Intervista ad Alberto Armellini e Bruno Statuti sul CdF della FIAT di Cassino (FR)

Ci raccontate la vostra esperienza nel Consiglio di Fabbrica della FIAT di Cassino? Quando è iniziato il vostro impegno politico e sindacale?

Alberto: Io sono di origini piemontesi ma sono cresciuto a Formia, in provincia di Latina. Sono stato tra i primi assunti alla FIAT di Cassino nel ’72: ero appena tornato da Londra, dove avevo vissuto per qualche tempo, quando iniziarono le selezioni per entrare in FIAT. Con Andreotti erano stati stanziati oltre 100miliardi di vecchie lire per aprire lo stabilimento, io allora avevo 24 anni, ero perito elettronico e inoltre ero stato ufficiale di complemento da militare, quindi ero appetibile come impiegato. Ricordo che fummo in tre ad essere assunti da fuori zona perché ancora non erano disponibili le liste dei raccomandati dai preti delle varie parrocchie di Cassino. A quei tempi ancora non militavo. Appena assunto accettai di andare un anno a Torino per fare formazione come impiegato analista e quell’esperienza mi servì a comprendere in che condizioni avremmo poi lavorato a Cassino. Il reparto lastrature era un vero inferno, scintille, puzza di olio bruciato, presse grandi come case… In verniciatura si stava senza protezioni e si combatteva per avere i ventilatori o i riscaldamenti per l’inverno. Tornato a Cassino nel ‘73, iniziammo le prime lotte. Molti di noi avevano lavorato all’estero prima di entrare in FIAT e questo ci portava ad avere una mentalità diversa da chi magari aveva fatto solo il contadino e in generale era più accondiscente. Alla prima occasione presi contatti coi rappresentanti del sindacato che venivano a volantinare ai cancelli in occasione delle prime assemblee. Mi nominarono subito rappresentante, all’epoca le votazioni non c’erano ancora.

In ufficio, tra gli impiegati, ero l’unico a sapere l’inglese e traducevo le indicazioni dell’IBM, mi mandavano a fare corsi di aggiornamento a Torino, a Milano… un giorno però, dopo uno sciopero, il capo mi chiama e mi chiede se ho usufruito della “cassa mutua”, io gli rispondo che avevo scioperato e da lì finisce la mia carriera in FIAT: per me non ci saranno più né corsi né avanzamenti di livello.

 

Bruno: Io non ero un dipendente FIAT. Lavoravo alla Termosac, una fabbrica cartotecnica di Cassino che produceva imballaggi per alimenti, ecc., ma per tutti noi operai politicamente attivi gli operai FIAT erano un importante punto di riferimento, quindi sostenevo dall’esterno tutte le loro iniziative di lotta. Il movimento operaio era nato insieme agli insediamenti industriali finanziati con la Cassa del Mezzogiorno. La costruzione dello stabilimento FIAT aveva portato a scontri tra le forze dell’ordine e i contadini e i latifondisti che non volevano lasciare le loro terre. Io allora ero attivo nella CGIL di Cassino. Il sindacato a partire dagli anni ’70 viene contestato in misura sempre maggiore dagli operai. L’attivismo operaio cresceva non solo fuori i cancelli della FIAT ma anche fuori la SKF, la Cartiera, ecc. Io sono stato espulso dalla CGIL per aver battaglia contro le posizioni opportuniste: la CGIL a livello nazionale aveva firmato un CCNL bidone per i cartai e io e i miei compagni scrivemmo allora un volantino di forte critica. Ci espulsero in sei, nel ‘74-‘75 all’incirca. Il direttivo CGIL, senza nemmeno mandarci dai probiviri, ci cacciò (a Cassino c’erano Cossuto e Serra, del PCI). La nostra espulsione fu portata al direttivo nazionale della CGIL e contestata da Vittorio Foa (un anziano dirigente CGIL ex partigiano), ma non ci fu niente da fare. Al momento della nostra espulsione, a Cassino non esistevano ancora i CdF e io e i miei compagni ci ritrovammo senza copertura sindacale e col forte rischio di essere licenziati. Così ci iscrivemmo alla CISL e portammo molti compagni a fare lo stesso, tanto che iniziammo ad esercitare una grossa influenza al suo interno. In quegli anni erano molti i compagni che passavano alla CISL dopo essere stati espulsi o emarginati dalla CGIL in quanto lavoratori combattivi e d’avanguardia. Ad un certo punto il nazionale della CISL inviò da fuori un quadro onesto (precedentemente la CISL a Cassino era completamente in mano alla DC locale) e l’attività della CISL cambiò in positivo: ricordo che andavamo a fare volantinaggi anche in fabbriche dove non si era mai scioperato o in posti di lavoro che erano sotto il controllo del vescovo di Montecassino. Insomma, iniziative controcorrente per il sindacato di fiducia della Democrazia Cristiana.

 

Quando vengono creati i Consigli di Fabbrica in FIAT e nel cassinate?

Bruno: Mentre in altre parti d’Italia, vedi Italsider di Bagnoli e Mirafiori di Torino, i CdF erano già presenti, nel nostro territorio fanno la loro comparsa nel ’76, anno in cui si costituisce il Consiglio di Fabbrica della FIAT di Cassino. Le dirigenze sindacali non vedevano di buon occhio l’introduzione dei CdF. Da noi a Cassino nel ’75 si iniziò a parlare di organizzare le elezioni dei delegati con la scheda bianca (cioè senza nomi selezionati dal sindacato fuori dalla fabbrica). Nello stesso periodo (metà degli anni ’70) nacque la Federazione Lavoratori Metalmeccanici che unificava FIOM, FIM e UILM in un unico sindacato. Così alla fine le dirigenze locali dei sindacati dovettero cedere e i CdF, a partire dalla FIAT, si costituirono in molte fabbriche del territorio. I sindacati pensavano di utilizzare i CdF per controllare la mobilitazione operaia. In FIAT all’inizio il CdF era diretto dai sindacati.. Via via emerge però che quanto stabilito nei CdF non viene più portato ai tavoli di trattativa con l’azienda, nonostante ad essi partecipi anche una piccola delegazione del CdF (composta per lo più da uomini di fiducia del sindacato). Le squadre di operai, rendendosi conto di questa piega, iniziano allora a organizzarsi autonomamente. In lastratura e verniciatura, dove le condizioni di lavoro sono particolarmente dure, gli operai autorganizzati cominciano a indire scioperi senza darne neppure comunicazione ufficiale. Essendo una produzione a ciclo continuo, bastava che un reparto si fermasse per bloccare tutta la produzione. I sindacati non condividevano queste iniziative, ma non potevano farci niente. Molte volte le squadre entravano in sciopero senza nemmeno interpellare il delegato sindacale, dal momento che alcuni di essi erano venduti o troppo concilianti con la direzione aziendale. I Consigli di Fabbrica erano eletti in maniera veramente democratica: un raggruppamento di 50 operai votava il proprio rappresentante su “scheda bianca” (non c’era una rosa di nomi predefinita come accadeva prima, ai tempi delle Commissioni Interne), tutti votavano indipendentemente dall’iscrizione al sindacato e l’eletto era revocabile in qualsiasi momento. Per revocare il delegato, per destituire uno che non faceva più gli interessi degli operai, non si era costretti ad aspettare le elezioni successive, dopo 4 anni. Bastavano 26 firme della squadra. Le regole erano diverse: veniva eletto il candidato che raccoglieva il 50% +1 dei voti della squadra dei 50 operai che andavano a votare. Oggi invece il candidato RSA lo sceglie il sindacato e non è revocabile.

 

 

Alberto: D’altronde il sindacato è un “avvocato”, è la mobilitazione operaia che fa la differenza tra i sindacati di allora e quelli di oggi…

Tra il ‘73 e il ‘77 su 400 impiegati io ero l’unico delegato FLM, gli altri delegati degli impiegati stavano con il sindacato aziendale. Successivamente altri impiegati passarono alla FLM e alla fine diventammo una decina di delegati. Io ero sempre impegnato a indire assemblee e fare volantinaggi. Quando c’era un’assemblea, indetta sotto la palazzina direzionale, arrivavano anche 2.000 operai! Ad un certo punto, per impedire la mobilitazione dentro lo stesso stabilimento, l’azienda mise dei cancelli interni che separavano le palazzine direzionali dal resto della fabbrica. Prima era prassi che i cortei interni degli operai entrassero nelle palazzine per andare a prendere di peso il direttore: ricordo un corteo interno in cui prendemmo il direttore, lo trascinammo fuori dall’ufficio con tutta la poltrona e lo buttammo giù per le scale con essa, visto che si rifiutava di alzarsi!

Questa era la situazione a Cassino dal ‘76 fino al ‘79. Tutto sommato le cose non cambiarono neanche con i cancelli interni a protezione delle palazzine: ricordo un giorno di sciopero in cui i responsabili del personale e altri personaggi ci intimavano di entrare a lavoro…, noi ci eravamo procurati di nascosto le chiavi dei cancelli, così non solo scioperammo in massa, ma aprimmo anche i cancelli delle palazzine e i dirigenti iniziarono a scappare a gambe levate! Un’altra volta invece li cogliemmo di sorpresa arrivando in mille nelle palazzine attraverso i sotterranei dello stabilimento: ancora una volta furono costretti a una fuga memorabile!

Aneddoti da cui emerge la forza dei CdF ce ne sono molti. Dal ‘74 al ‘79, tutti i venerdì notte, picchettavamo i cancelli contro lo straordinario e il taglio delle pause. Una volta mentre in una decina picchettavamo contro gli straordinari… erano circa le 4 di mattina, c’era una nebbia fitta e noi ci scaldavamo col fuoco dei copertoni delle macchine…, arrivarono 4 volanti e una camionetta di carabinieri a intimarci di andare via e soprattutto di lasciar passare gli operai che volevano fare lo straordinario di sabato. Noi compatti chiedemmo al maresciallo di Piedimonte, Vecchio si chiamava, se per caso fosse diventato un sindacalista e avesse intenzione di difendere gli operai che volevano entrare… I carabinieri tentarono di portarci via con la forza e si scatenò una rissa. Nonostante fossero armati e noi a mani nude, furono loro ad avere la peggio e a dover desistere! Molte volte eravamo noi a mettere i lucchetti ai cancelli o a sabotare quelli messi dall’azienda, inseguivamo i crumiri e li menavamo sulle gambe, per dare loro una lezione.

Un altro episodio degno di essere citato riguarda il licenziamento politico di Giancarlo Rossi, sul finire degli anni ‘70: il giorno dopo il suo licenziamento, gli operai, con l’appoggio del CdF, scortarono Rossi dentro la fabbrica e lo rimisero al proprio posto. La situazione era talmente ingestibile per l’azienda che alla fine essa dovette ritirare il licenziamento.

 

Quali erano le organizzazioni politiche attive sul territorio di Cassino? Intervenivano sulle lotte della FIAT?

Bruno: Cassino era un feudo della Democrazia Cristiana (DC), ma diversi comuni intorno avevano un’amministrazione PCI (San Donato, Ceprano, Isola Liri…) e tra i metalmeccanici prevaleva un orientamento politico di sinistra. Il PCI aveva una direzione di destra e controllava la CGIL. All’inizio degli anni ’70 noi operai attivi politicamente militavamo nelle organizzazioni della sinistra extraparlamentare (PSIUP, PDUP, ecc.). C’erano i giornali di Lotta Continua, Avanguardia Operaia…  A Cassino avevamo aperto una sede, il circolo “Mao Tse-tung”, in omaggio alla rivoluzione cinese. Questo circolo era il punto di riferimento della sinistra extraparlamentare del territorio. Poi, nella seconda metà degli anni ‘70, nacque Democrazia Proletaria, per provare a entrare nelle istituzioni… Io entrai in DP. Questo era lo scenario politico di sinistra a Cassino.

 

Alberto: C’erano anche altri compagni che venivano da Roma, dai collettivi dell’allora Autonomia Operaia di via dei Volsci e portavano giornali e propaganda. Noi del circolo “Mao Tse-tung” non facevamo riferimento a una sigla specifica e facevamo girare anche informazioni e materiali che venivano portati da fuori.

In fabbrica giravano anche i volantini di organizzazioni comuniste combattenti. Io sono stato arrestato nel ’79 perché dissero che volantini firmati dalle BR erano stati rinvenuti sul balcone di casa mia e mi sono fatto 11 mesi di carcere con l’accusa di banda armata e associazione sovversiva. Sono stato arrestato anche una seconda volta, dopo l’uccisione del capo della sicurezza dello stabilimento (Carmine De Rosa, ex capitano dei carabinieri ucciso il 4 gennaio 1978 in un’azione delle Squadre Operaie per il Comunismo) per “concorso in omicidio” perché ero a lavoro quando gli spararono. Nello specifico ero accusato, senza prove, di aver contribuito all’azione organizzando il volantinaggio di rivendicazione che ebbe luogo subito dopo. Sei anni dopo la Cassazione decretò che il “fatto non sussisteva” ma intanto io, Giancarlo Rossi e altri compagni ci facemmo 6 anni di carcere sulla base delle dichiarazioni di vari pentiti (Donat Cattin, Barbone, ecc.). In primo grado ci condannarono a 10 anni ma il procuratore di Cassino ricorse in appello chiedendo l’ergastolo. Rischiavamo condanne superiori ai 30 anni. Subimmo il ricatto della dissociazione, ma io non mi sono dissociato, altri invece lo hanno fatto. Alla fine la Cassazione derubricò il reato da “concorso in omicidio” a “concorso morale”.  Dopo 6 anni di carcere e 3 di confino in Abruzzo, nel ‘90 feci ricorso per ingiusta pena e nel ‘97 ottenni anche il risarcimento: 130 milioni che per metà andarono al mio avvocato.

 

 

Il CdF si occupava soltanto di battaglie interne alla FIAT o anche di altre questioni?

Bruno: Erano molte le iniziative del CdF FIAT rivolte agli studenti delle scuole superiori e, di regola, quando le scuole venivano occupate, gli studenti si univano agli operai. La maggioranza del CdF era fatta da operai vicini al PCI, quindi attivi politicamente anche al di fuori della fabbrica. Con questi operai c’era un buon rapporto anche se io ero un extraparlamentare. Il CdF era un ambito di discussione che andava oltre la fabbrica: dal Servizio Sanitario Nazionale alle battaglie per i diritti delle donne.

 

Alberto: Nel CdF si discuteva anche di questioni esterne alla vita di fabbrica, del Servizio Sanitario, degli asili, ecc. Sottolineo che l’entrata in FIAT di diverse donne, alla fine degli anni ‘70, arricchì il CdF e portò la grande maggioranza degli operai a occuparsi della condizione femminile. Le donne venivano assunte con contratti differenti dagli uomini, ovviamente più svantaggiosi. Ad esempio tra noi impiegati FIAT, le donne diplomate in ragioneria come noi che svolgevano le  nostre stesse mansioni, venivano però assunte come “addette a servizi di ragioneria”. Quindi avevano un livello contrattuale inferiore e non veniva loro applicato il CCNL. Su questa questione organizzammo uno sciopero di 4 ore che vide una grande partecipazione e dopo che la spuntammo sullo scatto di livello per le donne, queste ultime si attivarono con grande entusiasmo nel CdF e più complessivamente a livello sindacale.

 

Esisteva un coordinamento tra il CdF della FIAT di Cassino e quelli degli altri stabilimenti FIAT sul territorio nazionale?

Alberto: verso la fine del ‘70 venne istituito un coordinamento nazionale dei CdF che si riuniva anche più volte al mese, a seconda delle fasi e per ogni riunione da Cassino partivano 7-8 operai. È nell’ambito di questo coordinamento che il CdF di Cassino decise l’occupazione dello stabilimento dall’1 al 17 ottobre, in solidarietà con la lotta dei 35 giorni di Mirafiori.

Esisteva anche un coordinamento con operai di altre fabbriche del territorio: erano tanti i compagni, non dipendenti FIAT, che durante quei 17 giorni, dopo il lavoro, si ritrovavano fuori dei cancelli per sostenere l’occupazione. Ovviamente non mancavano nemici e crumiri tanto che, anche a Cassino, si tenne una piccola “marcia dei 40mila”.

 

Quali sono secondo voi le cause che hanno portato all’esaurimento del movimento dei CdF? Che peso hanno avuto in questo i limiti del movimento comunista del tempo, l’assenza di un Partito comunista capace di far confluire le lotte operaie in un movimento rivoluzionario?

Alberto: A cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 lo Stato e i padroni sono andati all’attacco. Tre passaggi a mio avviso sono stati decisivi: la repressione e la criminalizzazione del movimento rivoluzionario e antagonista, la marcia dei 40mila di Torino e infine il licenziamento delle avanguardie di lotta dei CdF (in FIAT i licenziamenti partono dopo la marcia dei 40mila e l’accordo sindacale che sanciva decine di migliaia di procedure di cassa-integrazione). Provammo a rispondere a questo attacco, a resistere. Non era però facile in quel contesto costruire un’organizzazione che fosse capace di aggregare le spinte che venivano dal movimento operaio e a questo si aggiungeva la questione del PCI, il partito riconosciuto dalla grande maggioranza degli operai, ma che aveva preso una deriva istituzionale e che, sul finire degli anni ’70, diede l’avvio a una massiccia campagna contro gli autonomi e contro le organizzazioni comuniste combattenti. Chi apparteneva a queste aree politiche iniziò a essere malvisto anche nei CdF. Anche le avanguardie commisero degli errori. In generale gli operai sostenevano le azioni militanti, ma non la lotta armata e questa forma di lotta alla lunga isolò una parte delle avanguardie dal resto degli operai. Con l’omicidio Guido Rossa a Genova e quello di De Rosa qui a Cassino, gli operai iniziarono a spaventarsi. Tanti operai venivano arrestati per motivi politici in tutta Italia e anche tra quelli che fino a quel momento avevano sostenuto le lotte intraprese dal CdF cominciò a serpeggiare il timore di beccarsi un ergastolo. Reazione ben diversa da quella che si era avuta qualche mese prima che De Rosa fosse giustiziato, quando due trasformatori di energia posti fuori dello stabilimento furono fatti esplodere: le luci si spensero e in tutti gli spazi comuni della fabbrica comparvero volantini che rivendicavano le festività per gli operai. Questa fu un’azione decisamente ben vista dagli operai. Così come le irruzioni nelle palazzine di cui la massa degli operai era protagonista. Ma quando ci fu il famoso “salto di qualità” della lotta armata, con l’azione contro il capo della sicurezza, noi avanguardie all’interno dello stabilimento iniziammo ad essere via via più isolate. D’altronde il CdF di Cassino non era un’organizzazione bolscevica. Cassino in quegli anni era diventata una fabbrica di operai combattivi ma era anche una fabbrica con molti operai cosiddetti metalmezzadri, gente che aveva di che campare (tramite il lavoro della terra) al di là della FIAT.

 

Bruno: Durante la lotta dei 35 giorni del 1980 a Torino, anche lo stabilimento di Cassino fu occupato in segno di solidarietà: fu allora che i vertici sindacali decisero che bisognava stroncare i CdF. Contemporaneamente ci fu la rottura tra FIOM, FIM e UILM che sancì la fine della FLM. L’offensiva delle dirigenze sindacali partì in una fase in cui esse non avevano più il controllo degli operai: i CdF infatti erano in molti casi autonomi. A Cassino, ad esempio, si era arrivati al punto che il rappresentante del CdF ai tavoli di trattativa non era più un uomo del sindacato. E consideriamo pure che in quegli anni se il sindacato faceva un accordo che non andava bene, il CdF chiamava lo sciopero contro il sindacato stesso! Insomma le dirigenze sindacali avevano perso il controllo dei CdF e dovevano riprenderlo, quindi iniziarono a prendere provvedimenti per arrivare a stroncarli.

Sempre in quegli anni, inoltre, ha inizio il processo di automazione: a Cassino i padroni cominciano a parlare di ridurre gli 11mila operai impiegati e questo faceva paura agli operai perché significava perdere il posto di lavoro.

Eravamo attaccati dalla dirigenza del PCI e del sindacato, dal padrone e criminalizzati e repressi dallo Stato. Provammo a resistere a tutto questo. Ricordo che “resistenza” era la parola d’ordine più diffusa tra le avanguardie in quel periodo. Dovevamo pure fare i conti con le divisioni interne tra chi di noi era per entrare in clandestinità e prendere il potere con la lotta armata e chi invece riteneva che questo fosse un errore e voleva restare fuori da quelle dinamiche. La mia posizione era “né con lo Stato, né con le BR”… ma non mi servì ad evitare la repressione. Nel periodo del sequestro Moro ho avuto 7-8 perquisizioni: venivano a casa di mia madre, circondavano il palazzo, agivano in grande stile per diffondere la notizia e farti terra bruciata sia nel quartiere dove abitavi che in fabbrica. Ovviamente noi denunciavamo regolarmente la repressione: facevamo volantini e tazebao e li diffondevamo sotto i portici di Cassino, tra i cittadini.

 

Il Partito dei CARC lavora per costruire nuovi Consigli di Fabbrica. Dal vostro punto di vista è utile rilanciare oggi l’esperienza dei CdF?

Alberto: Dopo l’80 è diventato più difficile organizzare i lavoratori, per via della disoccupazione, dei contratti e dei ricatti. All’’epoca c’era piena occupazione e questo facilitava le avanguardie nel lavoro di elevazione della coscienza politica. Oggi mi sembra che i giovani siano poco interessati alla politica Ma soprattutto, chi è che oggi, a parte il Partito dei CARC, parla di rivoluzione socialista agli operai? Negli anni di cui abbiamo raccontato davanti allo stabilimento di Cassino ogni giorno c’erano volantinaggi e diffusioni militanti di materiale politico. Non c’era giorno che qualcuno dei partiti e dei gruppi politici dell’epoca non fossero ai cancelli. Oggi questo non avviene e ciò rende difficile ripetere l’esperienza dei CdF.

Bruno: Mi piacerebbe nascessero nuovi CdF, ma come diceva Alberto allora c’erano grandi concentrazioni operaie e una situazione contrattuale migliore. Quel che è certo è che gli operai un’organizzazione se la devono dare. In questo senso ritengo che il sindacato, per quanto concertativo, sia un’organizzazione importante che va sempre difesa perché è nel sindacato che l’operaio inizia a scoprire che organizzato è più forte.

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