Intervista ad Aldo Velo sul CdF dell’Italsider di Bagnoli (NA)

Puoi presentarti brevemente e dirci quando hai iniziato a occuparti di politica?

Mi chiamo Aldo Velo, ho 74 anni e ho lavorato come operaio all’Italsider di Bagnoli.

Ho iniziato la mia militanza politica all’età di 15 anni nei movimenti studenteschi e da allora non ho mai smesso. Rispetto ad oggi confesso di essere rammaricato dalla situazione generale in cui versa il nostro paese. Penso infatti che siano stati compiuti importanti passi indietro e questo probabilmente è avvenuto perché la classe operaia, il movimento femminile e gli altri movimenti che in passato sono stati dei punti di riferimento importanti, quelli che più tenacemente combattevano per migliorare la società nel suo complesso, attualmente hanno perso il loro ruolo “di guardiani” della trasformazione sociale.

 

Quando si è formato e come funzionava il CdF dell’Italsider?

I Consigli di Fabbrica, nati nel 1968-1969, liquidarono di fatto le vecchie Commissione Interne, formate solo dai delegati imposti dai sindacati, che nel frattempo avevano ormai perso il loro ruolo di rappresentanza e il loro potere contrattuale.

Essi rappresentarono il punto di approdo del protagonismo operaio che si era espresso con il ciclo di lotte che hanno caratterizzato il biennio 1968-69. Incarnavano il potere operaio e la democrazia nei luoghi di lavoro. Erano rappresentanze vere perché i delegati venivano scelti liberamente tra i lavoratori, senza nessuna indicazione, su scheda bianca. I lavoratori erano infatti liberi di votare tanto gli iscritti quanto i non iscritti al sindacato.

A Bagnoli avevamo un CdF composto da 108 delegati per 8.000 lavoratori. Quando il CdF veniva convocato i delegati di reparto andavano a portarvi i problemi relativi ai rispettivi reparti, ma il loro contributo andava anche oltre la propria realtà specifica. L’acciaieria infatti era un’area molto vasta: c’era la manutenzione, c’era l’area a caldo, c’erano i settori limitrofi e ogni reparto esprimeva un delegato. Non sempre quindi si riuscivano a intrecciare bene quelle che erano le esigenze ad esempio dell’area a caldo rispetto a quelle della manutenzione e si correva il rischio di avere una logica corporativa rispetto alle questioni. Per questo motivo, in un secondo momento, furono nominati anche i delegati di area che rappresentavano ad esempio tutta l’area dell’acciaieria che si componeva delle varie specializzazioni (come le manutenzioni, i forni, l’elettronica) e che comprendeva anche gli impiegati.

Io ero un tecnico ricercatore, ero eletto dai lavoratori e votato da appartenenti a ogni sigla sindacale. Benché lavorassi in un’area in cui gli operai erano in prevalenza iscritti FIOM, mi votavano infatti anche i lavoratori della CISL o della UIL perché il voto molto spesso era alla persona.

Io come impiegato prendevo più voti dagli operai che dagli impiegati. All’Italsider non c’era una divisione netta tra gli operai e gli impiegati, eravamo un tutt’uno. Già negli anni ‘70 la tendenza era quella di superare la divisione tra impiegati e operai e nella nostra fabbrica in questo eravamo all’avanguardia. Il delegato era il delegato dell’area dell’acciaieria che rappresentava tutti i lavoratori, sia gli operai che gli impiegati .

 

Ci spieghi meglio il ruolo del CdF nella vita interna all’azienda?

Il CdF si interessava di ogni aspetto della vita di fabbrica, ad esempio anche sul funzionamento delle Unità Operativa,  dove, anche se non definiva gli obiettivi produttivi, ebbe la capacità di scardinare le gerarchie interne alla classe operaia. Non vi era più responsabilità individuali (con i connessi premi individuali), ma responsabilità collettiva sull’organizzazione del lavoro, sull’andamento dei ritmi, sulle pause e questo ha permesso di arrivare sempre a raggiungere gli obiettivi: il più esperto aiutava il meno esperto che era così stimolato a migliorare.

Come CdF abbiamo cercato di “esportare” questo metodo nelle scuole vicine alla fabbrica, perché diventasse anche un metodo didattico. Nel vicino liceo Labriola, infatti, i professori più avanzati incominciarono a dare compiti collettivi, a introdurre i gruppi di studio, in maniera che chi era più bravo aiutasse chi era più indietro. E alcuni collettivi di studenti avviarono poi la lotta per il 6 politico.

Nella fabbrica era  il CdF che decideva di aspetti apparentemente secondari ma importanti per gli operai, ad esempio  dove collocare i servizi igienici. Inoltre eravamo così organizzati da avere la Giffas (una cassa per l’assistenza ai disabili e ai parenti degli operai) e anche il CRAL (il Centro Ricreativo Aziendale) dotato di un gruppo sportivo allora forte. Sia la Giffas che il CRAL sono poi cresciuti a livello tale da diventare degli istituti autonomi.

Le assunzioni avvenivano sempre tramite raccomandazione, anch’io sono entrato con la raccomandazione, ma poi una volta entrati tutti assumevano una nuova consapevolezza e diventavano per lo più comunisti, perché in fabbrica comandavano i comunisti.

 

Il CdF aveva rapporti con realtà esterne alla fabbrica? Sviluppava attività anche fuori di essa?

Succedeva spesso che si organizzassero riunioni del CdF per affrontare problemi esterni alla fabbrica, anche se si tendeva, dopo aver parlato ad esempio dei disoccupati di Napoli o del rapporto che bisognava avere con la gente del quartiere e le altre realtà territoriali, a “ricascare” sempre nelle problematiche interne.

Io ero uno dei compagni che dicevano: “Attenzione, noi lasciamo le nostre famiglie a casa e veniamo a lavorare in fabbrica, in un posto dove siamo riusciti ad affermare una grande democrazia. Il fatto stesso che stiamo tenendo ora un’assemblea che ci permette di esprimerci liberamente lo testimonia. Però questa democrazia dobbiamo metterla al servizio del territorio cercando di “contaminarlo” altrimenti saremmo egoisti e di fatto abbandoneremmo le nostre famiglie al loro destino che qui, in questo territorio, è tracciato dalla camorra e dalla delinquenza”.

Questa era l’idea iniziale che si è poi trasformata in coscienza collettiva. Quando nell’80 c’è stato il terremoto in Irpinia, siamo andati anche noi a prestare soccorso come volontari assieme ai rappresentanti dei CdF di ogni parte d’Italia.

Se era in discussione un piano regolatore, noi partecipavamo attivamente alla discussione.

Ricordo che siamo stati capaci di far ritirare l’aumento (di 100 lire, che per l’epoca spropositato) del pedaggio della tangenziale. Ci organizzammo e uscimmo dall’acciaieria e dopo due ore ci ritrovammo in piazza in 3-4.000 per rivendicare, all’allora sindaco Maurizio Valenzi (del PCI), il ritiro dell’aumento, cosa che ottenemmo nel giro di 24h.

 

Rispetto al territorio, il CdF come affrontava la questione della difesa del lavoro ma anche dell’ambiente?

Come CdF abbiamo portato avanti battaglie per l’ambiente insieme alla gente di Bagnoli. In particolare ricordo una battaglia, nata da una nostra idea, per creare una cinta alberata e altre cose a protezione del quartiere. È stata una battaglia a cui hanno contribuito tutti, dai collettivi studenteschi ai comitati del quartiere. La particolarità dell’Italsider, che ha permesso di non alimentare la divisione tra gli abitanti del territorio e gli operai, era che gli operai venivano tutti da Bagnoli o da altri quartieri limitrofi. Così non accade, invece, a Taranto dove gli operai provengono anche da centinaia di chilometri di distanza.

All’epoca l’azienda tendeva a monetizzare il rischio per la salute con integrazioni salariali oppure distribuiva giornalmente il latte agli operai (allora la scienza medica riteneva che il latte servisse per contrastare gli effetti negativi delle polveri sui polmoni-ndr). Questa lotta andò oltre il riconoscimento delle indennità personali, si pensò al quartiere, al territorio in cui abitavamo. E benché quella battaglia raggiunse un obiettivo minimo rispetto a ciò che realmente sarebbe servito, ebbe comunque un grande valore perché riuscimmo a imporre quello che pensavamo fosse giusto.

Non difendevamo Bagnoli perché eravamo innamorati del nostro quartiere e volevamo lavorare e vivere là, noi difendevamo Bagnoli perché là avevamo affermato un centro di democrazia, di discussione che guardava anche alla città di Napoli, che era una garanzia non solo per il nostro quartiere, ma per tutta la città.

Come CdF siamo riusciti ad unire nelle lotte la gente del territorio. Oggi a Taranto i lavoratori della fabbrica e i cittadini sono divisi. E io credo la ragione stia dalla parte dei cittadini. Quarant’ anni fa esisteva sicuramente un problema reale che oggi però non ha più ragione d’essere: la tecnologia è andata avanti e nelle fabbriche siderurgiche è possibile migliorare non solo la produzione, ma anche fare in modo che gli impianti non avvelenino l’ambiente. Nelle fabbriche siderurgiche, se oggi si applicassero tutte le procedure atte a difendere l’ambiente (a partire dalla preparazione del minerale), probabilmente non si sverserebbe fuori neppure un grammo di agente inquinante. Ci sono tecnologie all’avanguardia che, se applicate, impedirebbero di contaminare l’ambiente circostante. Il problema è che i padroni spendono solo per le tecnologie che servono ad aumentare la produzione, ma non spendono una lira per preservare l’ambiente. Qui si vede anche la debolezza del sindacato che non impiega dei professionisti a indicare le tecnologie adeguate a difendere l’ambiente per fare una grande battaglia unificante tra i cittadini e i lavoratori di Taranto  Invece sta diventando una questione dei lavoratori contro i cittadini, perché ci sono i padroni come Riva, Marcegaglia, ecc. che non spendono una lira per l’ambiente. Allora il sindacato deve affrontare le questioni sapendo che ci sono tecnologie per salvaguardare l’ambiente. Ovviamente migliorare la salute della gente significa ridimensionare i profitti dei padroni.

 

Quali erano i rapporti con il PCI? 

Per molti di noi non si trattava di adesione incondizionata. Quello che si discuteva nel CdF passava attraverso le assemblee operaie, ma anche attraverso le assemblee di operai e cittadini, e nessuno poteva rimetterlo in discussione, nemmeno il sindacato e il PCI. I rapporti con il PCI e il sindacato erano motivo di frizione tra la classe operaia. Quando nel 1992 Bagnoli fu chiusa, ed era una fabbrica che non doveva essere chiusa perché aveva raggiunto livelli tecnologici molto alti, ci furono gruppi (compreso il mio) che andavano a stracciare i manifesti del PCI perché il Comitato federale aveva appoggiato una linea a cui noi eravamo contrari. Non eravamo quindi mossi da cieca fiducia, non guardavamo alle sigle, ma agli obiettivi e ai bisogni della gente, della classe operaia e del territorio.

Eravamo un punto di riferimento per la gente di Napoli. Quando facevamo una manifestazione a Bagnoli ci seguivano tutti, a partire dai disoccupati nonostante i dissidi che talvolta avevamo con loro. Quando organizzavamo manifestazioni spesso erano manifestazioni che non partivano dal sindacato ma dal CdF. Chiamavamo il CdF della Sofer, il CdF della Alfasud, della Olivetti e dal confronto tra tutti scaturiva la decisione di organizzare una grande manifestazione sul territorio.

Oggi, se mi è permessa una riflessione, abbiamo sì gli operai, ma la classe operaia con una visione universale, la classe operaia con una sua visione culturale, non ce l’abbiamo più.

Quando si parla di classe operaia universale, di centralità operaia, occorre confrontarsi con il concetto di globalizzazione. Quando si è affermata la globalizzazione, in molti l’hanno vista come un fatto nuovo, ma per la classe operaia essa faceva già parte della propria cultura, stava nella visione del mondo globale in cui principali sono sempre stati i bisogni e gli interessi dei ceti più deboli. Non corrispondeva quindi certamente a una visione come quella attuale, centrata solo sulle merci e sui profitti. Per noi la visione globale era soprattutto mettere al centro le persone, i bisogni della gente.

 

Avete mai pensato al CdF come strumento per arrivare a cambiare il paese?

Noi non abbiamo mai ragionato in termini individuali, non pensavamo solo a noi stessi ma facevamo un grande sforzo per parlare alla gente. Guardavamo al territorio, come al mondo intero, in un’ottica di internazionalismo proletario. A quei tempi gridavamo “proletari di tutto il mondo unitevi”. Oggi invece c’è la guerra tra poveri, immigrati contro italiani, lavoratori italiani contro i lavoratori polacchi. La guerra tra poveri è una strategia del capitale per vanificare l’unione dei proletari. Una volta se la prendevano con i meridionali, dicendo che era vietato affittare ai meridionali, oggi se la prendono con gli immigrati, di volta in volta l’obiettivo è comunque e sempre il più debole. Oggi siamo divisi e indeboliti, dobbiamo ricostruire la sinistra.

Il CdF era uno strumento per stimolare chi aveva il potere materiale di fare scelte che riguardavano tutto il paese. Non a caso nei CdF si discuteva di questioni salariali, di occupazione e disoccupazione o delle scuole. Io in quegli anni facevo il rappresentante di classe nelle scuole. Quando tenevo le assemblee nelle scuole la gente non mi vedeva come Aldo Velo, il padre di un alunno, ma come Aldo Velo del CdF di Bagnoli. Esisteva una consapevolezza diffusa. A quei tempi mi feci anche 20 giorni in carcere, a Poggioreale, per una condanna per oltraggio a pubblico ufficiale scaturita da una battaglia a scuola che portò all’occupazione dell’autostrada fatta assieme alle mamme degli alunni.

 

Ci stai dicendo che il CdF  riusciva a incidere sulle scelte politiche?

Sì, noi incidevamo sulle scelte, avevamo una visione complessiva. Decidevamo a partire da chi erano i nostri candidati al Parlamento o al Comune nelle liste del PCI, come decidevamo e incidevamo sulle decisioni politiche cittadine e oltre. Oggi è difficile decidere. Guarda per esempio la questione dei rifiuti. Ma è mai possibile che a Napoli ci sono stati 50 sindaci e nessuno è riuscito a fare un impianto di compostaggio? Continuano a fare iniziative politiche, vengono eletti e continuano a fare campagna elettorale, ma le cose non le fanno.

Pensa che noi ci battemmo per fare le Regioni, come anche i  Consigli di quartiere. Per fare che cosa?  Dovevano essere come i CdF, dovevano essere strumenti di rappresentanza popolare. I Consigli di quartiere che oggi ci sono sui territori non assolvono questa funzione, sono servi del centro, dei comuni ma non sono veri rappresentanti degli interessi della gente​.

 

Pensi che oggi sia possibile e utile riproporre l’esperienza dei CdF?

Penso sia necessario ristabilire una vera rappresentanza della classe operaia, non so come si potranno chiamare gli strumenti di questa rappresentanza. La rappresentanza che esisteva è stata distrutta dalla cultura del maggioritario e  dell’individualismo. I Berlusconi, i Renzi di turno, portavoce di una cultura corporativa, hanno contaminato la società nel suo insieme. Oggi persino i centri sociali non sono gli stessi che ho conosciuto io. La stessa sinistra, gli stessi movimenti, hanno un problema, quello del linguaggio. I ragazzi non possono tenere assemblee e parlare come se stessero tenendo un esame all’università. Devono adottare un linguaggio comprensibile a tutti, anche alla gente di strada. Tu la coscienza la ricostruisci se trovi il modo per parlare con le masse, per confrontarti. Io credo che uno dei punti che dobbiamo affrontare è questo. Dobbiamo essere più chiari, chiamare le cose per nome e cognome. Quando la gente non ti capisce non vai da nessuna parte. Una certa sinistra ha imposto che si discutesse di pareggio di bilancio, di limiti di spesa, di limiti di questo o di quest’altro. Io credo che si debba ricominciare a discutere delle questioni vere, delle questioni che riguardano gli operai, le persone. Bisogna cominciare a dire che il profitto, i guadagni devono essere funzionali allo sviluppo della collettività e dei suoi membri.

 

Elevare la coscienza vuol dire anche far conoscere agli operai di oggi esperienze come quelle dei CdF, di cui tu hai fatto parte, illustrarne gli insegnamenti…

Attenzione a una cosa! Quando dicevo che la classe operaia non esiste più, non intendevo dire che l’operaio in quanto tale oggi non c’è, ma che non ha più una coscienza di classe e questo non per colpa sua. La coscienza di classe si forma a fronte dei problemi essenziali della vita quotidiana. Quando parlavo del rapporto tra incremento delle attività produttive e tutela dell’ambiente, ne parlavo perché questa è una delle questioni su cui oggi si forma la coscienza di classe, proprio come, nel ’68-69, te la formavi ragionando sul rapporto tra salario e lavoro.

Quando oggi un operaio si riduce a fare delle lotte al ribasso, oppure andare in cima ad una torre…. mi stanno licenziando e “i vado ‘n coppa a torre”!, allora qualcosa non va. Io penso che occorrerebbe bloccare il paese!

Se si riuscisse a organizzare oggi un dibattito all’interno della FIOM, chiamando i vecchi compagni a discutere con i compagni più giovani, io non so dirti che cosa ne uscirebbe. Di sicuro c’è che un confronto è tuttavia necessario.

 

 

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