Intervista a Renzo Meini sul CdF della Piaggio di Pontedera (PI)

Quando hai iniziato a lavorare in Piaggio? In che reparto e con quali mansioni? Eri iscritto a qualche sindacato o partito?

Prima di entrare alla Piaggio (era all’incirca il 1971) ho lavorato in una fabbrica di mobili a Ponsacco (un paese vicino a Pontedera con molti piccoli mobilifici – ndr); non si trattava di una fabbrica grande, ma c’era un CdF  – allora i CdF erano presenti anche nelle piccole realtà –  per cui ne avevo già fatto esperienza.

Nel 1979 vengo assunto alla Piaggio, assegnato al reparto Presse e dopo 2 o 3 anni sono eletto rappresentante sindacale FIOM (la Federazione Lavoratori Metalmeccanici-FLM scompare proprio in quel periodo e il sindacato maggiormente presente in zona era la CGIL). Dopo un anno e mezzo inizia la politica della cassa integrazione e dei licenziamenti. Nel 1984, su 12.000 operai, 3.150 vengono messi in cassa integrazione.

 

Quindi hanno messo in CIG 1 operaio su 4. La crisi iniziava a mordere già allora ….

Si trattava di un altro tipo di crisi, sono vicende che andrebbero lette in relazione al tipo di azienda. Riflettendoci a posteriori, è chiaro che l’assunzione di tante persone era funzionale a determinare meccanismi di espulsione, a disporre di una massa di manovra da utilizzare come arma di ricatto sulla politica e sul territorio. Il Consiglio di Fabbrica non venne rieletto per 7-8 anni, di fatto era bloccato. Io ne facevo parte, ma in generale allora avevamo poca voce in capitolo. Io che ero delegato venni spostato subito in 2R (uno dei reparti più grandi –  ndr), poi cominciarono a farmi fare lo stagionale nelle 2R e poi sulle 3 ruote d’inverno. Mi sballottavano di qua e di là. In 2R stavano sperimentando sulla catena di montaggio la produzione di ciclomotori di tre tipi diversi, la catena doveva produrre 50 veicoli all’ora e io misi in atto una protesta che di fatto bloccò la produzione. Dopo 15 giorni come rappresaglia mi spostarono e mi mandarono alla Meccanica senza che nessuno aprisse bocca, allora potevano permettersi ogni cosa…

 

Come funzionava il CdF? Di cosa si occupava, che ruolo aveva?

Dietro al CdF c’erano sempre le organizzazioni sindacali, io ero l’unico nel CdF che era sempre all’opposizione. In quel periodo ero interno a Democrazia Proletaria e mi mantenevo costantemente in contatto con i cassaintegrati che in quel periodo erano 500. Il CdF si occupava delle cose correnti, attività sindacali e questioni interne alla fabbrica, a livello nazionale e provinciale, proprio come funziona adesso.

A fine anni ‘80 la CIG venne eliminata, alcuni operai entrarono in aziende create ad hoc a Pisa e nei paesi limitrofi mentre i reintegri in Piaggio furono più o meno 500. Da questo momento in poi il CdF della Piaggio è praticamente manovrato dal sindacato.

Il PCI inizialmente era forte, strutturato bene, poi le cose sono cambiate negli anni ‘80. Anche l’FLM, se ci si riflette bene, è cambiata allora. È questo cambio di passo politico che ha portato all’esaurimento dell’esperienza dei CdF.

Le cose sono poi mutate nuovamente negli anni ‘90 quando Giovannino Agnelli venne a Pontedera e cercò di fare della Piaggio un’azienda diversa, proiettata sul piano internazionale, del tipo di quelle che oggi hanno succursali sparse in tutto il mondo. Furono assunti operai giovani e da lì abbiamo ripreso a organizzarci. Nel 1992 è entrato in Piaggio anche Massimo Cappellini (storico delegato FIOM recentemente sospeso dalla CGIL – ndr) e abbiamo ricostruito un gruppo di lavoratori combattivi… facevamo politica, abbiamo portato avanti un’importante lotta sull’accordo del ‘94 o 95 che voleva introdurre in Piaggio il toyotismo. L’azienda in quegli anni veniva lanciata a livello internazionale con la joint venture in Cina; veniva aperto uno stabilimento in India, diventava una multinazionale a tutti gli effetti. L’accordo del ‘94 o 95 comportava il peggioramento delle condizioni di lavoro, l’applicazione del famoso TMC2 (una tempistica di lavoro estremamente logorante adottata dapprima in FIAT, a partire da Melfi e Pratola Serra, e poi in molti altri stabilimenti non solo del gruppo Agnelli-Elkann – ndr), noi ci opponemmo ad esso, ma perdemmo il referendum per una manciata di voti, 46 voti contro 54…

Nel CdF io avevo sempre l’appoggio di questo gruppo di lavoratori combattivi.

Il toyotismo a fine anni ‘90 fallì, perché alla morte di Giovannino Agnelli la direzione della Piaggio passò a sua madre che nel giro di poco tempo vendette l’azienda a un fondo canadese per far fronte, così si vociferava, a un debito di 5 o 600 milioni di vecchie lire. La joint venture cinese li portò al tracollo finanziario e le banche creditrici hanno avuto la meglio, non so poi quanto hanno recuperato… Non conosco tutta la vicenda, ma ho voluto accennarvela per farvi comprendere meglio cosa accadeva in fabbrica e da cosa avevano origine le battaglie che portavamo avanti.

 

Il CdF della Piaggio, a differenza di altri, era quindi più concentrato su quello che accadeva in fabbrica? Si occupava meno della lotta per cambiare il paese ed era più simile a un’organizzazione sindacale: è così?

Sì, è così. Io ero anche in Democrazia Proletaria (DP) ed è in quell’ambito che ho preso parte alle lotte politiche. Dopo DP, sia con Rifondazione ma anche fuori da Rifondazione ho portato avanti battaglie politiche non indifferenti. In Piaggio la “triplice” sindacale ha sempre appoggiato la direzione, era filopadronale.

 

C’era quindi uno scontro interno al CdF? C’era il CdF organizzato come hai detto e una minoranza che ti seguiva?

Io facevo le mie battaglie dentro la fabbrica, ma anche fuori. Con me, forse perché alzavo un po’ il livello della discussione, durante il Consiglio di Fabbrica ci sono stati scontri anche forti, l’ultimo che ricordo fu per le ferie… Una settimana prima delle ferie già decise, la Piaggio infatti, per continuare le vendite e la produzione, decise di posticiparle di una settimana ma gli operai avevano già prenotato per le vacanze! Ci fu uno scontro verbale in assemblea col segretario della UILM: gli operai erano talmente incazzati che cominciarono a sputargli in faccia… cose che capitano!

 

Quali sono stati, secondo te, i motivi che hanno portato all’esaurimento di questa esperienza?

Dietro l’esaurimento c’è stata la subalternità del sindacato ai partiti a cui i CdF facevano riferimento. Oggi magari i sindacati subiscono meno l’influenza dei partiti, ma non si salvano dall’influenza del “sistema”, da questo non si scappa!

La CISL quando c’era l’FLM aveva un gruppo che era di DP, a Milano, non ricordo i nomi ma era un gruppo abbastanza grosso; anche qui c’erano dei compagni di Democrazia Proletaria dentro la CISL, poi però li hanno relegati in un angolo e ha prevalso il meccanismo della subalternità come nella UIL. 

 

Che  rapporti c’erano tra il CdF e il PCI?

I compagni del PCI che lavoravano in fabbrica erano affidabili fino agli anni ‘80, poi è cambiato tutto perché la maggior parte di quelli più attivi sono stati cacciati. Io non ho subito la stessa sorte perché ero ancora in “rodaggio” e mi conoscevano poco!

 

Secondo te oggi è necessario far rinascere organismi come i CdF imparando anche dagli errori commessi?

La lotta di classe esiste ancora nonostante in tanti si affannino a dire che non c’è più. Essa vive nel rapporto che oppone l’operaio al padrone. È il padrone che oggi ancora decide se tu puoi lavorare o meno, quanto devi lavorare e cosa devi fare…  È evidente che ci sarebbe bisogno di una struttura come il CdF per riprendere un certo tipo di battaglie e di lotte, per recuperare terreno… Però penso che il problema sia politico: la classe operaia deve riorganizzarsi politicamente altrimenti non andrà da nessuna parte.

 

Stai dicendo che ci vorrebbe un nuovo partito comunista?

Sì, questo è il punto. Oggi il sistema è in crisi e non si vede via d’uscita. In questa crisi, pur di salvaguardare i profitti dei padroni, si aggraveranno ancor più le condizioni dei lavoratori, su questo non ci sono dubbi. Perciò dico che la classe operaia deve riorganizzarsi: non bastano le battaglie interne alle fabbriche, occorre riorganizzarsi politicamente anche fuori e dire che questo sistema non ha futuro! Non è solo abbassando il costo del lavoro che i padroni fanno profitti, le condizioni sono mutate e i danni prodotti dallo sfruttamento vanno ben oltre: l’aver globalizzato la produzione ha avuto ad esempio un impatto enorme sull’ambiente. Per capirci, ad aprile ho sentito che al Polo nord è stata registrata una temperatura di 20 gradi e questo è sicuramente un segnale importante che deve indurci a cambiare il modello di sviluppo. L’unico cambiamento possibile è quello della socializzazione dei mezzi di produzione… anche se qualcuno ritiene che sia una pia illusione.

 

Siamo d’accordo, è necessario instaurare il socialismo, la crisi ambientale come quella sanitaria lo confermano anche praticamente… Abbiamo visto un tuo collega che dopo 42 anni di lavoro è ancora lì e tutto questo per fare dei prodotti che magari rimangono ammassati in qualche angolo mentre intanto scoppia il Covid-19 e ci ritroviamo con una sola azienda che in Italia produce ventilatori polmonari!

Oggi abbiamo una sanità pubblica che è quella che è, perché smantellata negli anni. Guarda invece a cosa succede in una piccola nazione come Cuba dove, nonostante 12 milioni di abitanti e un forte turismo, si sono registrati solo 1000 contagi: questo perché la sanità territoriale a Cuba funziona e non ha, come accade da noi, come suo obiettivo il business, il profitto. A Cuba esistono i distretti, gli ospedali sono diffusi e si fa prevenzione. La sanità a cosa serve? In Italia sicuramente per fare soldi. Per capirlo basta guardare a quei due della Lombardia (il governatore Fontana e l’assessore al welfare Gallera – ndr) che hanno sempre presentato la sanità lombarda come un’eccellenza in grado di attirare 200 mila persone all’anno dall’estero… scoppiata l’emergenza Covid-19 però abbiamo visto cosa è successo!

 

In tante fabbriche c’era un giornalino interno, uno strumento di organizzazione e formazione importante … alla Piaggio c’era il “Piaggista”: chi lo curava, chi vi scriveva, chi lo diffondeva?

Il Piaggista era praticamente il giornalino del PCI e qui a Pontedera c’erano diversi compagni che vi lavoravano, tra cui i fratelli Scali. Lavoravano al “Piaggista” anche operai della fabbrica che hanno fatto lo “sci operone” (sciopero storico del 1962 che durò 75 giorni consecutivi – ndr). La redazione si trovava nel palazzo lì davanti, dove a quei tempi c’era un circolo ARCI che era anche la sede del PCI di Pontedera. Era il circolo ARCI del Tellino, in via Dante, dietro la stazione.

Hanno smesso di pubblicare il giornalino negli anni ‘80 perché con la CIG l’organizzazione dei suoi lavori venne meno e perché anche il PCI non era più quello di un tempo.

 

Non pensi che oggi occorrono nuovi CdF, organizzazioni formate da operai indipendentemente dalla sigla sindacale?

La vedo difficile… Se si guarda alla situazione attuale, non si può fare a meno di constatare che c’è stato un massacro culturale e politico della classe operaia. Gli operai non si rendono conto bene della situazione in cui versano e vivono, i giovani specialmente, alla giornata… lavorano, riscuotono, vanno a casa, si divertono… l’impegno politico c’è sempre meno, ma io non me la prendo con loro. Come far ripartire la mobilitazione? In tutti i modi possibili e immaginabili, ma essenzialmente penso che occorra prendere di petto la questione di fondo, occorre partire dall’intossicazione culturale e politica che produce nei fatti una conoscenza distorta della realtà…

 

Quindi bisogna studiare?

Bisogna studiare e fare controinformazione perché la realtà delle cose pare che sfugga. Quello che succede oggi in Italia (ma non solo qui), le conseguenze della globalizzazione, quello che avverrà tra non molto, gli scenari che si aprono se si afferma la destra o se, al contrario, non si afferma… Certe persone sono convinte di stare ancora bene, tutto sommato. Ma non è così, dobbiamo studiare e organizzarci, è importante essere al corrente di tutto ciò che avviene intorno a noi e nel mondo. Ad esempio, in Italia, le fabbriche siderurgiche sono tutte in mano agli indiani che hanno il monopolio del settore perché le condizioni di lavoro in India permettono loro di fare cose che in occidente non potrebbero fare e gli stipendi sono a un altro livello… Le condizioni ambientali in India sono tra le peggiori nel mondo, questo significa che non si usano strumenti di sicurezza e ciò permette di produrre l’acciaio a costi bassissimi. Vengono qui per accaparrarsi il mercato…. È logica la cosa. La soluzione al problema sta nella nazionalizzazione delle fabbriche, nazionalizzazione che però non deve essere quella dei tempi della DC quando era un carrozzone: le cose devono funzionare veramente!

 

 

 

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