Pubblichiamo l’intervista fatta a Stefano Cecchi, coordinatore regionale di USB Toscana. L’intervista è importante perché a partire dalla riflessione rispetto al ruolo dei sindacati di base oggi si inserisce nella direzione della costituzione sempre più impellente di un fronte unico contro i partiti delle Larghe Intese e le loro politiche.
Nell’intervista Stefano si interroga infatti su quale sia il ruolo dei sindacati di base e conflittuali in questa fase, sulla necessità di costituire un’unità di classe e di non sottostare alle restrizioni agli spazi di agibilità politica, sulle diverse condizioni lavorative preesistenti e nuove e infine sulla necessità di intervenire nelle piazze di queste settimane.
Nell’intervista, come abbiamo detto, si toccano le diverse condizioni lavorative, quelle vecchie e quelle create dal Covid; tra queste ultime rientrano lo smart working e le sempre maggiori restrizioni all’agibilità politica dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Nella società capitalista infatti le misure di sicurezza imposte per limitare il contagio sono subordinate agli interessi della classe dominante e quindi non solo parziali e contraddittorie, ma orientate ad attaccare l’organizzazione dei lavoratori, sia disgregandoli sul luogo di lavoro con lo smart working, sia impedendone apertamente l’organizzazione e la mobilitazione. Ha ragione Stefano quando dice che i lavoratori non possono sottostare a queste misure e che è possibile mobilitarsi in sicurezza, non cedendo di un passo rispetto alle conquiste che in passato hanno strappato e per far sì che tutto sia meglio di prima.
Partendo dal ragionamento sulle misure necessarie a far fronte all’emergenza sanitaria economica e sociale, e per superare la contraddizione tra diritto al lavoro e diritto alla salute, si avvia il ragionamento sul ruolo che i sindacati di base e conflittuali hanno e possono avere oggi. Quindi il ruolo che possono e devono assumere nell’organizzare ogni lavoratore attorno alle necessità e ai bisogni quotidiani, a partire dalle condizioni di vita e salariali, ma anche come dice, nell’intervenire per organizzare le varie forme di mobilitazione che in queste settimane abbiamo visto in molte piazze. Aggiungiamo noi organizzarli in forma stabile, oltre la singola lotta, perché inizino man mano ad occuparsi sempre più della gestione delle aziende pubbliche o private in cui sono impiegati e quindi della società in cui sono inserite. Questa è la via per costruire, come dice Stefano, un’unità di classe.
Allo stesso modo proprio a partire dalle singole lotte, dalle necessità quotidiane dei lavoratori e delle masse popolari si costruisce nei fatti un fronte unito contro le Larghe Intese; lo si costruisce nella pratica, unendosi nel sostenere e nel promuovere battaglie comuni e piattaforme comuni che devono essere spinte e applicate in ogni posto di lavoro, nella misura in cui siano direttamente applicabili, o che devono essere imposte. Dare gambe concretamente alle misure necessarie in ogni azienda è anche la via attraverso cui imporre quella che Stefano definisce una nuova IRI, e quindi una gestione nazionalizzata delle produzioni essenziali che non significhi i vecchi carrozzoni a cui siamo abituati ma che sia controllata e mossa direttamente dalle organizzazioni dei lavoratori. È ovvio che nessun governo espressione delle Larghe Intese creerà una simile istituzione e, dal bilancio dell’esperienza dei 5 Stelle che lui stesso fa, è altrettanto evidente che una simile istituzione non possa essere costituita solo con decreti e leggi dall’alto, ma che vada imposta nella pratica, dal basso attraverso l’attuazione diretta di misure necessarie e l’imposizione di altre con la lotta.
Organizzare i lavoratori, coordinarli, coordinandosi tra loro e unendosi alle lotte e alle esperienze di organismi popolari come le Brigate di Solidarietà e le altre organizzazioni delle masse popolari è il ruolo positivo che i sindacati di base e conflittuali oggi possono assumere per colpire uniti il nemico comune.
Buona lettura!
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Intervista a Stefano Cecchi, coordinatore regionale di USB Toscana
Stefano, un commento sulla situazione politica del nostro paese, alla luce della crisi sanitaria in corso e di quella economica che comincia a mostrarsi in tutta la sua estensione e profondità: come sta agendo il governo Conte? Quali sono secondo te i principali motivi per cui non è in grado di prendere le misure adeguate ad arginare la pandemia e, ad esempio, non ha usato i 6 mesi di “tregua” per predisporre misure efficaci? E’ “incapacità” o è difesa di specifici interessi? Quali?
La situazione generale è molto complessa come è sotto gli occhi di tutti, ci sono stati tanti mesi in cui si poteva provvedere e intervenire in particolare sulla situazione sanitaria, anche perché tutti sapevano che ci sarebbe stata una seconda ondata (e probabilmente ce ne sarà una terza!); il discorso parte dalle condizioni della sanità nel nostro paese, da 30 anni si sono fatti solo tagli: 70 miliardi di euro di spesa in meno, diminuzione dei posti letto, chiusura dei presidi sanitari sul territorio, nessuna assunzione a fronte del turn over fisiologico. Poi il numero chiuso a Medicina ha prodotto un sacco di danni, oggi mancano medici e anestesisti ma non si inventano dall’oggi al domani e anche lì le baronie hanno operato per non avere concorrenti tra i piedi, portando alla condizione di oggi.
C’è una carenza di tutte le figure sanitarie in questo paese (dagli OSS agli infermieri ai medici) e del finanziamento della sanità privata delle varie regioni, “grazie” alla riforma del Titolo V° della Costituzione promossa da D’Alema; ogni Regione si è mossa per conto suo pagando le proprie clientele, dalle cooperative a CL cambiano i referenti ma la dinamica e l’obiettivo (la privatizzazione) erano gli stessi!
A questo si aggiunge il “non fare” da maggio fino ad oggi del governo, il riaprire tutto senza regole dettato dai cosiddetti poteri forti: tutti al mare che si rilancia l’economia! Magari si potevano pensare riaperture più limitate compresi gli spostamenti fra regioni: forse si sarebbero limitati i contagi che nella prima ondata, dalla Toscana in giù, erano stati non tantissimi.
Oggi a Firenze ci sono 35 morti e 2500 casi, le strutture sanitarie sono in difficoltà e allibisce vedere scene come quelle dell’ospedale di Rivoli con le barelle in terra nei corridoi, code di ambulanze a Cisanello; sono cose che sono fuori dal “primo mondo”. In tutto questo si incunea la crisi economica. Le responsabilità principali sono del Governo, nella prima fase la scelta del lockdown era stata efficace nonostante Confindustria che approfittava dei codici ATECO: ma le responsabilità ricadono sulle Regioni, perché hanno poteri importanti proprio sulla sanità. Speranza secondo me è stato ed è il più coraggioso nel governo Conte.
Quindi, in uno scenario simile, come si coniuga il diritto alla salute con il lavoro? Il senatore della Lega Borghi mette il secondo davanti al primo..
La salute è principale e si deve lavorare in condizioni di totale sicurezza, laddove si possono rispettare i distanziamenti e le norme devono assolutamente essere introdotte maggiori pause nel lavoro, soprattutto in certi settori. Il lavoro impiegatizio può essere “smartizzato” perché è vero che in questa condizione meno persone si muovono e meglio è. Guardiamo ad esempio il Trasporto Pubblico Locale, in questo settore non è stato fatto niente, anzi siamo passati dal metro e ottanta di distanza alle 5 persone in un metro della ministra De Micheli. Anche questi sono i risultati della privatizzazione dei servizi pubblici, come successo con la nostra ATAF, con le conseguenze che paghiamo. Personalmente quindi ritengo che il lockdown debba essere quasi totale, escludendo alcune situazioni dove si può lavorare. Ad esempio il problema della scuola non sono le mascherine da tenere al banco, se poi al momento del pasto se le tolgono e non ci sono le distanze di sicurezza e soprattutto se poi ogni scuola gestisce i casi positivi come vuole. Inoltre, ci sono grossi problemi di tenuta per il rimpiazzo dei docenti malati, manca il personale ATA, fanno un concorsone che poi sospendono a metà, sono robe da matti!
Alla luce di quanto detto, quale è il ruolo del sindacalismo di base? Più precisamente e “a bruciapelo”: quali prospettive ha la lotta rivendicativa e quali obiettivi può ottenere realisticamente, su ampia scala, in questa fase?
Un primo campo di intervento è come detto quello della sicurezza, in secondo luogo ci troveremo a difendere molte di situazioni di difficoltà che la pandemia ha scoperchiato; ci sono ad esempio tante persone in CIG che non hanno quasi sicuramente la possibilità di rientrare al lavoro e altre che con i part time ricevono uno stipendio misero. Questa situazione crea un grosso “guasto” dal punto di vista sociale e il meccanismo degli ammortizzatori sociali deve essere certo, con cifre e tempi dignitosi; questo meccanismo è pensato per le aziende ma se chiude l’Italia il problema si amplifica mille volte!
Il problema è grande e il ruolo di un sindacato conflittuale deve essere prima di tutto quello della ricostruzione della coscienza fra i lavoratori, poi la lotta a tutte le forme di lavoro nero e “grigio” che con la pandemia sono emerse in modo eclatante: lo vediamo dalle buste paga che analizziamo. In queste condizioni però se il lavoratore singolo non ci sta il padrone dice “avanti il prossimo”. Se in un mondo così individualistico e pieno di solitudine non si ricostruisce una coscienza di classe, il senso di appartenenza, non si va da nessuna parte. Il ruolo del sindacalismo di base e conflittuale è quello di fare fronte comune in questa fase, stare e andare avanti insieme per dare risposte e organizzare la gente sui bisogni quotidiani.
Questa è effettivamente l’esigenza e l’aspirazione più presente fra operai e lavoratori, come si supera la frammentazione e i dissidi che conosciamo? Quali possono essere gli elementi unificanti? Voi per esempio state facendo una campagna sulla sanità. Secondo te quali strade concrete è possibile percorrere per valorizzare la spinta della base e rimuovere gli ostacoli che spesso sono invece frapposti dalle dirigenze sindacali?
Molte delle contraddizioni presenti sono basate su personalismi, penso che forse ci voglia un rinnovamento delle dirigenze di tutti i sindacati di base, ci vorrebbe gente nuova che non ha rancori passati. La questione è semplice: se viene giù un muro, dobbiamo stare tutti insieme a impedire che venga giù.
Quindi la crisi e la lotta di classe impongono di fare questo fronte comune?
Certo, non dobbiamo spaccare il capello in quattro ma trovare momenti e punti che uniscano, dobbiamo costruire un grande fronte comune per opporsi allo stato presente delle cose; bisogna quindi mettere da parte tante differenze fra di noi perché per lo più sono divergenze che possono essere superate, sono modi di leggere le stesse cose in modo leggermente diverso. Il mestiere del sindacato è fare il sindacato e quindi misurarsi sui bisogni e sulle condizioni di vita, sul salario e sulle possibilità di riscattarsi. Già dobbiamo far fronte al Governo e all’opposizione (che è uguale al governo), al padrone e ai sindacati complici, quindi o costituisci un vasto movimento oppure “sei del gatto” come si dice a Firenze, sei finito.
A proposito del disagio sociale di cui parlavi prima, ci sono state varie manifestazioni di rottura in tutta Italia. Parliamo di quella di Firenze, inaspettata per chi analizza la situazione con parametri “di altri tempi” e un incubo degno di ampia criminalizzazione preventiva per autorità e istituzioni (il sindaco Nardella ha abbaiato continuamente al fascismo). Ci sono stati arresti e in galera ci sono elementi delle masse popolari e di movimento, non i fascisti che erano stati tanto evocati: noi siamo solidali con chi è stato colpito dalla repressione; secondo te ha senso dividere i buoni dai cattivi? Cosa ha indicato quella mobilitazione?
Sono uno di quelli che vogliono capire le cose e mi chiedo: perché una sera di ottobre centinaia di ragazzi, che normalmente non manifestano o si mobilitano, sono scese in piazza e hanno reagito alla polizia che gli impediva di andare in piazza Signoria. Dobbiamo interrogarci su quei ragazzi dell’hinterland e delle periferie, sul disagio generale che deriva dallo stato di cose di cui abbiamo parlato finora, come chi faceva il lavoretto a nero e in questa situazione non ha più nulla.
Nel secolo scorso ci saremmo interrogati a lungo su di loro e sui modi di intercettarli, il ribellismo non serve a nulla se non è organizzato o se non si trasforma in organizzazione. Questi giovani manifestano dei bisogni che probabilmente sono lontani dal nostro modo di pensare (altro che provocatori!), da questo la necessità di riflettere sul motivo per cui sono scesi in piazza. Quella di Firenze non è stata chiaramente una cosa organizzata, nei gironi precedenti è girato un volantino che poteva aver fatto chiunque e ha “coagulato” una rabbia contro le istituzioni di questa città. Apostrofarli come fascisti, anarchici o altro è sbagliato perché non avevano nessuna etichetta politica, esprimevano piuttosto rabbia e ribellismo e chi si dice di sinistra, comunista o fa sindacato e non ragiona su questi fenomeni è finito.
Cambiamo radicalmente argomento, parliamo del CCNL dei metalmeccanici. USB ha fatto diversi presidi e ha proposto una piattaforma: la sta usando? Come? Dove? Attraverso l’uso di quella piattaforma che polso si è fatta delle aspirazioni e aspettative degli operai?
E’ la domanda più difficile. Intanto c’è una piattaforma alternativa e questo è importante perché è importante fare proposte diverse, non basta opporsi a quella degli altri. Questo è il primo punto. Poi c’è il problema che in questo paese, in particolare nel settore privato, il padrone si sceglie il sindacato con cui trattare, per cui costruire piattaforme su cui cercare consenso dei lavoratori è importante. C’è stata una buona risposta e su questo ci misuriamo, si spera di incidere ma non riescono nemmeno gli altri sindacati ultimamente.
Quindi che battaglia va fatta per non veder firmato l’ennesimo contratto bidone e come questa lotta si affianca ad altre due che riguardano particolarmente da vicino i metalmeccanici e cioè quella contro lo smantellamento dell’apparato produttivo e contro la repressione aziendale?
Si moltiplicano gli attacchi ai lavoratori più combattivi e sono gli effetti della cosiddetta fedeltà aziendale. Ogni lavoratore deve essere libero di esprimersi come meglio crede. La storia più brutta è quella di Francesco Scorzelli le cui denunce sulla mancanza di DPI in ospedale oggi sono drammaticamente confermate.
Dobbiamo rifare una nuova IRI, lo Stato deve controllare i principali asset produttivi del paese perchè non possiamo lasciarli in mano alle multinazionali; questo non è sovranismo ma sovranità nazionale. L’IRI era una cosa seria che dava lavoro a seicentomila persone nei settori strategici, banche comprese come la BNL, nell’acciaio, nelle ferrovie, nelle telecomunicazioni. Il nome del soggetto è secondario, ciò che conta è la presenza dello Stato che ad esempio dovrebbe nazionalizzare la Whirlpool e magari convertire la produzione producendo al posto delle lavatrici computer o ciò che serve. I padroni che delocalizzano dopo aver preso soldi pubblici vanno bastonati.
Voi come intendete muovervi in questa direzione?
Come USB ci stiamo già lavorando, cominciammo con Alitalia. Dobbiamo rinazionalizzare gli asset strategici sennò diventiamo un paese del “terzo mondo” dove saranno gli altri a delocalizzare le produzioni, dopo aver fatto strage di diritti e strumenti produttivi, e imponendo salari da fame.
Cosa intendete fare sui vincoli di fedeltà aziendale?
Il primo vincolo che andrebbe abolito è il pareggio di bilancio in Costituzione perché blocca gli investimenti in scuola, welfare e via dicendo. Il Recovery Fund come si utilizza? Deve essere un momento di redistribuzione, non sono soldi che vanno dati a personaggi come gli Agnelli che prima davano lavoro a 265mila operai mentre oggi hanno ridotto a un quarto i lavoratori e al di fuori dal CCNL dei metalmeccanici. C’è la gabbia della UE da rompere, bisogna avere il coraggio di tassare i patrimoni più elevati per prendere i soldi dove ci sono; ieri ho sentito Cacciari che diceva di prendere soldi dai dipendenti pubblici perché anche loro devono “contribuire”: questa si chiama guerra tra poveri, i soldi si prendano a chi li ha. Il problema sono sempre le scelte strategiche.
Diciamo che è una questione di governo del paese. I DPCM ad esempio comportano una serie di restringimenti di spazi democratici e anche sindacali: sono negate le assemblee sindacali, i presidi e le manifestazioni. Rompere questi divieti è fattibile e i presidi del 5 novembre sono già un esempio di questo. I problemi relativi alla sicurezza ci sono ed è necessario adeguare le modalità, ma sicuramente non si devono far toccare i diritti democratici. Proprio oggi ad esempio ci hanno negato le assemblee, la soluzione può essere farle nel piazzale o in un campo. Mantenendo il distanziamento e tutte le misure di sicurezza si può fare perché un conto sono le misure di sicurezza e altro è l’attacco ai diritti fondamentali; poi riprendersi ciò che viene tolto diventa duro. Il mondo non sarà più come prima passata la pandemia, o si riesce a far sì che sia meglio oppure sarà senza diritti, con bassi salari, eccetera. O noi siamo organizzati e forti oppure si riparte dai primi del Novecento; già prima della pandemia i diritti erano compressi dai vari Jobs Act e pacchetto Treu a cui poi si sono aggiunti i Decreti Sicurezza. Già oggi se fai un picchetto ai cancelli rischi il carcere, oppure ti fanno una multa.
Il CALP di Genova, passato con voi da pochi giorni, ha fatto un post proprio in merito ai suddetti decreti e si stanno sviluppando rapporti con altri operai e sindacati interessati a uno scambio e speriamo a future collaborazioni; in che modo si può riversare questo lavorio rispetto al governo e in particolare sul M5S, con cui avete avuto più interlocuzioni? Penso al presidente dell’INPS Tridico che ha partecipato a vostri seminari.
I Decreti Sicurezza vanno aboliti del tutto, bene le modifiche che riguardavano gli immigrati ma nessuno di questi “buonisti” che si sono stracciati le vesti hanno detto una parola sulle parti antioperaie e antipopolari (sono colpiti pesantemente anche gli occupanti di case, ndr). La parte più repressiva è rimasta intatta; apprezziamo le modifiche sui migranti aiutando l’accoglienza, ma domani arresteranno quel lavoratore che difenderà la fabbrica e il lavoro.
A te le conclusioni, sul governo del paese.
Possiamo usare lo slogan “via il governo dei padroni” ma non vedo alternative sostanziali, compresi i tentativi che non hanno portato da nessuna parte. La mancanza di un contenitore di classe che rappresenti i bisogni delle masse popolari è pesante e queste poi votano Salvini e la Meloni, votano chi millanta di dargli risposte. Due anni fa hanno votato in massa il M5S ed è stata la più grande delusione perché speravamo che dopo quel giorno cambiassero davvero le cose ma non è stato così; non hanno fatto più leva sui comitati, sui meet up e sui movimenti, non hanno avuto il coraggio di rompere ad esempio chiedendo il 5 marzo di tornare al voto. Diversi loro personaggi mi ricordano i democristiani degli anni ’70, alcune piccole cose le hanno fatte ma non hanno fatto le rotture che dovevano fare.