Vi presentate brevemente? Per quanti anni avete lavorato alla Carbosulcis e con quali mansioni?
Luigi: io ho sessant’anni e ho cominciato a lavorare che ne avevo 23. A 22 anni ero già in miniera a fare il corso di formazione. Ho lavorato alla Carbosulcis per 32 anni, sempre sottoterra, dal 1983 al 2015, con la mansione di armatore, cioè preparavo le gallerie. Il “minatore” è chi fa i buchi e ci mette l’esplosivo per fare gli scavi. Alla Carbosulcis però lo scavo avveniva con mezzi meccanici.
Gino: ho 68 anni, ho iniziato a lavorare alla Carbosulcis nell’86 e ci sono rimasto per 17 anni. Nel 2002 sono andato in mobilità.
Francesco: ho 62 anni e sono entrato alla Carbosulcis nell’85. Sono andato in pensione nel 2013. Dal 1985 al 1994 ho avuto la fortuna di stare nel gruppo scavo, poi dal ‘94 ho avuto incarichi esterni. Ho smesso di lavorare prima che iniziasse la nuova fase estrattiva della Carbosulcis, quando l’azienda provò a ricostruire la miniera con due tagli sperimentali utilizzando attrezzature che in Sardegna non erano mai state usate (la produzione prima non era così meccanizzata), avvalendosi della consulenza di società minerarie estere, soprattutto francesi all’inizio.
Ci descrivete le condizioni di lavoro? In quanti operai eravate e cosa producevate? (*)
La Carbosulcis nasce dalla lotta condotta contro la chiusura del grosso giacimento di carbone del Sulcis. Negli anni ‘60 Carbosarda (si tratta della Società Mineraria Carbonifera Sarda, una società a partecipazione statale che aveva in gestione le miniere di carbone del Sulcis-Iglesiente – ndr) stava chiudendo le miniere perché, dopo il balzo in avanti del dopoguerra, il settore era entrato in crisi. Dal punto di vista energetico l’Italia dipendeva dal carbone prodotto dal giacimento del Sulcis-Iglesiente. A quei tempi, la produzione di energia elettrica avveniva in due modi, con l’idroelettrico e con il carbone, e il carbone proveniva essenzialmente da qui. Iniziò quindi la battaglia per la nazionalizzazione delle miniere. Lo Stato fu costretto a intervenire e la gestione passò a ENEL. Fu un grande risultato, anche se ENEL provò fin da subito a dividere e reprimere i lavoratori… potremmo raccontare per un giorno intero delle misure con cui ha tentato di farlo. ENEL ha gestito le miniere per 6-7 anni, dopodiché ha iniziato a incendiarle, soprattutto quelle nuove che avrebbero dovuto utilizzare i giacimenti non ancora sfruttati sotto il fascismo. Una era quella di Cortoghiana Nuova, la incendiarono e da lì cominciò la crisi del carbone. Fu una mossa per ottenere dal governo importanti incentivi (la stessa cosa si è poi riproposta nell’ultima fase della Carbosulcis). Ottenuti gli incentivi, ENEL ha proceduto all’assunzione dei figli di qualche lavoratore nelle centrali elettriche in Sardegna e in Italia, dopodiché ha chiuso. Qualcuno però si arrabbia per questo fatto, capisce che era una grossa trappola e il PCI, che aveva favorito (anche se non con molta convinzione) l’ingresso dell’ENEL, attiva alcune persone per fare ripartire la lotta. Siamo all’inizio degli anni ‘70.
La lotta iniziò con un presidio permanente al bivio della miniera Seruci, quella dove in seguito abbiamo lavorato sia io (parla Francesco) che Gino. Fu allestito un presidio e furono piazzate delle tende. Accorsero giovani da tutto il territorio. Il documentario “Troppo di niente” girato da Ivo Barnabò Micheli è una testimonianza di questa lotta e di quelle delle altre miniere.
Dal ‘74 la Regione sarda, attraverso l’Ente minerario sardo e altre società, rileva dall’ENEL la gestione delle miniere dando vita alla Carbosulcis. Nel ‘74 si passa da 100-120 operai a 500, ma nell’83 le assunzioni vengono nuovamente bloccate. Il blocco delle assunzioni, dopo anni di lotta per i posti di lavoro, è stata la goccia che ha fatto nuovamente traboccare il vaso e che ha portato a un’occupazione che riscosse grande consenso anche tra la popolazione. Su spinta del PCI (a Carbonia era il primo partito, con il 90% dei voti, per cui si può tranquillamente affermare che se qua hanno sbagliato qualcosa, sicuramente non sono stati democristiani) si arrivò nell’84, dopo 10 anni di lotta, alla proposta di legge n. 351 (approvata nel giugno 1985) sulla riattivazione del bacino carbonifero del Sulcis, un progetto da 505 miliardi di lire che rimette insieme ENEL, ENI, ENEA e una serie di altri soggetti. Come da progetto di legge, ripartono i corsi per arrivare al numero di 1.000 dipendenti necessari a garantire un determinato livello di produzione. La miniera viene affidata a ENI che aveva grosse competenze in materia, era la capofila di AGIP, l’azienda che gestiva il petrolio, quella di Enrico Mattei. AGIP carbone aveva miniere di carbone in tutto il mondo e noi siamo stati un centro di sperimentazione in Italia dal punto di vista industriale per l’estrazione del carbone.
Nel ‘93 ENEL inizia ad uscire dall’impresa. Il 28 giugno del ‘93 si tiene una riunione del Consiglio di Fabbrica in cui ci viene detto che va tutto bene e che sono previste 2.500 assunzioni… ricordo ancora i disegni alla lavagna con cui ci spiegavano gli obiettivi da raggiungere. Poi, invece, il 3 luglio ci chiamano e ci comunicano che ci mettono in Cassa Integrazione. Eravamo 1.076 dipendenti. Ovviamente partì l’occupazione. Da quel momento è iniziata la lenta agonia della Carbosulcis.
Quindi, riassumendo?
Ci furono tre occupazioni importanti: quella del ‘74 per il riavvio della miniera, quella dell’84 per una legge (poi ottenuta) che permettesse l’utilizzo del carbone del Sulcis e infine quella del ‘94 per il rispetto di quella stessa legge di cui però ENEL (nel frattempo uscita dall’impresa) non aveva tenuto assolutamente conto, tanto che il gassificatore che, da progetto, doveva essere costruito a Portoscuso, fu invece costruito a Puertollano in Spagna. Per capire le intenzioni di un’azienda, basta vedere dove investe e dove invece non lo fa. Il progetto elaborato in origine per il Sulcis finì per essere applicato a mille miglia di distanza per utilizzare un carbone che aveva le stesse caratteristiche del nostro. A giustificazione di questa scelta aziendale dissero che il nostro carbone non poteva essere utilizzato in centrali convenzionali perché “era un carbone sporco, ricco di zolfo e con un potere calorifico molto basso”.
Le tre occupazioni ebbero dinamiche diverse e furono dirette da organismi di rappresentanza diversi. Nel ‘74 esisteva una Commissione Interna, con i rappresentanti sindacali nominati dal sindacato (in modo particolare dalla CGIL, il sindacato maggioritario). Nell’84 c’era un CdF che era di fatto rappresentativo, nonostante il tentativo di pilotarlo dall’esterno: “le centrali”, cioè i tre sindacati, controllavano il CdF in vario modo, ma nonostante questo il CdF subiva la spinta dei lavoratori, tanto più dal momento che allora vi era un gruppo di lavoratori particolarmente combattivo. Nell’86 viene eletto (con un vero e proprio plebiscito per la CGIL) un Consiglio di Fabbrica con 36 delegati (in media un delegato ogni venticinque operai) in rappresentanza sia delle officine meccaniche ed elettriche, il comparto interno più corposo con 550 lavoratori, sia del comparto esterno che comprendeva invece la laveria, l’impianto di trattamento e gli uffici che vedevano impiegati 150 operai, per un totale complessivo di 700 lavoratori.
Come funzionava il Consiglio di Fabbrica? Si tenevano assemblee regolari con i lavoratori?
Il CdF era una sorta di “parlamentino”. L’esecutivo era composto da 4 delegati della CGIL, 2 della CISL e 2 della UIL e si riuniva regolarmente per affrontare tutta una serie di problematiche, ad esempio per vigilare sul progetto per cui avevamo lottato tra l’84 e l’85. Se un delegato poneva un problema, ci si riuniva con il reparto per affrontarlo. Gli altri CdF della zona erano legati fortemente all’azienda, ma c’erano poi anche i “rivoluzionari più rivoluzionari” di noi, per esempio alla Euroallumina dove tutti i compagni erano molto vicini al Partito Comunista marxista-leninista. Con loro tenevamo i rapporti grazie ad Antonello Vino, un collega che chiamavamo “Molotov”.
L’Eurallumina era completamente in mano al CdF. Una delle prime cose che fece, riprendendo l’esperienza del nostro CdF, fu una cooperativa grossa che rimane ancora, l’Euroalcoop che c’è a Carbonia, ora è un Conad però fu un progetto che misero in piedi i lavoratori. In Eurallumina erano riusciti a imporre dei rapporti di forza tali che decidevano di fatto i lavoratori cosa bisognava fare. Addirittura costrinsero la proprietà a mettere a disposizione i locali e un po’ di risorse per la cooperativa. Alla cooperativa potevi acquistare di tutto, alcuni si son fatti la casa comprando lì i mobili. Era una cosa rivoluzionaria che un CdF si occupasse della distribuzione a prezzi popolari dei beni di consumo. I lavoratori in Euroallumina erano fortemente politicizzati e l’azienda era diretta in pratica dal CdF. Le altre aziende, compresa la nostra, risentivano di più della gestione padronale anche perché il padrone ti infilava nel CdF tre o quattro dei suoi che magari sapevano parlare o avevano la macchina da scrivere (il nostro tasso di alfabetizzazione allora era molto basso e lo è a tutt’oggi) e che, con la scusa che sapevano leggere e scrivere, redigevano i verbali del CdF come pareva a loro. Solo che una volta scritto raramente si tornava indietro.
Che rapporti avevate con gli altri CdF del territorio?
Non riuscivamo a coordinarci. Ognuno preferiva guardare al proprio orticello ed è sempre stato difficile fare cose insieme. Noi però ci confrontavamo con quelli con cui avevamo maggiori affinità perché abbiamo sempre avuto la tensione ad aprirci. Ricordo che negli anni 1987-88, quando gli incendi erano arrivati a lambire le miniere, si tenne una riunione di coordinamento nella miniera di monte Sinni, dove c’era la direzione centrale dell’ENI. Qui, a differenza della Carbosulcis, l’ENI era riuscita a controllare maggiormente il CdF. Abbiamo avuto sempre difficoltà a collaborare per il fatto che ognuno guardava prima di tutto alla salvezza della propria azienda. E il risultato di questo fu che loro chiusero nel ‘91 e noi nel ‘93.
Facevate formazione politica?
Sì, di formazione, soprattutto politica, ne abbiamo fatta tantissima. La formazione politica all’epoca la facevano tutti, i partiti, i collettivi e sicuramente questa cosa ha lasciato il segno. Tutte le avanguardie comuniste presenti nei CdF la facevano, compresi noi. Questo ti portava a discutere e a confrontarti. La coscienza della classe operaia si eleva anche attraverso la formazione.
Raccontateci com’è andata la lotta del ’93-‘94. Che ruolo ha avuto il CdF?
Parliamo della battaglia contro la chiusura della Carbosulcis che il CdF dirigeva. Non so dirti quanti viaggi a Roma abbiamo fatto, siamo stati anche a Pontida per parlare con la Lega, perché per noi era importante mantenere i posti di lavoro, volevamo che il carbone bruciasse e producesse energia come da progetto, quel progetto che con oltre 50 giorni di occupazione avevamo ottenuto dieci anni prima. A Pontida siamo riusciti a parlare con il ministro Gnutti in un bar. Accanto a lui sedeva un’altra persona e quando abbiamo chiesto chi fosse si sono stupiti tantissimo che non avessimo riconosciuto il ministro Pagliarini. Ma chi lo conosceva? Gnutti per risolvere la questione Carbosulcis propose una fabbrica di stuzzicadenti…potete immaginare la risposta che gli abbiamo dato!
Poi toccò a Berlusconi scendere in piazza a parlare con i lavoratori per dire “ci penso io”. Siamo stati tante volte a Roma, abbiamo fatto mille incontri e molti lavoratori hanno partecipato alle lotte, ma il CdF non era unito sulla questione, qualcuno voleva che quel progetto andasse avanti e qualcuno pensava solo a ss stesso. Ci fu comunque una lotta accanita per salvare tutti i posti di lavoro e per proseguire con quel progetto per cui tanto avevamo lottato. Siamo stati in tutte le trasmissioni televisive possibili e immaginabili, da Don Mazzi, a Maurizio Costanzo, Domenica in e Italia in diretta. Tutto sommato, con quella lotta, la legge per l’attivazione del bacino carbonifero siamo riusciti a ottenerla e se dal ‘94 ad oggi possiamo ancora parlare di Carbosulcis è grazie a quella mobilitazione, anche se ci hanno fregato in tutte le maniere: il personale lavorativo infatti ha subito forti riduzioni tra CIG, prepensionamenti e altre misure messe in campo per dividere il fronte operaio e disgregarlo.
Vi racconto un episodio che fa comprendere bene cosa c’era dietro Carbosulcis e lo scontro che il CdF si trovò ad affrontare senza averlo nemmeno compreso del tutto. Nel ‘92 parte Tangentopoli e i primi arresti guarda caso avvengono proprio qui. Le aziende coinvolte, come la CMC di Ravenna (che oggi è implicata nella costruzione del TAV Torino Lione) e altre, avevano in questo territorio le loro sedi più importanti. La spartizione delle tangenti avveniva quindi qui. Questa cosa si è ripercossa in maniera pesante anche sui CdF perché molti di loro vennero letteralmente comprati a suon di mazzette. Nella Carbosulcis l’interramento abusivo di alcuni fusti fu con ogni probabilità commissionato con una grossa tangente. In alcuni parti chiuse della miniera furono interrati fusti di materiale tossico e altamente inquinante che andavano smaltiti in altro modo, con procedure specifiche e molto costose. Le mazzette fecero sì che le vecchie miniere servissero da deposito di questo materiale come è stato documentato anche attraverso fotografie. Dal giro di tangenti si tennero fuori, oltre noi, solo pochi altri compagni.
Il sistema su cui si è basata Tangentopoli in questa zona era semplice ed era regolato da accordi ben precisi. Funzionava così: uno prendeva il 50%, un altro il 30% e un altro ancora il 20% di tutto (la spartizione era tra PCI, DC, PSI). Si veniva ricompensati con soldi contanti o con beni di altra natura. Quello di Tangentopoli era un sistema consolidato che vige ancora, il nome che porta può cambiare, ma i centri di potere che vi stanno dietro sono sempre gli stessi. Chi ha provato ad opporvisi veniva eliminato fisicamente. Francesco era l’unico dei delegati nell’esecutivo del CdF contrario a questo sistema e questa è stata la sua rovina. Quando Francesco passava, gli amici di queste persone gli sputavano addosso. Il reparto del taglio in quel periodo raggruppava operai combattivi che intervenivano sulle decisioni del CdF e tutti i compagni della lavorazione mineraria, tra cui Gino, per fortuna proteggevano Francesco, sia in miniera che fuori. Francesco viaggiava scortato dagli operai del taglio.
Il CdF allora si chiamava Consiglio dei Delegati (che era una cosa un po’ diversa dal CdF propriamente detto) e la CGIL, in quel periodo fortemente revisionista, era a favore delle Commissioni Interne (CI) perché esse erano emanazione diretta dell’organizzazione sindacale (a quel tempo c’era solo la CGIL in cui confluivano tutte le anime del mondo del lavoro). Il Consiglio dei Delegati rappresentava una mediazione tra i CdF e le CI, e garantiva al sindacato una quota protetta all’interno dell’organismo, cosa che nel CdF non esisteva. Negli anni ‘70-‘80 la CGIL era un sindacato serio e combattivo anche perché qui il ‘69 è arrivato con 10 anni di ritardo e inoltre il PCI era molto forte (in un comune qui vicino il PCI arrivava a prendere 1.250 voti su 1.500 totali, al punto che non esisteva scontro tra DC e PCI, ma bisticciavano tra comunisti stessi).
Fatta questa precisazione necessaria, passiamo ora a parlare della lotta.
La nostra forza era che rispetto agli altri riuscivamo ad uscire fuori dalla miniera, a tenerci in contatto con la popolazione. Ogni qualvolta c’era qualcosa che non andava, bastava dire “usciamo fuori e facciamo sciopero”. Questo per un certo periodo ci ha fatto guadagnare le simpatie dell’opinione pubblica. Eravamo un punto di riferimento sul territorio. Ed eravamo radicati. In ogni paese c’era sempre qualche lavoratore, anche democristiano o socialista, che ci esprimeva solidarietà. Conoscevamo a menadito il contesto locale.
Con il CdF le persone parlavano di problemi rispetto a cui il sindacato non dava risposte o mediava al ribasso. Anche perché il sindacato qua era comunque una creatura di ENI, che fino alla fine degli anni ’90, pur essendo fuori da Carbosulcis, gestiva una grossa fabbrica che fondeva il piombo e lo zinco e che ENI “aveva spartito” politicamente con le organizzazioni sindacali e i partiti. Gli accordi fatti consentivano a ENI di mantenere il suo potere sui sindacati non solo in miniera, ma anche fuori.
Abbiamo portato avanti l’occupazione più lunga per noi minatori: 100 giorni di occupazione, sia nel sottosuolo (fino a 200 metri sotto terra) che fuori, giorno e notte. La popolazione era con noi, arrivavano dal Campidano per portarci da mangiare e sfamare più di cento occupanti non era certo semplice. Uno dei modi che la direzione mise in campo per fiaccarci fu infatti proprio quello di rendere difficili gli approvvigionamenti (chiusero anche lo spaccio della miniera), proprio come avviene durante un assedio. C’è un film del regista Segre, “Dinamite”, del 1994, che è stato per parecchio tempo il manifesto della nostra lotta.
Sul finire degli anni ‘80 promuovemmo una marcia per il lavoro che, partita dall’Ogliastra, attraversò tutti i paesi della Sardegna con l’obiettivo di far conoscere i problemi del Sulcis. Fu un’iniziativa che raccolse un ampio consenso e ha fatto sì che la lotta del ‘94 sia ricordata ancora oggi (aveva le radici ben piantate nella solidarietà che avevamo raccolto). Nel giugno ‘94 Berlusconi vinse le elezioni, seminando sgomento su tutto il nostro territorio, storicamente di sinistra e che non lo votò. Il consenso alla nostra lotta, paradossalmente, si accrebbe favorito proprio da questo fattore. Il 6 giugno 1994 e il 24-25 giugno dello stesso anno fu firmata la legge che prorogava la 351 e che affidava a una gara nazionale tutto quel popò di roba che poi siamo riusciti, purtroppo, a disperdere. Infatti dopo la firma del DPR si è aperta comunque una questione sociale perché di 1.100 operai sono rientrati a lavorare meno della metà, mentre gli altri sono stati messi in Cassa Integrazione a rotazione (decisa molte volte dai capo servizi) dal momento che per espletare alcune lavorazioni servivano determinate professionalità. Dal ‘93 al 2001 molti si sono ritrovati dunque a casa, in CIG, a fare la fame assieme alle proprie famiglie. Venivano a bussare per chiedere “ma io quando lavoro?”. Anche noi non lavoravamo. Abbiamo vinto la lotta, ma abbiamo perso posti di lavoro.
Il nostro CdF aveva in quel periodo un potere e una visibilità enorme, rispetto agli altri era politicamente superiore, ma non riuscimmo a dare seguito alla vittoria anche perché il contesto generale vedeva sostanzialmente il movimento operaio scemare sempre di più. Infatti dopo il ‘93, con gli accordi confederali, gli organismi di rappresentanza vengono unificati e si inizia a parlare di rappresentanza sindacale unitaria (RSU). Le RSU furono una bella trovata ma non c’entravano niente con i CdF, questi erano tutt’altra cosa. Il sistema di rappresentanza, ci spiace dirlo, è finito con le RSU nelle mani del padrone.
Francesco, in uno scambio mail mi dicevi che come CdF eravate un punto riferimento importante in Italia, che vi facevano mettere alla testa dei cortei ma anche che “rispetto ad altri per comunicare riuscivamo a non pagare il dazio alle “centrali”… ti riferisci ai sindacati confederali, giusto?
Sì, una volta, nel nostro gergo, li chiamavamo così. Tutti i documenti che i CdF producevano dovevano superare il vaglio delle “centrali”, del trio. Noi abbiamo avuto una grossa fortuna perché io il primo computer me lo sono comprato nel 1987, quando quelli del sindacato usavano ancora la macchina da scrivere. Nel nostro CdF, alla Carbosulcis, avevamo il computer e la documentazione ufficiale veniva quindi prodotta senza dover chiedere all’azienda il permesso di scriverlo: fu una grande conquista.
Prima del ‘94, i partiti politici hanno sempre tentato di governare la situazione. Questi partiti non l’avrebbero mai fatta l’occupazione del ‘94. La lotta del ‘74 fu diretta dal PCI, mentre quella dell’84 li vide partecipi. Quella del ‘94 però la diressero PDS e satelliti. A chi cercava di rappresentare onestamente lavoratrici e lavoratori, i partiti consigliavano sempre di aspettare fuori dal pozzo minerario. Infatti questi personaggi (che volevano mettere il cappello sulle battaglie dei minatori) capivano se un lavoratore aveva intenzioni serie dal fatto che si portasse o meno le vettovaglie quando scendeva in miniera: se era serio se le portava perché sapeva bene che non sarebbe uscito presto dal pozzo. L’occupazione del ‘94 ci vide veramente soli contro il mondo: potevamo contare solo sulla nostra forza di lavoratori. Dal punto di vista politico non c’era un cane che voleva dire di no all’ENI ed eravamo completamente isolati. Quella lotta ci fece però ottenere il riconoscimento della classe lavoratrice italiana: quando ci fu la grande manifestazione indetta dalla CGIL nel 2002, fecero di tutto per non farci prender parte a quella mobilitazione che vide sfilare 2 milioni e mezzo di persone. Nonostante la battaglia fosse finita da anni il gruppo di minatori Carbosulcis aveva infatti acquisito un ruolo politico importante. Se ai cortei partecipavano i minatori, era tutta un’altra storia. Tentarono così di far arrivare la nostra nave in ritardo. Il treno non partì quando doveva partire e quando finalmente arrivammo a Ostiense, non distante dal Circo Massimo, ci fecero fare un lungo percorso per impedirci di raggiungere per tempo il corteo. Arrivammo che il Circo Massimo era quasi pieno. Noi avevamo uno striscione lungo 7-8 metri, fatto con un telo di quelli che si usano per rivestire i pannelli coibentanti, con la lana di roccia, perché volevamo fare le cose in grande. C’era scritto “Berlusconi son dolori, son tornati i minatori”. Occupava tutto il corso di Roma e via Ostiense. Il corteo si apriva al nostro passaggio e così arrivammo quasi sotto la torretta del Circo Massimo. Gli altri manifestanti ci rendevano così onore per i nostri 100 giorni di occupazione e per il fatto che la nostra lotta aveva in qualche modo segnato un’epoca di transizione, aveva assunto non solo un valore sindacale, ma anche politico, di lotta contro il sistema delle tangenti da cui era venuto fuori Berlusconi.
La tradizione dei minatori ci rende orgogliosi. Negli anni ‘60 in questo territorio c’erano già le multinazionali straniere, belghe, inglesi e francesi, che facevano il bello e il cattivo tempo. Tutto quello che vedete in giro l’hanno costruito loro, con il sangue e il sudore di chi lavorava in miniera. Negli anni ‘60 nel Sulcis c’è stato uno degli scioperi più grandi che ha segnato la storia del movimento operaio. La scintilla che fece partire la lotta fu il licenziamento di due minatori della miniera “Pertusola”: Carrusai, di tendenze leggermente anarchiche, e Colostrina, un compagno comunista molto giovane. I due rimasero dentro le gallerie in occupazione per circa settanta giorni e alla fine fu chiuso un accordo che cancellò i cottimi e mise in ginocchio la multinazionale. A distanza di circa 25 anni anche noi abbiamo condotto una lotta simile dimostrando che la classe operaia non si arrende, e le persone, la popolazione, questo ce lo riconoscono.
Gino, vuoi dirci qualcosa tu in merito?
Noi siamo i figli delle lotte che hanno fatto i nostri padri negli anni ‘60. Loro hanno conquistato il diritto ad andare in pensione dopo trent’anni di lavoro in miniera. Hanno conquistato il famoso statuto per le 48 ore e il sabato lavorativo viene da quel momento in poi pagato come straordinario e cessa di essere obbligatorio. Io ho vissute quelle lotte perché mio padre vi partecipò nel ‘64. Portarono avanti un’occupazione per 70 giorni e gli operai dimostrarono una determinazione fantastica. Ricordo anche altre lotte; quando io mi recavo nelle gallerie loro non uscivano e gli si passava il mangiare attraverso le grate. Allora non c’era la cucina come da noi. I nostri padri hanno finanche disarmato la polizia: quando i poliziotti sono arrivati gli hanno portato via i moschetti. Hanno bloccato anche il Giro d’Italia che a quei tempi passava di là.
Quando noi abbiamo fatto le lotte in Carbosulcis molti di noi erano preparati a questo. Per come la penso io però non abbiamo vinto davvero, perché se abbiamo mantenuto il posto di lavoro, il gassificatore però non è stato fatto. L’obiettivo della nostra lotta era il gassificatore che voleva dire 2.000 posti di lavoro. Penso che ci siamo messi sulla difensiva quando c’era ancora da attaccare.
Luigi, dicci anche tu qualcosa in merito…
La mia prima battaglia è stata nell’84. L’occupazione la facevamo nelle gallerie. Io non avrei mai pensato di finire in miniera. Ho perso mio padre che non avevo neppure 13 anni, eravamo una famiglia di 5 figli, mia madre non lavorava e quindi ho dovuto aiutare la famiglia. A 13 anni ho iniziato a lavorare nell’edilizia, entravo a lavoro che era ancora buio e ne uscivo sempre col buio. Poi mia madre ha iniziato a lavorare un po’ e mi ha mandato a scuola per fare un corso di formazione. Quando però c’erano gli scioperi dei minatori io non andavo a scuola, perché mi sentivo di andare a quelle manifestazioni. Non pensavo allora di andare a lavorare in miniera però mi sentivo di partecipare alle manifestazioni dei minatori. Altri mi dicevano “andiamo a giocare a biliardino in piazza Oberdan”, ma io preferivo andare in manifestazione perché sentivo che i lavoratori lottavano per portare a casa il pane e io ci dovevo essere. Poi è successo che sono andato in miniera e allora anch’io ho portato avanti la lotta. Io la lotta la sento dentro! Ora sono in pensione e quel lavoro è stato pesante, certamente pericoloso, ma ancora adesso quando sento parlare di miniera mi si allarga il cuore. La miniera mi ha forgiato. Ho partecipato al CdF e sono stato RSU, sono entrato in contatto con tantissime persone. Ho fatto il delegato perché lo sentivo dentro, non per ricevere qualcosa in cambio. Ma ho visto anche gente che ha utilizzato il sindacato per tornaconto personale. Molti lavoratori mi dicevano che ero l’unico delegato a non essersi “sistemato” in miniera. Sono entrato operaio e sono uscito operaio. Quando ero tra i delegati, nella lotta del 1994, il presidente certo non poteva chiedermi favori perché io di favori non ne accettavo. Ci sono lavoratori che mi stimano per questo e questo mi gratifica più che avere le tasche piene.
Un’ultima domanda: oggi, secondo voi, c’è la necessità di dare vita a nuovi CdF?
Francesco: Magari! Sarebbe bello rifarle determinate cose. Oggi come allora o si ha la forza di rovesciare la società o governano loro, i capitalisti. C’è sete e necessità di queste esperienze: ad esempio i giovani, non sono tutti trogloditi e “bamboccioni” come dicono. A questi giovani bisogna parlare di comunismo, anche se è una sfida enorme. Ricordo che in passato si riunivano in casa di mio nonno. E mio zio, che era comunista e aveva viaggiato al nord Italia ci mise a disposizione la casa di mio nonno, per incontrarci con la CUB alla fine del ‘73, io avevo all’epoca 17 anni. Nel ‘76 poi io sono entrato in Democrazia Proletaria. Si leggeva e ci si formava politicamente. Se non si parla di politica e di prospettiva, ogni questione contingente non trova la sua giusta collocazione. I CdF erano, dovevano essere, embrioni di “comunismo”. Ovviamente parlo di quelli che non erano controllati dai padroni. Se c’è bisogno di comunismo, allora c’è bisogno anche dei Consigli di Fabbrica.
Gino: c’è tanto da fare oggi. I Consigli di Fabbrica vanno rimessi in piedi. Avevano dei limiti che vanno superati, ma sono stati la massima espressione di democrazia operaia nelle aziende. Ripensando al mio passato, la miniera non la auguro certo a nessuno, ma l’esperienza dei Consigli di Fabbrica la auguro invece mille volte a tutti!
(*) Siccome si tratta di un’intervista a più voci, collettiva, spesso non abbiamo indicato i nomi di chi rispondeva.