Intervista a Rita Formichi e Francesco Pappalardo, medici del lavoro che hanno collaborato con i CdF della Magona e della ex Lucchini (Piombino-LI)

Rita Formichi e Francesco Pappalardo, dal 1978 a metà degli anni ’80, sono entrati nelle acciaierie di Piombino, la Magona e la ex Lucchini (allora ILVA) in qualità di Medici del Lavoro. In questa intervista, un po’ diversa dalle altre, riportiamo quindi l’esperienza non di operai ma di tecnici che hanno collaborato con i CdF contribuendo alla causa della classe operaia e delle masse popolari.

 

Parlando con Francesco mi ha colpito un particolare, cioè che voi siete entrati in fabbrica per fare ispezioni in virtù dell’art. 9 dello Statuto dei Lavoratori che tutela la salute e l’integrità fisica. La lotta per la salute era centrale per i CdF e ha portato alla nascita di diversi organismi operai e popolari. Immagino che a quei tempi anche i medici del lavoro avessero delle difficoltà a entrare in fabbrica per svolgere accertamenti … 

Rita: Hai detto “voi siete andati in fabbrica con poteri ispettivi” … ma in realtà, come ti spiegherà Francesco, quando noi siamo entrati in fabbrica per le verifiche connesse all’art. 9, i poteri ispettivi non ce li avevamo e quindi non li abbiamo usati. Ci siamo avvalsi di altri poteri. Questo particolare è molto importante.

 

Francesco: Il nostro primo ingresso in fabbrica per le verifiche legate all’articolo 9 fu alla Magona di Piombino il 22 maggio 1978. Anche esso è da inquadrare nel processo politico che a livello nazionale aveva portato all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. In Emilia Romagna c’era stata l’esperienza dei Consorzi socio-sanitari, introdotti dalle amministrazioni guidate dal PCI, che in qualche modo anticipa quelle che poi saranno le Unità Sanitarie Locali. I consorzi intervenivano non solo sulla cura della malattia, ma anche sulla prevenzione, sull’assistenza domiciliare, la sanità territoriale, gli ospedali e così via. È in questo ambito, in cui si discuteva già di partecipazione diretta dell’utenza ai servizi, che nacquero in Emilia i primi servizi territoriali di prevenzione nei luoghi di lavoro che hanno preceduto la riforma del 1978. Questi servizi non avevano alcun potere ispettivo rispetto alle aziende, per cui si poteva entrare di fatto solo nelle fabbriche dove esisteva un sindacato capace di imporre i controlli. Lo strumento normativo che i sindacati utilizzavano per portare tecnici di loro fiducia all’interno della fabbrica erano l’art. 9 dello Statuto dei Lavoratori e la legge 300 del 1970.

L’art. 9 prevedeva che i lavoratori, attraverso le loro rappresentanze, potevano promuovere indagini sulla nocività in fabbrica affidandole a tecnici di loro fiducia. Noi entravamo quindi solo dove i Consigli di Fabbrica ci chiamavano. Se erano i Consigli di Fabbrica a richiedere il nostro intervento, le aziende non potevano opporsi, anche se poi spesso e volentieri trovavano mille modi per boicottarci.

Non era per niente facile e spesso sorgevano dei problemi. Nelle grandi aziende in genere esistevano Consigli di Fabbrica strutturati e le aziende avevano altri “mezzi” per affrontare il Consiglio, strumenti diversi dai mezzucci da bottega di oggi. Dove il Consiglio di Fabbrica era forte riuscivamo ad avere una certa agibilità e la cosa estremamente positiva era che l’intervento di noi tecnici si svolgeva in strettissimo rapporto con i lavoratori. Alla Magona abbiamo tenuto 138 assemblee di gruppo omogeneo per esposizione al rischio (per gruppo omogeneo si intende un insieme ampio di lavoratori esposti allo stesso tipo di infortuni correlati ai rischi fisici, chimici, di organizzazione del lavoro -ndr) e svolgevamo incontri con ogni singolo gruppo. Alla Magona c’erano 1.400 operai e una ventina di reparti, per cui abbiamo lavorato con una quarantina di gruppi omogenei.

Facevamo più di una riunione con ogni gruppo omogeneo per analizzare i rischi a cui i lavoratori erano esposti. Avevamo elaborato dei questionari che già giravano a livello nazionale, a seguito di alcune esperienze avanzate della FIOM torinese e grazie all’ impostazione del tipo di intervento previsto in fabbriche come la FIAT di Torino da Gastone Marri (dirigente della CGIL e pioniere della lotta per la salute in fabbrica – ndr). Cosa scoprivamo? Innanzitutto che il tecnico quando entra per fare il sopralluogo (questo noi lo abbiamo visto molto bene) se è da solo e non può avere contatti diretti con chi lavora, capisce il 10-15% di quello che realmente succede in fabbrica. Il rischio effettivo lo accerti solo se puoi parlare a fondo con gli operai che in fabbrica ci vivono e ci lavorano, perché il rischio è dinamico, non è qualcosa che vedi passando. Il rischio è nelle situazioni che si determinano e che bisogna quindi capire e analizzare per poterlo prevenire, per fare in modo che situazioni rischiose non si trasformino in un pericolo reale e in un danno per i lavoratori.

Ne è uscita fuori una sorta di enciclopedia di 12 volumi, di circa un centinaio di pagine ognuno, sull’analisi del rischio in Magona. Sulla base della nostra relazione, l’azienda è poi intervenuta per adeguare le tecnologie. Noi cercavamo in tutti i modi di mostrarci imparziali (eravamo comunque dichiaratamente comunisti) e di essere inattaccabili per quel che atteneva alla metodologia di lavoro e all’identificazione dei rischi e questo ci ha fatto guadagnare una certa credibilità.

Non erano solo i lavoratori, ma anche le stesse aziende che, prima di dirci “no questa è una cazzata”, ci andavano caute con noi perché sapevano che non parlavamo a vanvera. Furono fatti interventi importanti, come l’insonorizzazione di molte cabine dal momento che avevamo riscontrato ovunque danni uditivi. C’erano alcuni reparti in cui gli operai svenivano per intossicazione da diossido di carbonio ma prima che arrivassimo noi nessuno aveva compreso la causa dei malesseri e alla fine anche questi reparti furono bonificati. Nel reparto di verniciatura si intervenne per migliorare le cappe di aspirazione per la verniciatura dei solventi e così via. Il nostro intervento, che si è protratto per 4 anni, dal ‘78 all’‘82 circa, ha prodotto dei miglioramenti effettivi.

Una volta finito il lavoro, si torna successivamente per verificare cos’è cambiato, se le misure adottate sono risultate idonee, se i danni alla salute che avevi riscontrato persistono, migliorano o peggiorano. Di fatto, l’intervento non finisce mai da questo punto di vista. E lo strumento che rendeva possibile tutto ciò era appunto il famoso art. 9 che oggi nessuno ricorda più. In teoria esso esiste ancora dal momento che non è mai stato cassato. Ma è subentrata tutta la normativa successiva, il Decreto 81 (il Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, emanato nel 2008 dal governo Prodi – ndr), ecc., “oggi ci sono le rappresentanze, ci sono gli RLS”.

Io ho chiesto a diverse persone, che da un punto di vista strettamente legale ne capiscono più di me, come stanno effettivamente le cose, mi piacerebbe davvero capire, se dal punto di vista tecnico-legale, l’articolo 9 dello Statuto dei Lavoratori è ancora valido oppure no perché questo fa un’enorme differenza. 

Quando oggi intervieni in un luogo di lavoro con i poteri ispettivi conferiti dalle norme attuali, trovi infatti già una valutazione del rischio che l’azienda commissiona a tecnici di sua fiducia (il DUVRI – Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenze – ndr) e su quello ti devi basare. Se poi vuoi, puoi sempre fare i tuoi sopralluoghi ma non hai più lo strumento che ti consente di stare a tavolino ore e ore con i lavoratori per analizzare tutte le situazioni a rischio. Non hai più lo strumento che ti permette di fare una valutazione del rischio autonoma, una valutazione fatta assieme ai lavoratori e da tecnici di loro fiducia. Questo è sostanzialmente il problema. E la cosa cambia radicalmente. Tant’è che con l’istituzione dei poteri ispettivi noi nell’82 siamo diventati ufficiali di polizia giudiziaria.

 

Quindi con quale qualifica siete entrati in fabbrica?

Francesco: Con la qualifica di tecnici di fiducia del Consorzio socio-sanitario. Allora la sanità nelle “regioni rosse” si era organizzata (secondo il modello emiliano) in Consorzio socio-sanitario. A quei tempi c’era una distinzione netta tra il Consorzio sanitario che rappresentava la medicina territoriale – quindi la prevenzione nei luoghi di lavoro – e l’igiene mentale, i Sert e gli ospedali che invece facevano parte a sé. Con l’entrata in vigore dalla riforma sanitaria, l’USL, al contrario, inglobava tutto: la prevenzione sul territorio, l’assistenza domiciliare, il ricovero ospedaliero e così via.

Nell’82, con l’istituzione dei poteri ispettivi, il nostro ruolo mutò rapidamente perché a quel punto eravamo ufficiali di polizia giudiziaria, con il potere di entrare sì dove volevamo, ma con tutti i vincoli previsti dal nostro nuovo inquadramento. Paradossalmente ci siamo trovati con le mani legate, in un momento in cui, dopo il ’78, anche i CdF perdevano la loro forza propulsiva. Nei primi anni ’80 attraversavamo già una fase di declino. Non avevamo più rapporti stretti con i gruppi operai, non analizzavamo più assieme a loro il rischio. Eravamo costretti a prendere per buona, fino a prova contraria, la valutazione del rischio che l’azienda aveva commissionato ad altri e dovevi fare i sopralluoghi, girare nei reparti e capire cosa succedeva, da solo. Noi cercavamo comunque, durante le ispezioni, di instaurare un dialogo con i lavoratori, ma la cosa era diventata complicata. All’inizio qualcuno parlava perché ci conosceva, poi piano piano si arrivò alla situazione in cui nessuno ti diceva più niente per paura (i lavoratori si guardavano attorno, tutt’al più ti sussurravano qualcosa all’orecchio). Questo comportava che quando tu dovevi rendere pubblica un’informazione che un lavoratore ti aveva confidato dovevi cercare altri riscontri perché non potevi dire “me lo ha detto tizio o caio”. Prima era diverso, facevi una riunione con il gruppo omogeneo e potevi dire quello che dalla riunione era venuto fuori. Avevamo quindi più poteri, ma solo in apparenza e per giunta in un contesto in cui i rapporti di forza erano notevolmente cambiati a discapito dei lavoratori.

 Persino la nostra prassi rischiò, un po’ per volta, di essere assorbita dalla logica propria del vecchio Ispettorato del lavoro che noi stessi vedevamo come fumo negli occhi, come qualcosa da abolire e superare.

Il nostro intervento andava sempre più verso la burocratizzazione ma soprattutto veniva ormai meno l’analisi collettiva dei rischi.

 

Avete parlato del gruppo omogeneo, quali erano altre forme di pianificazione e conduzione del vostro lavoro? Facevate ispezioni, sopralluoghi? Venivano con voi anche membri del CdF?

Rita: Non abbiamo mai fatto un sopralluogo senza la presenza di un delegato del CdF. Quando entravamo in fabbrica chiamavamo il delegato che ovviamente ci accompagnava; se il delegato della CGIL non poteva esserci avvisava l’altro della UIL o della CISL e procedevamo con lui al sopralluogo. Alla fine del sopralluogo decidevamo cosa fare sempre in loro presenza. Io per 4 anni ho sempre lavorato con il CdF. Considera che la prima persona che vedevo la mattina era il delegato del CdF, che veniva con me a fare i prelievi del sangue. Non ho mai fatto un prelievo del sangue senza che ci fosse qualcuno del Consiglio di Fabbrica. Mai! La pianificazione degli interventi io la facevo ovviamente con Francesco. Però quando noi due avevamo deciso come procedere chiamavamo Giancarlo (Chiarei, uno dei delegati del CdF Magona – ndr) o chi per lui e gli comunicavamo dove dovevamo andare e quando. Sai, i nostri erano un po’ interventi di parte se vuoi. Erano interventi di parte però loro ci assecondavano. In Magona, noi avevamo rapporti soprattutto con la CGIL, ma anche gli altri due delegati ci seguivano.

 

Francesco: in Magona, da un punto di vista sindacale Giancarlo l’asse centrale di tutto. Se non ci fosse stato lui non ci sarebbe stato nessun intervento a tutela della salute. Fu lui che riuscì ad imporre anche in Consiglio di Fabbrica (non è che erano tutti d’accordo!) che si facessero le ispezioni. E fu sempre lui che, giorno per giorno, per 4 anni seguì i lavori. Noi tenevamo a volte anche tre assemblee al giorno, una la mattina, una il pomeriggio e una la sera dopo le 22, e lui per anni è venuto a tutte le sessioni.

 

Rita: Non ti scordare che Giancarlo veniva tutti i pomeriggi alle h.14.30 e stava con me fino alla sera alle 19.30. Pensa che quando io lasciai il mio fidanzato il popolo di Piombino disse “ecco cosa faceva Giancarlo tutti i giorni lì con…”. C’era di che ridere: avevano trovato la causa della rottura della mia relazione… perché Giancarlo tutti i pomeriggi per 4 anni mi era stato accanto.

 

Avete subito forme di repressione da parte della direzione del Consorzio o dai padroni delle acciaierie? Se sì, come si è comportato il CdF?

Rita: Alla Magona andava bene. Io in quel periodo ero a convenzione. Ad un certo punto la mattina, mi trovavo in laboratorio, mi telefona il Consorzio e mi dice “vai a casa perché non siamo riusciti a rinnovarti la convenzione”. Io chiamo allora il CdF. Mi risponde Lucchesi della CISL e gli riferisco quanto successo. Lui: “Come? Chi si è permesso di fare una cosa del genere? Aspetta un attimo, ora telefono e vediamo, ma ti dico già da ora che se non riesco a risolvere la situazione, domani noi facciamo sciopero in massa”. Circa un’ora più tardi mi chiama una responsabile della USL e mi dice: “guarda, la cosa si è risolta”. In neppure un’ora, Lucchesi aveva rimesso tutto a posto.

Al contrario non ho mai avuto buoni rapporti con quella che un tempo era la Lucchini. Quando arrivò Lucchini io facevo le manifestazioni in prima linea…E mentre a Francesco leccavano ancora il culo, a me non mi facevano entrare, mi facevano sempre problemi.  Poi ci furono le sanzioni e le prescrizioni, in particolare alla cokeria.

 

Francesco: con l’intervento alla cokeria Lucchini stendemmo diverse decine di verbali e credo che furono un centinaio le prescrizioni comminate. E proprio sulla cokeria ci fu, a proposito della tua domanda, lo scontro decisivo. È lì che fecero fuori le due “ferro e fuoco” (oltre a Rita, anche l’ispettrice Beatrice Ferrante – ndr). Le fecero fuori nel senso che c’era l’azienda che insisteva perché noi continuassimo a intervenire in fabbrica, ma indipendentemente dai poteri ispettivi. Dicevano: “Venite qui… ci dite cosa dobbiamo fare. Ci date un consiglio”. Il sindacato titubava su questo però non era contrariato. Stiamo parlando della fine degli anni ’80, primi anni ’90. L’azienda insisteva per un nuovo tipo di rapporto. Noi non avevamo più legami stretti con i lavoratori perché se andavi in fabbrica la dirigenza creava una barriera per evitare che tu potessi chiacchierarci e se insistevi, ti rendevi conto che mettevi in difficoltà il lavoratore stesso. I lavoratori non parlavano più con noi. Quindi noi iniziammo a far valere i poteri ispettivi e questo, ovviamente, all’azienda rompeva non poco. Non credo per motivi economici (anche se le multe che facevano erano abbastanza salate) ma per motivi di immagine.  Dovevano rendere conto ai sindacati ed era evidente che non digerivano tutta ‘sta storia. Ci dicevano “troviamo un accordo, voi ci dite quando le cose vanno, quando le cose non vanno…”. Poi esplose la questione cokeria, che rappresentava una grossa fonte di rischio non solo per i lavoratori della fabbrica, ma anche per il quartiere. Noi avevamo contribuito non poco a mettere in evidenza il rischio e con l’Università di Siena avevamo avviato indagini a tappeto sui lavoratori. Emerse che essi erano pesantemente esposti a idrocarburi policiclici e l’azienda aveva tutto l’interesse a far risultare nei limiti il problema. Gli dicemmo che per noi questo era impossibile.

Io a quel punto, nel 1994-95, avevo già cambiato lavoro ed ero divento responsabile del Dipartimento delle attività sanitarie di comunità. Un’epoca si era ormai chiusa. Svolgere il nostro lavoro, come avevamo cercato di fare fino ad allora, non era più possibile. Per me è stato un abbandonare il campo per l’impossibilità a intervenire come un tempo. Senza il rapporto con i lavoratori, l’analisi e la prevenzione in fabbrica non puoi farle. Di questo sono convinto ancora oggi. Tu delegato, sindacalista, o lavoratore, puoi pure reclamare i controlli in fabbrica, ma se poi non ci sei quando arriva chi i controlli deve farli, se non ci sei tu a fargli notare le cose che non vanno, a fargli vedere quanto va visto e nel momento in cui va visto, allora è tutto inutile. L’ispettore che viene lì non è un operaio siderurgico che lavora in quella fabbrica da anni e conosce tutti impianti.

Rita: Il CdF, dopo averci sentite, a me e a Beatrice, dal momento che voleva superare questo problema e non voleva che noi perdessimo i poteri ispettivi quando andavamo a fare i sopralluoghi, chiese alla dirigenza un incontro. Ad esso partecipammo noi, l’azienda (Lucchini), il sindacato, il dipartimento, insomma fu una cosa in famiglia, ma in famiglia allargata. Incominciò a parlare Lucchini e io ero già sul piede di guerra perché diceva cose che non stavano né in cielo né in terra. Poi parlò il mio capo, il direttore del dipartimento. Eravamo di fronte a Lucchini. E il mio capo gli dava ragione. Io mi sentii ghiacciare perché se quello del dipartimento dava ragione a Lucchini, io allora a chi altri potevo rivolgermi? Fu quindi la volta del sindaco e anche il sindaco tutto sommato era per certi aspetti d’accordo con Lucchini. Pensai tra me e me che non avevano chiaro cosa stava succedendo. Al che mi girai perché dietro di me avevo il delegato del CdF. Ma questi, quando lo guardai, mi disse “lascia stare”. Ero da sola. Presi la parola ma rimasi isolata fino alla fine. Prese la parola anche Beatrice, la mia collega. Il sindacato non parlò. Gli altri rimasero sulle loro posizioni. Io e Beatrice uscimmo… avevamo perso. Avevamo perso ma eravamo convinte di aver ragione. Il giorno dopo ci contattarono per raccontarci cosa era successo dietro alle quinte: il sindaco aveva “consigliato”: “Quelle due vanno fatte fuori subito”.

Noi continuammo nonostante tutto a fare verbali e atti ispettivi, finché ad un certo punto fummo convocate in procura a Livorno. Alla procura c’era allora il viceprocuratore Giaconi. Gli raccontai quello che era successo in cokeria, che non se ne poteva più di quella situazione, che tutti là si facevano gli affari loro, ecc. E Giaconi mi disse: “Dottoressa la chiuda qui” … E io “Vuole che la chiuda qui? Chiede a me di farlo? Ma io non posso farlo, se c’è qualcuno che può questo è lei. Ha venti verbali in mano. Risolva lei la questione”. Allora il procuratore Solarino: “Dottoressa ho trovato una soluzione. Deve lasciare decidere a noi se questa azienda sta facendo davvero le cose fuorilegge. Lei ha affermato finora che alterano i dati…”. [Questo era vero perché facevano le analisi agli operai e mentre noi trovavamo valori di 50, loro li trovavano di 0.5 e si parlava di idrocarburi policiclici aromatici che erano cancerogeni. La Lucchini le analisi le faceva fare nel laboratorio di sua fiducia a Brescia, a noi invece le analisi le faceva l’Università di Siena ed era una cosa ben diversa…].

Al che dissi: “Procuratore io qualche dubbio in merito ce l’ho”. E lui: “Allora facciamo una cosa. Facciamo una perquisizione dei dati.”. “Mi sembra un’ottima idea” esclamai, ma al contrario di lui, io non sapevo come sarebbe andata a finire.

Domandai: “Scusi ma chi la dovrebbe fare la perquisizione a Brescia?”. “Lei” fu la sua risposta.

Io accettai, insomma pensavo è pur sempre il procuratore, non uno che chiacchiera tanto per chiacchierare. Avevo accanto la PS. “Si metta d’accordo con la pubblica sicurezza e andate. Procedete con la perquisizione”. “Vuole un consiglio? Fatela in contemporanea anche a Piombino. Così la fate a Piombino, la fate a Brescia e vediamo cosa succede!”. Aveva ragione.  Fu una perquisizione in piena regola. Io sono andata con la Polizia e ho capito solo allora che cosa significa fare una perquisizione.

Non sono sceneggiate quelle che vedi in televisione… è stato proprio uguale. Mentre stavamo entrando la PS mi avverte “Ora qui comandiamo noi”. La prima cosa che fecero fu chiamare Piombino. Eravamo ancora in macchina e dissero “siete pronti?” a Piombino risposero affermativamente. “Dove siete?”, “Davanti alle portinerie”, “Allora, se anche voi siete pronti, entriamo”. La prima persona in cui io mi imbattei fu il capo di Piombino.

Mi rivolgo allora all’impiegata amministrativa e, con il mio modo di fare molto colloquiale e gentile, le dico: “Signorina per cortesia vorremmo fare un sopralluogo”. Ma prima ancora di aver finito la frase vedo Franceschini con la pistola in mano che mi supera e la avverte: “Noi andiamo su. Avvisi chi vuole che noi stiamo arrivando”. Sono rimasta tutto il giorno a prendere quel che serviva. Al signor Lucchini questa cosa non piacque proprio per niente. C’è da dire che sono stati una banda di scemi perché non hanno neppure pensato a far sparire i veri risultati delle analisi. Le trovammo, ricordo il mio collega che mi disse “guarda, guarda..”. I risultati confermavano i nostri. L’azienda li falsificava in seguito. A Piombino non trovarono quasi niente, mentre noi venivamo da Brescia con un bel malloppo. Feci una relazione. Ci ho messo una settimana per stenderla. Fu uno sforzo immane, perché per dimostrare una falsificazione devi essere inattaccabile. Devo dire la verità, negli ultimi anni della mia attività lavorativa, ho sperato che la prescrizione tornasse di moda perché sono convinta di una cosa: loro avevano le spalle coperte da uno studio legale dei più rinomati a livello nazionale. Da una parte c’era una delle più grandi fabbriche d’Italia, dall’altra parte io che non valevo nulla. Mi avevano già fatto fuori perché ero “ferro e fuoco”, chissà cos’altro potevano farmi. Per fortuna la prescrizione c’è stata, perché non solo io ma anche la Procura non aveva troppa voglia di andare fino in fondo. Noi non siamo riusciti a fare niente contro i poteri forti.

 

Francesco: c’è un nesso cronologico tra questo avvenimento e la riunione in Comune, che sancì la fine del servizio di prevenzione nei luoghi di lavoro di Piombino. Allora eravamo in 22 a prestare servizio in questa grossa struttura nazionale: c’erano tecnici di vario tipo, periti. Non ci occupavamo solo di grandi aziende. Sul territorio c’erano tutta una serie di piccole e medie imprese, e poi c’erano “questi mostri” che assorbivano molte delle nostre energie.

Dopo questi fatti, dopo la perquisizione e l’incontro in Comune, la Regione decise di smembrare il servizio, di fare un servizietto per le grandi aziende da cui fu tenuta ben lontana la vecchia guardia, e un servizio per le piccole imprese, tipo parrucchieri, ecc., dove invece furono impiegati tutti gli operatori che avevano accumulato esperienza nei grandi interventi negli anni precedenti.

 

Tutte le questioni relative alla salute e alla sicurezza venivano portate fuori dalla fabbrica? L’episodio della Cokeria mostra infatti, in maniera evidente, che esse potevano avere ricadute pesanti sulla città.

Rita: Ecco, questo credo fosse il grosso limite del nostro servizio. Le nostre relazioni rimanevano all’interno, tra noi, l’azienda e il CdF. Era un po’ come dire: “Me la canto e me la suono da sola”. C’è una cosa che poi taglia la testa al toro: io ho lavorato per 4 anni con un Consiglio di Fabbrica e altri 31 anni come ispettore e le bonifiche ottenute in quei primi 4 anni sono una montagna se paragonate a quelle irrisorie che, con i famosi verbali, siamo riusciti a imporre nei 30 anni successivi. Questo perché in quei 4 anni avevamo un Consiglio di Fabbrica che ci tutelava e, tutto sommato, anche la controparte non era proprio sorda. C’era un rapporto del tipo: “Dialoghiamo e vediamo cosa si può fare”. Le bonifiche si facevano ed erano bonifiche che costavano miliardi. Questo è quello che siamo riusciti ad ottenere quando noi lavoravamo assieme al sindacato, o meglio quando il sindacato era con noi.

 

Come trattava il CdF la contraddizione fra ambiente e lavoro?

Francesco: La Magona aveva qualche problema con le esalazioni della verniciatura, ma era la Lucchini quella che preoccupava veramente. La questione della cokeria investì appieno il Cotone (il quartiere attaccato alla fabbrica – ndr), non so se grazie al CdF o meno, ma la notizia del rischio oltrepassò i cancelli della fabbrica. La storia finì sui giornali. Uscivano dei dati, a volte anche i nostri dati.  Furono fatte anche un paio di indagini epidemiologiche. E c’era nel quartiere un comitato abbastanza attivo. Tutto questo produsse dei risultati perché alla fine fu progettato un “revamping” (un ammodernamento – ndr) di tutto l’impianto e una parte di esso fu chiusa mentre un’altra parte venne ristrutturata. Questo comportò un certo miglioramento della situazione. C’è da dire che in questa situazione il comitato di quartiere si spendeva molto, mentre i CdF non erano attivi sul fronte dell’inquinamento.

 

Rita: Sì, questo è stato anche un nostro grande limite. Si scriveva tanto, ma non si diffondevano notizie fuori. Invece quando Francesco ha cominciato ad occuparsi solo di malattie professionali, ci sono stati casi in cui alcune nostre pubblicazioni sono finite a Milano, a Torino, in mano a personaggi autorevoli che ci hanno fatto i complimenti per come stendevamo le nostre relazioni. Noi di questa cosa neppure ci rendevamo conto. L’importante era che si procedesse con le bonifiche. Non pensavamo di dover convincere nessuno perché davamo per scontato che il mondo girasse come pensavamo noi. Quando entrammo alla Magona ci rendemmo conto subito, al primo sopralluogo alle acciaierie, che la situazione non era proprio così. Nel nostro primo intervento alle acciaierie la gente scappava. Ed eravamo solo nell’82. Questo indicava che c’era qualcosa che non funzionava, perché quando un operaio, a cui ti avvicini per fargli una domanda, si gira e se ne va, allora vuol dire che qualcosa non va come dovrebbe.

Alla Lucchini poi era tutt’altra cosa perché l’acciaieria era davvero grossa, ragazzi. Vi lavoravano 14mila operai tra personale addetto o in appalto. Non era mica un giocattolino da bimbi. Mi ricorderò sempre quando una mattina alla fine dei 4 anni… ero sempre entrata tranquillamente nella Magona, era come la mia casa ormai… feci per entrare e mi dissero “scusi lei dove va? Non può passare” e arrivò giù uno della direzione: “Dottoressa mi dispiace non può entrare. L’articolo 9 si è concluso, arrivederci e grazie”. Da quel giorno io lì non ho più messo piede.

 

Francesco: hanno interpretato a modo loro le cose perché la legittimità dell’art. 9 non derivava dall’accordo della durata di 4 anni stipulato con l’azienda. L’art. 9 era legittimo a norma di legge. Da una parte c’erano quindi i poteri ispettivi, dall’altra questo accordo a tre concluso tra Consorzio, azienda e noi. Hanno scelto l’interpretazione che gli ritornava più comoda.

D’altra parte in effetti noi avevamo qualche problema a far convivere, in quella fase di passaggio, il nostro ruolo di agenti di polizia giudiziaria con quella di tecnici di parte quali ci sentivamo. Era difficile un equilibrio tra le due cose. E su questo la controparte poteva giocare.  La questione, in parole povere, è che nella fase di riflusso dei lavoratori, si è spostato intenzionalmente sul piano istituzionale il controllo della nocività in fabbrica, dotando l’azienda di una sua autonomia nella valutazione del rischio. L’azienda è responsabile del rischio, quindi fa le sue valutazioni, i suoi studi, ecc., e poi decide cosa deve o non deve essere fatto. In pratica se la canta e se la suona da sola.

 

Avete avuto problemi anche con l’amianto?

Francesco: l’amianto è un problema che ci ha accompagnato quasi sempre. In Magona ci sono stati interventi importanti legati all’amianto. Venne fatto il rifacimento delle campane dei forni alte 10 metri. Erano rivestiti dentro con mattoni refrattari e tra mattone e metallo c’era l’amianto. La squadra di operai che ogni giorno si occupava di rifare questi rivestimenti, spicconava amianto sollevando un polverone. Questo fu il nostro primo intervento in materia.

Il problema dell’acciaio al piombo ci si è presentato invece sia alla Magona che in Cokeria alla Lucchini. L’acciaio al piombo qui lo hanno colato sotto aspirazione ma solo perché c’era ancora un minimo di movimento sindacale, anche se non era più al livello di qualche anno prima…. d’altra parte le cose non finiscono mai da un giorno ad un altro.

Fummo noi a prescrivere di colarlo sotto aspirazione e passammo per pazzi. Era infatti una tecnica che non veniva utilizzata in nessun’altra parte del mondo. L’azienda sarebbe stata obbligata a fare le cose a regola d’arte ovvero ad adottare metodologie già accreditate in altre nazioni. Ma in questo caso non c’era davvero niente di accreditato.

 

Rita: Io in dieci anni ho gestito più di 1.000 operai, seguivo il colaggio, la siviera, il colaggio in lingottiera, lo strippaggio, il raffreddamento e poi tutta la fase della laminazione. Studiammo tutto il ciclo produttivo conducendo indagini ambientali, prescrivendo esami ematici, ecc., per vedere dove bisognava intervenire. E alla fine di tutto questo abbiamo fatto mettere appunto il tunnel di aspirazione in acciaieria. Quello è stato il provvedimento più importante adottato. Si trattò di un intervento tecnologicamente complesso, che fu realizzato solo grazie al fatto che ci furono degli scioperi.

 

I CdF si occupavano dei giovani, degli studenti, del resto della città?

Rita: No, per nulla. Il CdF in Magona non si occupava di niente che fosse fuori della fabbrica. Come se la fabbrica non si trovasse in una città, una città in cui peraltro vivevano le famiglie degli operai. La storia del sindacato delle grandi aziende di Piombino è la storia di un sindacato piuttosto chiuso dentro la fabbrica e devo dire che nelle acciaierie dal punto di vista ambientale il CdF non ha fatto niente.

 

A conclusione…

Francesco: Io ho visto molto chiaramente la mutazione dei rapporti di forza in tutta questa storia. Perché entrando in fabbrica quasi tutti i giorni il cambiamento lo percepisci, lo vivi. Se il lavoratore non ha più neppure la forza di protestare quando qualcosa non va, tutto cambia di conseguenza. È legato a questo anche il cambiamento del potere ispettivo che è divenuto rapidamente sempre più un esercizio burocratico. Tutto si sposta su un altro terreno, sul terreno delle procedure legali e amministrative con tutte le farraginosità del caso. Terreno su cui le aziende, soprattutto quelle grandi, sono sempre più forti di te. Perché tu ti ritrovi completamente solo, perché l’USL non ti sostiene. E queste aziende hanno fior fior di studi legali. Insomma, sanno come metterti i bastoni tra le ruote. Il succo del discorso è che il potere operaio fa la fabbrica. Poi non c’è cowboy che regga.

 

 

 

Iscriviti alla newsletter

Abilita JavaScript nel browser per completare questo modulo.

I più letti

Articoli simili
Correlati

La lotta per la formazione

La formazione è un pilastro dell’attività del P.Carc. Si...

4 novembre in piazza: appello del Calp di Genova

Unire le lotte e le mobilitazioni contro la guerra...

Quando i sionisti attaccano hanno paura della verità

Liliana Segre e la denuncia all'attivista Cecilia Parodi

Manuale di Storia contemporanea

La conoscenza della storia è uno strumento della lotta...