto produttivo, di cui i padroni sono fautori nel momento in cui non gli interessa, per ragioni di profitto, continuare a investire o far lavorare le proprie aziende. Ma la storia dei portuali è una storia di lotta e di passione per il proprio lavoro, che ha le radici piantate nella storia del movimento operaio. Intendiamo diffondere questa intervista perché oggi, per far fronte positivamente all’emergenza sanitaria, economica e sociale non c’è altra soluzione che mettere mano alla creazione di posti di lavoro: assumere laddove è più necessario e urgente (sanità, cura dell’ambiente e delle persone, ecc.), impedire speculazioni, delocalizzazioni e chiusure e nazionalizzare le aziende in crisi a partire dai più importanti comparti produttivi. Chiediamo a tutti coloro a cui sta a cuore la vertenza dei lavoratori di Porto Canale e in generale le condizioni di vita della classe operaia, di diffondere e far girare questa intervista. Con parole semplici, Danilo, Raffaele e Gianluca descrivono una situazione che sembrerà familiare ai più, in quanto comune a molte, troppe altre situazioni.

Facciamo appello quindi a tenere alta l’attenzione sulla vertenza di Porto Canale, esprimere solidarietà ai lavoratori e fare pressioni sulle autorità locali e nazionali, con iniziative, comunicati, manifestazioni di sostegno e altre attività utili. Oggi l’unica possibilità per uscire dalla crisi sta nella mobilitazione dei lavoratori a prendere in mano le sorti della propria azienda, nella loro organizzazione e capacità di imporre i propri interessi a discapito degli interessi di padroni e capitalisti.

Buona lettura.

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Iniziamo con una breve presentazione, ci raccontate chi siete e che mansioni e ruoli avete nel porto?

Gianluca: lavoratore storico di porto canale, avevo ruoli amministrativi. Sono segretario regionale dell’ UGL, entrato nel porto nel maggio 2000.

Danilo: sono un operaio iscritto alla Cisl ma provengo dalla CGIL, e tutti e tre siamo da anni attivi per salvare il nostro posto di lavoro. Mi occupavo di logistica e pianificazione.

Raffaele: iscritto Cisl, coordinatore settore porti per il mio sindacato, operatore di tutti i mezzi presenti nel porto, dai più piccoli ai più grandi, dal trattore ai camion, gru su gomma, carrelli elevatori di tutti i tipi e gru di banchina. Tutto il ciclo operativo lo conosco bene grazie alla mia ventennale esperienza.

Ci descrivete in breve la realtà del Porto Canale? Quali attività porta avanti l’azienda e quali istanze portate avanti come lavoratori? Come siete organizzati nel porto?

Il progetto del Porto Canale di Cagliari, ossia della costruzione di un porto industriale, nasce agli inizi degli anni ’70. Tra il progetto, la costruzione e la partenza ci sono voluti trenta anni. I lavori si sono intensificati negli anni ’90. Era un’opera enorme che ha richiesto investimenti importanti, stimati intorno ai 1000 miliardi di lire, giungendo alla conclusione dei lavori nel ’96. Ovviamente come da prassi per la costruzione d’infrastrutture di questa portata è stata fatta più di un’inaugurazione con tanto di Presidente della Repubblica. Ci fu grande interesse per questo nuovo lavoro, per le opportunità che presentava, perché era un mercato nuovo in quegli anni di avanguardia dal punto di vista tecnologico: soprattutto in Sardegna non c’erano lavorazioni simili, e ancor meno, maestranze specializzate. Si pensò quindi a un bando pubblico per selezionare e formare il personale. A questo bando parteciparono 25000 sardi, e furono selezionati 120 lavoratori, manutentori elettrici e meccanici, operatori terminalisti specializzati e programmatori alla produzione. I corsi di formazione durarono da 1000 a 1200 ore con tanto di stage nel porto di Genova.  Il Porto Canale è una struttura che nel maggio 2000 (quando i primi fra noi sono stati assunti) era relativamente recente, con gru di banchina non particolarmente alte, a basso profilo, ma abbastanza performanti. Oltre alle sette gru di banchina erano presenti: carroponti gommati, carrelloni, trattori e quant’altro serviva per rendere operativo il terminal. La società in principio aveva una forte componente pubblica nell’azionariato circa il 36%, tra cui il consorzio industriale di Cagliari, la IRITECNA appartenente al gruppo IRI e la SFIRS. Si prestava particolare attenzione alla sicurezza e tutto il personale presente in porto era ben formato e dotato di tutti i DPI (dispositivi di protezione individuale): caschi, guanti, scarpe antinfortunistiche… noi lavoravamo così, ci veniva naturale, eravamo abituati, tant’è che nella storia del porto industriale di Cagliari ci sono stati pochissimi incidenti rilevanti. Eravamo e siamo molto legati al nostro lavoro, era bello vedere la gente che lavorava in mezzo ai containers colorati, le squadre esterne con le tute verdi, e ognuno con un casco, del colore che ne indicava la mansione. Eravamo un meccanismo che lavorava in sincronia, quasi come gli ingranaggi di un orologio. Nel primo periodo lavoravamo tantissimo, ci sono stati almeno cinque false partenze, come personale eravamo molto sottodimensionati, e c’è chi è arrivato a fare tutti i turni di notte per un mese intero. Avevamo tra i 24 e i 30 anni, e nei periodi startup, si lavorava 11 ore al giorno. Sindacalmente abbiamo sempre adottato la linea di accettare anche il sacrificio (si doveva dare un mercato al porto) ma per una settimana/10 giorni dopo, però bisognava risedersi al tavolo, per non dare per scontato che dovessimo lavorare come muli da soma in nome del “lavoro”. Venne il maggio del 2002: la maggior parte di noi (tutti i vincitori di concorso) aveva un contratto a termine di 24 mesi e, a scadenza contratto, ci immaginavamo di finire tutti a casa senza rinnovo. Volevano licenziare il 40% della forza lavoro nonostante gli anni impiegati per tirare su l’intera struttura, la formazione del personale con il relativo costo (per lo più a carico del pubblico), e l’esperienza di quei due anni che aveva comunque affinato le nostre competenze da portuali. Quel 40% poteva essere ognuno di noi. A quel punto guardandoci in faccia abbiamo detto “basta”, che non era giusto continuare così, dovevamo aprire un ragionamento, avevamo dato tanto all’azienda col nostro lavoro, in termini di disponibilità, di flessibilità e soprattutto con la nostra professionalità. Ci siamo “incaponiti” e ragionando insieme, abbiamo capito che se ci volevamo salvare dovevamo dare un segnale forte. Fu la prima nostra grande lotta e per 42 giorni abbiamo occupato il porto, eravamo più di 100 operai, che avevano deciso di lottare insieme per provare a costruirsi un futuro. Nel piazzale erano presenti diverse centinaia di containers (che dovevano raggiungere ognuno la sua destinazione), ci fu quindi un gran fermento, sia l’Autorità Portuale (all’epoca commissariata) che la Regione affinché li imbarcassimo sulle navi. Chiaramente erano incalzati dai proprietari delle varie merci. Così come previsto dalla legge, eravamo obbligati ad imbarcare i containers con merci pericolose e degradabili, tutte quelle cose che avrebbero sofferto di più per la fermata, si organizzarono le squadre per i servizi minimi e di vigilanza. Il porto era autogestito; il messaggio che non ci saremmo arresi era passato! All’epoca dello sciopero i tre delegati sindacali (RSA) rivestivano i diversi ruoli del reparto operativo, uno era manutentore, uno pianificatore e il terzo era un operatore polivalente, quindi abbiamo detto (spinti da tutti gli operativi) che se volevano che imbarcassimo i container si potevano levare di torno, che saremmo riusciti a farlo da soli, una bell’esperienza di autogestione.  Le merci deperibili le facevamo passare il resto no. Ogni tanto cercavano di infilare un container di resina o altre cose che sicuramente non erano né pericolose e tantomeno degradabili, ma noi controllavamo, e forti delle leggi in vigore dicevamo cosa poteva passare e cosa no. Eravamo giovani e inesperti, ma lo spirito di squadra ci dava forza, è stata una bella esperienza che ci ha formato nel carattere e nello spirito, ci ha permesso di accrescere le nostre competenze e ci ha dato nuovi strumenti per confrontarci in maniera più attiva e positiva nei confronti dell’azienda e delle istituzioni. L’eco mediatico fu notevole, vennero testate regionali e nazionali, stampa e TV, c’era tanta rabbia ma infondo è stato anche un bel momento, di cui ricordiamo ancora tanti aneddoti positivi. Anche in quell’occasione abbiamo fatto di tutto per sensibilizzare organi di stampa, la politica locale, regionale e nazionale. Inizialmente l’azienda provava a prendere per la gola, eravamo giovani inesperti e avevamo tanta diffidenza. Inizialmente abbiamo anche chinato la testa, perché il coltello dalla parte del manico ce l’avevano loro. Poi siamo entrati nei meccanismi, iniziavamo ad essere consapevoli della nostra forza, a capire com’era giusto procedere, cosa era intelligente fare e cosa non lo era.

Intorno al 2003/2004 subentrò la Contship Italia, l’azienda che oggi ci licenzia. In quel frangente fummo molto contenti di sapere che arrivava a Cagliari una società che era considerata leader nel settore, praticamente monopolista in Italia, era proprietaria del terminal di Gioia Tauro (il porto che movimentava più container nel Mediterraneo), aveva il terminal di Ravenna, Livorno, La Spezia e l’Interporto di Milano. Iniziava un periodo rosa di continua crescita, continuarono ad assumere, iniziando dai corsisti ancora a casa. Arrivano istruttori e responsabili da altri terminal per portare a Cagliari il modus operandi di Contship. Nel giro di pochi anni chiesero di fare dei nuovi corsi regionali per altri 50 operatori e le assunzioni continuarono. Alla fine della giostra negli anni d’oro, che sono stati dal 2014 al 2017, i lavoratori assunti diretti erano 218 senza contare le altre aziende collaterali. Si arrivava a 350 lavoratori solo nell’indotto diretto.

Sempre in quegli (2003) anni ci fu la prima contrattazione di secondo livello, che ha migliorato le nostre condizioni lavorative e i salari. Il maggior risultato l’abbiamo ottenuto nella seconda contrattazione che, ha determinato il nostro maggiore benessere sul lavoro sino a questi anni scorsi, costruita mattone su mattone con la lotta e frutto delle conquiste precedenti, che ha fatto sì che arrivassimo a un livello di eccellenza. Spesso e volentieri siamo stati da spunto per i lavoratori portuali di altre città. E’ stata un’esperienza positiva anche da quel punto di vista. Via via, con il passare del tempo, siamo infatti riusciti a creare un meccanismo che salvaguardava gli orari di lavoro, e i tempi di riposo, uno dei pochi porti, se non l’unico con l’operativo che girava su turni H24 a 8 ore. Era inoltre previsto il cambio di mansione quando il turno iniziava con incarichi maggiormente gravosi.

Cosa ha determinato i problemi che hanno portato all’attuale situazione, ossia il vostro licenziamento e una vertenza bloccata?

La Contship aveva il controllo assoluto del porto, sino a poco tempo fa era considerata come il monopolista del traffico container, ciò ha permesso a questi signori di far credere a tutti gli altri che la loro parola fosse il verbo, era impossibile mettere in discussione il loro operato e le loro affermazioni. Questo è stato il nostro vero grande limite perché un semplice lavoratore, fosse sindacalista o operaio specializzato, non poteva sconfessare le loro verità assolute. Sino a qualche anno fa la Contship era considerata la Fiat dei porti. Se noi, Danilo, Gianluca o Raffaele, sollevavamo dei dubbi ci Rispondevano: “come? sollevare dubbi sulla Batistello? Era vista come l’Agnelli del container. Spesso ci arrivava una pacca sulla spalla, altre volte una brutta frase: “lo stipendio lo stai prendendo? Ma cosa volete? Ci sono problemi veri da risolvere!” Perché in Italia non si gioca mai in anticipo…Già dal 2011 abbiamo iniziato a sollevare dubbi su un progetto che a noi sembrava chiaro, ma non siamo mai riusciti ad essere convincenti, perciò c’è capitato di sentirci schiacciati, incompresi e compressi dalla cappa della politica, e delle volte dallo stesso sindacato perché le dinamiche cagliaritane si mescolavano ad altre dinamiche di carattere nazionale. 

Ancora, tra gli altri problemi ricordiamo sempre nel  2011, la società che scalava il porto di Cagliari e usufruiva dei nostri servizi chiedevano gru adeguate al cambio del mercato. Ogni società di trasporto merci via mare punta all’efficienza, cioè la nave deve trasportare tanti containers e stare in banchina il minor tempo possibile. Per questo motivo anche i porti avrebbero dovuto adeguarsi: da questo momento nasce la necessità di un cambiamento, fondali più profondi per far passare navi più grandi e con maggior pescaggio, gru più alte e più larghe e sempre più performanti. Noi a Cagliari siamo rimasti indietro rispetto al mercato: una cosa paradossale, solo dieci anni prima eravamo un terminal competitivo, purtroppo mai all’avanguardia. Uno dei primi campanelli d’allarme tra i lavoratori, rispetto al triste futuro in cui l’azienda ci stava portando, è stato il fatto che dopo l’assunzione dei corsisti del 2004 non si è pensato mai a una politica di rinnovo generazionale. Noi abbiamo quasi tutti tra i 40 e i 55 anni. Inoltre non c’è stata mai la volontà di investire, nonostante l’azienda negli anni d’oro guadagnasse mediamente da 4 ai quasi 7 milioni netti l’anno. Si sono sfruttati una montagna di soldi pubblici, soprattutto in corsi di formazione e qualcosa per la conversione energetica, ma i finanziamenti per gli investimenti sono rimasti inutilizzati; si doveva partecipare alle spese! Per chi la guardava da fuori, poteva sembrare un’azienda sana, e le nostre denunce sono state avvilite e mortificate più volte, e chi era preposto alla vigilanza, a tutti i livelli, è stato ingannato dalla falsa serietà di “questi signori”, che alla fine della giostra hanno preferito delocalizzare i loro investimenti e mercati, in luoghi dove il costo del lavoro e non solo, permettono maggiori economie e ben altri guadagni. Per vie traverse, abbiamo saputo che il destino del nostro porto così come quello del gruppo Contship Italia è stato deciso in Germania. Chissà quanto c’è di vero.  Ad alimentare e rendere credibile quest’aneddoto tuttavia sono i rapporti fra le seguenti società. Il gruppo tedesco Eurogate-Eurokai,  ha la maggioranza delle quote azionarie di Contship, dove Eurogate è gestito da Thomas Enkelmann, marito di Cecilia Battistello, presidente Contship! Tutto in famiglia insomma. Inoltre esiste una compartecipazione azionaria fra Eurokai e Hapag (principale cliente del porto cagliaritano).

Nel tempo avete provato a organizzarvi tra operai del Porto? In molte realtà italiane ad esempio, a livello di fabbrica, il padrone ha avuto più difficoltà laddove i lavoratori erano coesi anche in un piccolo gruppo, ma combattivi.

(Danilo). Ho sempre creduto molto in questo tipo di approccio. Quando ero in CGIL insieme ad altri compagni, siamo riusciti a creare una sorta di coordinamento nazionale, una rete tra  portuali , più o meno erano gli anni 2006-2007. Era molto utile scambiarsi informazioni e condividere obiettivi. Ci abbiamo provato pure a livello locale, ritagliandoci una fetta importante nelle trattative in quegli anni, in cui nonostante la crisi globale, abbiamo rafforzato la base e consolidato in parte il nostro peso. Purtroppo la CGIL non aveva un comparto porti ed il dialogo era difficile, e i rapporti con le varie segreterie andarono via via degenerando, sino alla rottura.

In quegli anni inoltre, provammo a costruire un fronte comune, la sua massima espressione fu la presentazione di una lista (elezioni del Comitato Portuale) unitaria di lavoratori di varie imprese, oltre la CICT con i colleghi della ITERC. Si chiamava “Fronte del Porto”. La voglia di diventare parte attiva nei tavoli importanti era tanta, per tre voti mancammo il risultato di eleggere due consiglieri su cinque. Sembrava superata la logica dei lavoratori “divisi” nelle singole imprese “ognuno per se” ma, l’idillio non duro a lungo. Il delicato equilibrio di tante piccole imprese portuali, è tornato in breve a trovare il suo status quo. Ogni realtà è tornata ad ambire a rappresentarsi singolarmente… “se noi non siamo rappresentati lì dentro, non contiamo più niente e diventa difficile conoscere i bandi, accedervi… e l’azienda chiude. E’ vero che voi lavoratori siete rappresentati, ma domani non c’è niente da rappresentare se sei disoccupato”. Con meccanismi simili, la parte datoriale alimentava le divisioni fra lavoratori e riprendeva il suo vecchio ruolo. Spesso questi meccanismi erano alimentati dagli stessi lavoratori, non era infrequente che si candidassero e fossero eletti lavoratori molto vicini agli apparati dirigenti. Queste sono le difficoltà incontrate nel percorso, che alla fine non si è mai concretizzato, ma noi siamo cocciuti, e continuiamo a crederci. Le cose sono un poco cambiate, negli anni che vanno dalla crisi del 2009, sino al 2014, abbiamo vissuto il periodo sindacalmente più florido: partendo da una buona trattativa di secondo livello, l’abbiamo migliorata sin dove era possibile e cercato di limare le diatribe ancora aperte, si sono stretti nuovi rapporti con altre realtà portuali, soprattutto Gioia e Taranto per similitudine. Abbiamo studiato tanto e pensato a nuove leve, per portare anche i nostri rappresentanti nazionali a spingere là dove noi da soli non potevamo arrivare. Dopodiché bisogna fare i conti con i propri limiti, che sono tanti e sono emersi con forza. Hanno fatto di tutto per dividerci, isolarci e metterci da parte. Infondo abbiamo pagato il prezzo del fatto che non siamo riusciti realmente a strutturarci, a costruire dei rapporti di forza adeguati alla potenza dei nostri interlocutori.

Il prezzo della nostra sconfitta ha un sapore doppiamente amaro, la perdita del posto di lavoro in primo luogo, ma non è certo secondario il prezzo pagato da tutta la popolazione sarda, perché la chiusura di Porto Canale ha portato anche ad un aumento dei costi di trasporto del 30% circa, e lo possiamo vedere tutti i giorni sugli scaffali dei negozi o al mercato. Un’altra grossa mazzata è arrivata quando l’ex Ministro ai Trasporti Del Rio ha declassato i porti di Cagliari e Taranto destinando un unico porto al transhipment puro, il terminal di Gioia Tauro. Comunque già prima della riforma si era creata una situazione per cui lo Stato non pianificava più grossi investimenti sulla maggior parte dei porti e ci si affidava sempre più ai privati. I porti stanno diventando quasi tutti MSC (Mediterranean Shipping Company) una società che piano piano sta occupando il posto di Contship, oppure compartecipati cinesi (la nuova via della seta) insomma, di società che oggi hanno deciso di investire in Italia, spendendo capitali privati su qualcosa che poteva rimanere almeno in parte pubblica.  In principio pure al porto Canale la società aveva un forte componente pubblico poco sotto il 40%, nell’ultimo periodo è scesa al 4%, per poi sparire nell’aprile dell’anno scorso cedendo le ultime azioni. Un percorso anomalo anche questo, il socio pubblico non avendo contribuito a sanare il buco in bilancio e sul capitale sociale, ha permesso al socio di maggioranza di acquisire le azioni. Si è lasciato tutto in mano ai privati che da lì a poco tempo, hanno completato le procedure per chiudere definitivamente.

L’azienda nonostante i tentativi di salvataggio, così afferma, ha deciso di liquidare l’attività con un licenziamento collettivo. Questo ha comportato diversi problemi chiaramente. Questa liquidazione è passata per una cassa integrazione con il famoso Decreto Genova e per un anno è stata erogata la CIGS ai lavoratori, nella speranza che in qualche modo ci fosse la possibilità di riprendere con l’azienda stessa o che un nuovo vettore potesse scalare a Cagliari acquisendo la concessione, e in qualche modo far riprendere a lavorare il porto. Questa era la nostra speranza, ripartire. Non come prima ma meglio di prima! Questa è la crisi peggiore che abbiamo mai visto. Prima la cassa integrazione, poi un sacco di parole, di promesse: “state tranquilli, stiamo lavorando per voi, ce la facciamo”. Ma oggi ci ritroviamo ancora ad avere grosse difficoltà, il porto fermo e 218 lavoratori licenziati, alcuni han trovato un lavoro, un numero esiguo sono stati assorbiti dalla Grendi che gestisce il traffico dei contenitori locali, pochi altri hanno avuto fortuna altrove ma, 180 circa sono a casa e se ne aggiungono altri 300 nell’ indotto. Stiamo parlando di circa 500 famiglie che stanno aspettando di tornare a lavoro e non sappiamo se mai arriverà.

Che ruolo hanno assunto le amministrazioni locali ed eventualmente esponenti di partiti politici? Come sono intervenuti i sindacati?

La politica, non si è mai resa conto dell’importanza che riveste il Porto Canale di Cagliari. E’ una struttura che oggi ha tutta una serie di inefficienze perché chiaramente le gru e i mezzi ormai sono obsoleti e la banchina e i piazzali sono stati progettati e concepiti parecchi anni fa. Ci sono anche delle peculiarità molto positive: un fondale di 16 metri che può essere portato a 18/19 metri con il dragaggio, per cui potrà accogliere le navi di ultimissima generazione (parliamo di navi da 22/24000 containers), della possibilità per una società che vorrà investire nel porto di poter usufruire di quasi 2 km di banchina. Attualmente sono 1520 metri ma c’è un progetto già finanziato dall’autorità portuale per l’estensione di altri 350 mt. La capacità attuale è di 24000 containers, su una superficie di 400000 metri quadri, e con gli spazi retrostanti potrebbe anche raddoppiare. Le potenzialità della zona retrostante sono enormi. La famosa zona franca dopo 20 anni è stata finalmente deliberata. Quasi all’improvviso ma, dopo numerosi tavoli e pressioni che partivano dai lavoratori, passando per la politica locale e i sindacati, sino ad arrivare ai massimi livelli della politica nazionale, così come allo stesso modo, è decaduto il vincolo paesaggistico che dichiarava che il porto era abusivo dal 2000. Tutto è accaduto nel mese di luglio di quest’ultimo anno. Risultati importanti, soprattutto il fatto che non ci sono più i vincoli ambientali, che impedivano lo sviluppo del Porto Canale, una di quelle faccende burocratiche difficile da capire e ancor di più da spiegare. C’era questa incongruenza, il porto è stato costruito con regolare permesso ed è poi “magicamente” decaduta l’autorizzazione dopo diversi passaggi nelle aule dei tribunali. Aver sbloccato questo inghippo ha permesso anche di portare avanti il progetto Zona Franca. Chissà come sarebbe cambiata la storia se queste cose le avessero realizzate prima, mettendo lo scalo in una buona condizione per attrarre traffico e investimenti. Così non è stato. Si son fatte le cose molto velocemente per tentare di salvare una situazione che era già critica, con la società concessionaria che ormai aveva fatto le sue scelte, delocalizzazione verso altri terminal (investimenti a Tangeri e Cipro) e chiusura della C.I.C.T., e poco importa agli investitori se i lavoratori vanno prima in cassa, poi licenziati e infine in NASPI.  Maestranze formate, preparate, che però hanno di fatto perso, non solo un posto di lavoro ma anche le prospettive, perché in Sardegna in concreto è impossibile spendere le nostre professionalità in un lavoro simile. Non esistono realtà affini. Scivolano così fra le dita anche quei pochi diritti acquisiti in una vita di lavoro, di formazione, e di lotta.  Ora ci auguriamo che la politica possa trovare soluzioni per rimettere in piedi il porto con un nuovo operatore e che tutte le maestranze in qualche modo possano essere riassorbite. La politica sicuramente ha delle colpe, non da oggi, tutti i governi che si sono succeduti, sono responsabili di non aver fatto niente per sostenere la nostra realtà, se non addirittura aver peggiorato le cose, e così anche a livello regionale. Se prendiamo in considerazione gli ultimi anni, dal 2014 ad oggi, quando si era ancora in tempo per invertire la tendenza e la società faceva ancora buoni profitti da investire, al governo di Roma e al Governo della Sardegna ci sono stati, governi di centro sinistra, che hanno sottovalutato l’evolversi della situazione, eppure in campagna elettorale gli slogan erano per di diritto al lavoro. Il fatto che Cagliari in qualche modo abbia fatto questa fine dovrebbe farci riflettere tutti. Quante volte abbiamo sentito: “Il porto non può chiudere!” oppure, “Se il porto chiude, dopo quello che è costato, chissà quanti ne arrestano?”. I fatti che oggi viviamo hanno dimostrato altro.

Un altro problema per la portualità italiana è che un tempo esisteva un Ministero che si chiamava Della Marina Mercantile e dei Trasporti, mentre oggi degli stessi temi, si occupano diversi ministeri, Mise, Ministero del lavoro, Ministero dei trasporti, Ministero del sud e forse pure qualche altro. Siamo convinti che un solo ministero ad hoc avrebbe potuto dirimere le questioni in tempi molto più celeri e con migliori risultati.  Il rammarico è che la politica nazionale, non ha saputo cogliere che la portualità e il trasporto via mare sono strumenti fondamentali per le economie dell’intero paese infatti, la maggior parte delle merci in entrata e in uscita dal bel paese viaggia via mare. Poi allargando il discorso si può dire che le stesse problematiche riguardano anche ferrovie e trasporto aereo. La civiltà di un popolo si può misurare anche dallo sviluppo e dalle attenzioni che presta per i mezzi e le reti di trasporto.

Per quanto riguarda il piano sindacale, nel primo periodo erano presenti le tre sigle confederali storiche CGIL,CISL E UIL, ogni organizzazione aveva i suoi RSA e i suoi iscritti, intorno al 2006 si sono affacciate le prime sigle autonome. Non si è mai trovato un accordo per eleggere le RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie), chissà perché. I lavoratori iscritti al sindacato o organizzati, sono stati da sempre molto meno del 50%, se poi andiamo ad analizzare chi ricopriva le posizioni da preposto, o lavorava nei reparti amministrativi, la percentuale scendeva miseramente forse a 5/10%, con qualche flesso positivo nei diversi periodi di crisi. Soltanto nell’ultimo anno quando era palese a tutti i dipendenti che la barca stava affondando, ci sono state più iscrizioni al sindacato confederale, abbandonando quasi completamente i sindacati di base. A livello sindacale sono nate spesso diatribe e diversità di pensiero, però noi lavoratori abbiamo sempre cercato il confronto, ci siamo sempre seduti a un tavolo, spesso sollevando i toni, però facendo sempre passi nella direzione l’uno dell’altro, per provare a discutere oggettivamente, al di sopra delle sigle sindacali.

Negli ultimi anni si è sviluppato un movimento trasversale che coinvolge diversi lavoratori. Inizialmente questo movimento è stato molto positivo, riuscendo a fare e dare informazione e particolarmente per la forte denuncia rispetto tutte le disattenzioni del passato. Dall’altra parte oggi che le amministrazioni sono cambiate tutte, da quella comunale fino a quella nazionale, passando per quella regionale, si dovrebbe cambiare atteggiamento, ed essere maggiormente propositivi, anche per non correre il rischio di farsi terra bruciata intorno. Molti esponenti politici oggi hanno quasi paura di agire, di esporsi in questo vortice di accuse sorde a ogni ragionamento e predicano la prudenza.  In tutta questa vicenda solo due donne sembrano avere il coraggio del loro ruolo e di fare proposte, da un lato la Sottosegretaria al Mise Alessandra Todde e l’Assessore al Lavoro della RAS Alessandra Zedda. Il loro lavoro andrebbe supportato in tutti i modi, e non isolato. Anche perché il Presidente Solinas ha partecipato ad un solo tavolo sindacale, mentre l’Assessore ai trasporti non l’abbiamo mai incontrato. Manca sinergia, e se c’è, noi non la percepiamo.

Danilo – La cosa che alcuni di noi hanno cercato di fare è stato informare, sollecitare, provare a metter fretta, affinché le persone che hanno un ruolo in questa vicenda potessero smuovere la situazione. Ci abbiamo lavorato molto e in tanti, e forse ci siamo davvero riusciti. Noi ci siamo strutturati in questo modo, riunioni con gli iscritti, diverse chat per scambiarci le informazioni, e delle pre-riunioni prima di ogni incontro ufficiale, sia per affinare la linea rispetto alle ultime novità ma anche per cercare di far passare un messaggio il più univoco possibile. Siamo tutti sulla stessa barca, quindi si collabora e ci si aiuta utilizzando al meglio le competenze di ognuno. E’ più facile lavorare dal basso, perché a livelli “più alti” ci si scontra con logiche politiche di ben altro livello. Quando siamo andati ai primi incontri al MISE noi lavoratori abbiamo portato tutti la stessa linea, oggi pure questo meccanismo pare si sia rotto.

Parla Raffaele Loddo. In un comitato portuale del 2016, ho fatto un intervento durissimo dove ho attaccato tutta la classe politica che sedeva all’interno del comitato portuale, e stiamo parlando di Comune di Cagliari, Provincia di Cagliari, regione, sindaci dell’area metropolitana ecc. Insomma ho detto che nel momento in cui si andava a discutere di poltrone erano tutti presenti, la volta che si andava a discutere di lavoratori del porto avevano altro da fare. Per farla breve alla fine del discorso avevo detto molto semplicemente, “se voi non vi svegliate in un paio d’anni il porto chiude”. Ho portato una serie di motivazioni, che sono a verbale, perché queste cose vengono registrate e poi sbobinate, quindi è tutto scritto e documentato. Il presidente dell’ADSP alla fine di un incontro in prefettura, mi si è avvicinato con tutti i faldoni dei comitati portuali, aveva evidenziato la mia dichiarazione, e mi ha detto: “avevi ragione”. Avere ragione non porta a nulla di per sé se poi alla fine non si fanno passi concreti. Purtroppo noi siamo stati spesso grilli parlanti, ma non siamo riusciti a insinuare il dubbio nei nostri interlocutori, le decisioni sono sempre state condizionate dall’azienda alla fine. 

Per il presidente dell’autorità portuale passano le scelte d’indirizzo e di sviluppo del porto, e credo che se si passasse per un’elezione e non per una nomina, le cose cambierebbero.  Quando si è nominati, si deve comunque render conto, non si può essere totalmente autonomi.

I meccanismi verticistici portano spesso a fare scelte sbagliate, soprattutto se vengono da lontano, per fare un altro esempio, per noi lo è stato la gestione aziendale, siamo sempre stati la succursale di La Spezia. A Cagliari non si muoveva foglia se LSCT (La Spezia Container Terminal) non dava il consenso, a partire dalle contrattazioni di secondo livello, per finire nelle cose più semplici e banali. Sino all’altro giorno le nostre buste paga venivano elaborate da un centro servizi a La Spezia. Noi siamo stati una colonia. Ve ne dico un’altra: le postazioni di manovra della gru funzionano in modo tale che con una mano si svolge un’operazione, e con il manipolatore dell’altra mano delle operazioni diverse. Nelle gru spezzine i comandi erano invertiti, per questa ragione hanno preteso di modificare pure i nostri senza tener conto delle disfunzioni operative che avrebbe provocato questa scelta. Abbiamo piantato un casino tale che dopo 20 giorni li abbiamo portati a rinunciare. Non era solo per fare chiasso, era per permettere a ognuno di continuare a far bene il proprio lavoro, e farlo in sicurezza. Ma per capire meglio, forse serve un altro esempio: ogni tanto da noi si facevano delle commissioni tecniche. Praticamente si riunivano vari reparti, quello operativo, il reparto manutenzione, alcuni manovratori e si valutavano le varie problematiche che c’erano dal punto di vista del lavoro operativo. Mi sono trovato spesso in disaccordo perché non mi è mai piaciuto che mi si imponga di fare delle scelte, o modificare il modo di operare senza una motivazione logica. Dammi una motivazione logica e poi la valutiamo…alla fine, per evitare problemi mi hanno cacciato. Tanto è vero che il responsabile operativo nelle riunioni successive mi diceva “eh, l’ingegnere è andato via contento, perché stavolta ha fatto quel che voleva lui”.

Potreste brevemente esporre il piano di valorizzazione del porto che avete stilato e quindi le proposte per dare un futuro al porto?

Quando abbiamo capito che la situazione volgeva al peggio, abbiamo pensato fosse necessario elaborare un documento che facesse prima di tutto informazione, in pochi per esempio conoscevano il significato della parola transhipment. Quindi seduti intorno ad un tavolo, si è prodotto un documento, cercando di fare una fotografia oggettiva del porto, supportata da documenti ufficiali. Ognuno ha contribuito per gli aspetti tecnici nella diversità delle competenze. Purtroppo è uno spaccato relativo all’aprile scorso, sarebbe da aggiornare, ma viene la rabbia a scrivere ancora di Porto Canale. Vedere tutto fermo, le gru abbandonate, fa montare tristezza e rabbia. Sono macchine obsolete ma comunque tecnologiche, ed essendo inutilizzate, sono mezzi che si degradano velocemente: il mare è molto aggressivo, la salsedine corrode tutto e serve manutenzione costante, e il periodico utilizzo. Perciò lasciare ferme per oltre un anno, significa quasi buttarle.

Nel documento spieghiamo cosa il porto può diventare, oltre che essere un nodo di smistamento di containers con una serie di adattamenti. Innanzitutto il transhipment: da una nave grande che fa i lunghi tragitti, toccando solo grandi porti, da New York a Cagliari ad esempio, il carico è reimbarcato su tante navi più piccole che poi distribuiscono le merci nei porti minori del mediterraneo in Europa e Africa. Il sistema funziona pure al contrario, da navi e porti minori, il carico confluisce su grandi navi per fare le grosse traversate. Con questo sistema in un mese si fa il giro de mondo. Diventa molto più conveniente che muovere le merci in aereo, se non sto trasportando materiale degradabile o qualcosa che deve spostarsi in tempi celeri, è un tempo accettabile. Abbiamo accennato ad altri porti, che hanno costruito un retro porto attrezzato, per aprire i contenitori e fare anche semplici operazioni di svuotamento/riempimento, compattamento di diversi carichi e altre semplici lavorazioni, che vanno dall’ordinaria manutenzione, sino ad arrivare a operazioni quali la fumigazione e tanto altro. Qualche piccolo progresso c’è stato, soprattutto nel mese di luglio. Abbiamo ottenuto 6 ettari finiti di zona franca, ne sono previsti 36, poi la ZES (Zona Economica Speciale) sta facendo dei passi avanti, e come già accennato, non ci sono più i vincoli ambientali. Piccoli passi avanti verso un possibile rilancio del porto.

Abbiamo anche suggerito come gestire la promozione del porto in senso commerciale: questo “prodotto” è in vetrina dal mese di dicembre del 2019 ma sembra che più che renderlo appetibile si cerca di farlo marcire in attesa. Ci siamo interrogati sul fatto che forse era il bando ad essere sbagliato – costi troppo elevati? Quindi, venuti a conoscenza che l’ADSP aveva un avanzo di amministrazione superiore ai 10 milioni di euro dell’anno precedente, abbiamo chiesto se si poteva programmare una parte di queste risorse sulla promozione del porto, riducendo il canone concessorio.

Danilo – Hanno detto che non si potevano percorrere soluzioni come questa…io non so se ci sono altre leggi specifiche però da amministratore (Danilo è consigliere comunale di maggioranza in un comune del Sud Sardegna – ndr) ma vi dico che nel nostro comune abbiamo usato delle risorse in bilancio per tagliare il contributo per la Tari a tutte le società, e le attività commerciali che son state chiuse causa Covid. E notoriamente la Tari è una tassa che gli utenti dovrebbe pagare al 100% senza sconti comunali. Questo momento di emergenza ha permesso elementi di flessibilità agli amministratori e tanti comuni hanno adottato questa scelta, al fine di tutelare e sostenere i cittadini. Quando c’è la volontà, da parte degli amministratori si possono fare molte cose.

Tornando al documento invece, la prima copia l’ha ricevuta Di Maio, durante una missione nell’aprile scorso quando era uno dei vice di Conte, qualche giorno dopo ne ha avuto una copia Salvini che rivestiva lo stesso ruolo. A livello locale ce l’hanno chiesto diversi gruppi locali, di destra, di sinistra, autonomisti soprattutto, ma abbiamo anche raggiunto diversi sindaci, assessori, sino ad arrivare al capo di Gabinetto della presidenza della Regione. Una copia l’ha ricevuta pure l’Unione Sarda, il quotidiano più letto in Sardegna.  E’ un documento tecnico, che parla del porto a tutto tondo, com’è adesso, e cosa può diventare, prova a spiegare le logiche del transhipment. Oltre al nostro racconto, indichiamo da dove abbiamo estrapolato i dati e ci sono anche dei riferimenti per andare ad approfondire. Ci sono tutti i numeri, le distanze dalle rotte e paragoni con altri porti concorrenti, i loro e i nostri punti di forza.

Fra lavoratori si possono creare le migliori sinergie, anche con i colleghi di altre regioni, si può arrivare sulla stampa, regionale e nazionale ma, gli ingranaggi da muovere sono e rimangono quelli dei ministeri, Mise, Mit, Mil, Ministero per il sud. E per questo che dobbiamo affinare il meccanismo di lotta, pensare a quella che è la leva maggiore che si possa azionare come lavoratori per fare in modo che le rivendicazioni possano avanzare ai massimi livelli. Creare informazione, alimentare la curiosità e accreditarsi come validi interlocutori.

Oggi quindi come si presenta la situazione? Che tipo di mobilitazione state portando avanti e che tipo di organizzazione vi state continuando a dare? Che insegnamento traete dalla storia di lotta nel porto?

Nel settore dei trasporti c’è una grande tradizione di lotta, e i portuali non sono da meno.  Fra le organizzazioni storiche possiamo ricordare: i camalli genovesi e i livornesi, riconosciuti come avanguardia combattiva. Negli scioperi in Liguria, all’apertura dei cortei ci sono i camalli. Se vogliamo guardare oltre confine, a Malta il porto è talmente radicato nell’isola che ogni volta che c’è lo sciopero del porto, si chiudono le scuole, non si muovono i mezzi pubblici, non si muove niente, sono tutti solidali. Tra Cagliari e il porto non c’è lo stesso rapporto, ma non è stato sempre così. Nella maggior parte dei porti ai primi del ‘900 hanno costituito le CLP, Compagnie Lavoratori Portuali, sono nate poco prima del fascismo e sono stati uno zoccolo duro del comunismo e dell’antifascismo. Anche a Cagliari si è vissuta questa esperienza, la Compagnia è nata nel 1912/17, ha dato e creato lavoro per oltre un secolo, fino al 2016, è stata la prima vittima delle politiche scellerate del nostro porto, e dello strapotere che la C.I.C.T. aveva.  Oggi è fallita. Non si può far fallire una realtà che ha cent’anni di storia! I dirigenti della CLP fino agli anni ’60-‘70, CLP lavoravano a parità di salario rispetto agli altri soci, gli erano riconosciuti i contributi sociali come dirigente però rimaneva lo stesso stipendio, con una piccola indennità. Altri tempi! In quegli anni, Quando si preparavano le liste per le comunali di Cagliari, il primo discorso dei candidati sindaci, si teneva nei saloni della CLP, cioè i candidati sia di centro destra che di centro sinistra, il primo confronto lo facevano con i portuali. Fino agli anni ’70. Anche questa cosa si è persa nel tempo, il lavoro portuale ha perso la sua importanza nelle dinamiche della città e dell’area metropolitana. Nel ’93 ci fu la riforma che ha dato il via allo smantellamento delle compagnie portuali, cosi com’erano. Così piano piano, anche le logiche del lavoro sono cambiate, prima il lavoro notturno era un’eccezione mentre adesso si lavorava 24 ore su 24 come in catena di montaggio. Qui a Cagliari dall’ambiente della vecchia CLP sono nate diverse società di lavoro portuale, sganciate non solo come ragione sociale, ma anche come specializzazioni.  Negli ultimi anni la CLP svolgendo il servizio dell’art 17, cioè fornire personale per i picchi di lavoro delle altre società portuali, è rimasta con un numero molto esiguo di lavoratori: e dire che un tempo lo governavano loro, il porto. Nel 2000 quando abbiamo iniziato a lavorare in banchina, loro erano azionisti al 10%. I primi due anni di lavoro sono stati tutt’altro che produttivi, e alla prima ricapitalizzazione (in sostanza senza aver mai prodotto utili) hanno dovuto cedere le quote, e da lì a pochi anni, si sono venduti tutto. L’hanno finita veramente in modo inglorioso rispetto a quella che era l’origine. Questo è, se volete l’evoluzione dei tempi… decidono le aziende mentre ai tempi erano le CLP che decidevano il come e quando, e quindi i lavoratori. Adesso non esistono società che hanno il peso delle vecchie Compagnie, sono tutte piccole e deboli, non hanno potere nel mercato globale.

Il porto industriale in questo momento è deserto, sta crescendo l’erba tra i sanpietrini, il personale è stato licenziato, nonostante l’azienda sia ancora presente – con i soli liquidatori. Il loro compito, oltre a quello istituzionale, è provvedere a ripristinare lo stato del piazzale e della banchina, per poterlo poi restituire all’autorità portuale, la quale dovrà poi in qualche modo, se ci saranno le imprese interessate, darlo in concessione. La situazione che si è venuta a creare è particolare e per certi versi ha dell’incredibile. Per riassumere: un’azienda che ha operato sul territorio dal 2003/4 al 2019, con un licenziamento collettivo lascia a casa tutto il personale e decide di andare via da Cagliari. Teniamo presente che è andata via anche da Gioia Tauro. L’unica roccaforte della Contship è quella di La Spezia, probabilmente anche a loro capiterà la stessa sorte (noi ci auguriamo di no) le sue quote saranno cedute probabilmente alla Msc che come a Gioia era azionista di minoranza . Quello che ci lascia perplessi, è il fatto che nonostante l’interessamento attivo del MISE, e la cassa integrazione con il decreto Genova, (con il 9% pagato dai lavoratori che non hanno goduto del preavviso di licenziamento) la società abbia respinto della proroga della cassa a costo zero. Le motivazioni che ha portato al tavolo, hanno lasciato tutti con l’amaro in bocca, non si può chiudere un percorso che ha impegnato tutto il Governo, che è arrivato pure a legiferare in merito alla nostra vertenza così, con un semplice e crudo “non siamo interessati”. Questo è un fatto gravissimo che non doveva succedere e che deve servire d’esperienza, non solo a noi. La speranza e che non si dia più credito a interlocutori così… non ci sono veramente parole per descriverli.

Nel periodo di Cassa abbiamo fatto diversi incontri a tutti i livelli, i primi organizzati dal prefetto, in regione, per arrivare fino a Roma. Abbiamo organizzato scioperi, manifestazioni, sit-in, e abbiamo invitato i politici, i partiti e le organizzazioni per poter discutere problemi e trovare soluzioni, lo abbiamo fatto in tantissime sedi. Sono state organizzate diverse iniziative, innanzi tutto per attirare l’attenzione sul problema del Porto Canale perché molti cittadini non sapevano neanche di cosa stessimo parlando. Non solo i comuni cittadini ma anche diversi politici, che probabilmente solo oggi hanno capito cos’è il porto, come funziona, quali lavorazioni si facevano soprattutto quali sono le potenzialità, sia occupazionali che di vantaggi per tutti i sardi e la Sardegna. Meglio tardi che mai. Da qualche giorno siamo in NASPI, e ci sente un po’ soffocare, le speranze si affievoliscono, e lo sconforto delle volte prende il sopravento. Il problema adesso è rimetterlo in piedi il nostro porto, e bisogna capire se c’è la volontà politica di farlo e in che tempi, perché quest’ammortizzatore sociale ha una durata di 24 mesi e dopo il terzo mese gli importi calano del 3% ogni mese. Se il porto non ripartirà entro questo termine… potete immaginare come si vive nelle nostre famiglie, non è una situazione semplice. E’ stato pubblicato un bando internazionale, una manifestazione d’interesse, per concedere la banchina a un armatore o una società di gestione, lo stesso è stato tradotto in diverse lingue, affinché potesse arrivare a tutte le destinazioni, ma era una call povera di contenuti probabilmente. Non ha risposto nessuno dei grandi, a meno che questi grandi, non si nascondano dietro la sconosciuta Pifim.

A fine agosto, nell’ultimo giorno utile, sappiamo che è arrivata una proposta da parte di una società inglese, la Pifim appunto, con l’avallo della Port of Amsterdam. Hanno consegnato la loro proposta, e la documentazione è al vaglio di una commissione tecnica all’interno dell’autorità portuale, speriamo possa essere valutata positivamente, altrimenti rischiamo di trovarci in grosse difficoltà, perché non c’è nessun’altra richiesta di concessione al momento. A distanza di quasi un mese e mezzo non è arrivato alcun cenno di riscontro e chiaramente siamo preoccupati. Quello che vorremmo è tornare a lavorare, che si possa riprendere al più presto, magari con un riassorbimento, di tutto il personale. Voci di corridoio dicono che si parla della possibilità di assumere solo il 70% del personale, ed ognuno di noi può far parte del restante 30%, e non è un bel vivere con questa prospettiva. Abbiamo avuto sempre le più ampie garanzie dalla Regione, in particolare dall’assessore al lavoro Alessandra Zedda che ha ribadito sempre che il 100% del personale sarà riassorbito, non si sa in che modi e tempi, ma ci auguriamo che la Zedda, che ha seguito la vicenda sin dall’inizio, mantenga la parola. Vale lo stesso per Alessandra Todde, esponente del M5S, e Sottosegretaria allo Sviluppo economico, sarda di Nuoro. Per il momento è tutto a livello di promesse, come si usa dire: non c’è carta che canta! Ma va riconosciuto il loro impegno. Non sappiamo come andrà a finire questa storia, il tempo sta passando e non sappiamo se in tempi brevi ci saranno risposte. La call è stata rinviata svariate volte, anche causa Covid. (Purtroppo ad oggi, Dicembre 2020, sappiamo che la proposta della società inglese è stata rigettata – ndr.)

Ci sono ancora 180 persone che credono in questa attività, è importante non mollare. La storia insegna che i portuali quando si muovono e trovano obiettivi comuni, vincono, anche contro gli accordi e logiche che sembrano più grandi di loro.

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