Editoriale
Quando da metà anni ‘80 la Carovana del (nuovo)PCI, con la rivista Rapporti Sociali, analizzava la seconda crisi generale del capitalismo che era iniziata dieci anni prima e studiava i suoi effetti sulla società (una crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale che dall’economia si espandeva al campo politico e culturale e generava una crisi ambientale senza precedenti), il mondo e il nostro paese apparivano prevalentemente per come la classe dominante li dipingeva: vitali, protesi verso un futuro di pace (la dissoluzione dei primi paesi socialisti portava i capitalisti a proclamare “il trionfo del capitalismo e la fine della storia”) e di prosperità (la costituzione della UE cementava questa illusione). Perciò, noi della Carovana del (nuovo)PCI eravamo ignorati o additati come dei nostalgici fuori di testa e invasati filo-terroristi perché sostenevamo che era crollato il potere dei revisionisti moderni (altro che crollo del socialismo!) e già indicavamo che la soluzione a quella crisi era l’instaurazione del socialismo.
Attraverso un costante peggioramento delle cose, nel mondo e nel nostro paese (perché i fatti avevano e hanno la testa dura!), nel 2008/2009 anche la borghesia imperialista è stata costretta a cambiare la narrazione della società perché lo scoppio della bolla dei mutui sub-prime negli USA ha fatto piombare il mondo in un baratro. “E’ scoppiata la peggiore crisi dal dopoguerra!”, gridavano quelli che fino a soli 5 anni prima avevano decantato le potenzialità della globalizzazione e fatto macellare i manifestanti anti G8 a Seattle, Goteborg, Genova, Praga, ecc. In verità, era iniziata la fase acuta e terminale di quella stessa crisi che durava dalla metà degli anni ‘70.
A cavallo fra il 2008 e il 2012, con le masse popolari della Grecia ridotte a condizione di “schiavitù finanziaria”, era diventato evidente che fosse necessaria una soluzione. La classe dominante, però, una soluzione non ce l’aveva (e non ce l’ha); pertanto, con una serie di sconvolgimenti che per portata e profondità hanno paragone soltanto con quelli che hanno anticipato la Prima Guerra Mondiale, la società capitalista è “rimasta a galla”, non senza che le masse popolari – decine di milioni di persone nel nostro paese e miliardi di persone nel mondo – ne pagassero il prezzo.
Era il periodo dei programmi di lacrime e sangue dei governi della Larghe Intese.
Il 2020 è segnato da una ulteriore degenerazione della situazione e da una svolta nella crisi politica del sistema di potere della borghesia imperialista. La civiltà umana che ordinariamente invia satelliti nello spazio, fotografa la superficie di Marte, produce manufatti a distanza con stampanti in 3D, è messa sotto scacco da un virus pericoloso e letale solo perché mancano le basilari strutture mediche e sanitarie a disposizione della popolazione (medicina di base, posti letto negli ospedali in terapia intensiva, macchinari per la respirazione assistita, dispositivi di protezione), manca l’organizzazione per assistenza e la distribuzione di generi di prima necessità alla popolazione sottoposta a isolamento domiciliare. Sembra incredibile, inspiegabile, che quella stessa civiltà umana imbocchi con “disinvoltura” la strada dell’autodistruzione per evitare di mettere in discussione i pilastri su cui si basa: tutto può essere distrutto, tranne il “sacro” pilastro del profitto.
Quando il marxismo si è affacciato al mondo ed è diventato insostituibile strumento di analisi della realtà, il capitalismo era ancora in una fase di sviluppo e la borghesia era una classe rivoluzionaria che lottava contro il sistema feudale, cioè aveva ancora una funzione storicamente positiva (sviluppo delle forze produttive e produttività del lavoro).
In quella fase, alcuni decenni prima della prima crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale (1900 – 1945), l’umanità era di fronte a un bivio ben sintetizzato dal celebre motto “socialismo o barbarie” o, ad opera dei comunisti e del proletariato, il socialismo avrebbe soppiantato il capitalismo, oppure, con l’ingresso del capitalismo nella fase imperialista, il capitalismo avrebbe fatto sprofondare il mondo nella barbarie.
I comunisti riuscirono nell’impresa di instaurare il socialismo solo in alcuni paesi e fra di essi nessuno era un paese imperialista (a capitalismo avanzato). Ciò ha determinato l’inizio dell’epoca della barbarie, arginata e mitigata solo grazie all’esistenza dei primi paesi socialisti che ha dato impulso ad un possente movimento comunista e antimperialista in ogni angolo del mondo. Dopo la corrosione, ad opera dei revisionisti moderni, e poi il crollo negli anni ‘90 dei paesi socialisti, la borghesia imperialista ha ripreso il pieno controllo sul mondo e la barbarie non ha più avuto ostacoli né freni.
Oggi siamo arrivati al culmine della barbarie. Le masse popolari, da decenni, non sono più di fronte al bivio “Socialismo o barbarie”. Questo è un motto caro a quanti – intellettuali ed esponenti della sinistra borghese – non vogliono prendere atto dello stato delle cose e della necessità e urgenza di fare la rivoluzione socialista per farla finita con la barbarie del sistema capitalista. Le masse popolari sono costrette a condurre una lotta per la sopravvivenza alla barbarie. Non esistono “terze vie”: dobbiamo uscire dalla barbarie e l’unica strada è farla finita con il capitalismo e instaurare il socialismo.
Sulla scorta di una elaborazione (analisi e linea) lunga quasi 40 anni, la Carovana del (nuovo)PCI ha sintetizzato fin dal 2009 una strada per affrontare la contraddizione fra la necessità e l’urgenza di farla finita con la borghesia imperialista e il suo sistema in metastasi e l’attuale debolezza del movimento comunista cosciente e organizzato, cioè la condizione per cui nonostante esistano tutte le condizioni oggettive sempre più evidenti per la rivoluzione socialista, il movimento comunista cresce lentamente, fatica ad accumulare forze e non ha il necessario radicamento né le forze per guidare le masse popolari a fare la rivoluzione socialista. Questa strada consiste nel promuovere la lotta per spingere le masse popolari organizzate a imporre un loro governo di emergenza e, attraverso questa lotta e il raggiungimento di questo obiettivo, far compiere loro quella scuola pratica di direzione della società che le rafforzerà nella comprensione del loro ruolo e della loro forza per costruire la società socialista.
La battaglia dei prossimi mesi, pertanto, quali che saranno le particolari rivendicazioni delle lotte e le forme che esse assumeranno, si riassume nella lotta per imporre alle Larghe Intese un governo di emergenza delle masse popolari organizzate.
Di fronte al marasma in cui siamo immersi, di fronte alla battaglia per la sopravvivenza che le masse popolari devono condurre contro la barbarie, di fronte ai compiti che i comunisti devono imparare ad assolvere per svolgere il ruolo che la storia assegna loro, la concorrenza alle elezioni borghesi, le diatribe sul referendum, la “difesa della democrazia” (vedi articoli a pag. 1), le promesse di soluzioni, le ricette di buon senso e gli appelli all’unità nazionale suonano come il concerto dell’orchestra sul Titanic che affondava. Tuttavia, dobbiamo usare ognuno di questi appigli e i mille altri che i sommovimenti in corso generano per alimentare l’organizzazione e il protagonismo delle masse popolari organizzate, in particolare della classe operaia, affinché prendano coscienza della propria forza e imparino a usarla per trasformare la società, diventandone la classe dirigente. Questo è il nostro lavoro di comunisti.
In tutto il paese cresce la resistenza delle masse popolari al procedere della crisi che la pandemia ha alimentato, si moltiplicano focolai di ribellione ed esperienze avanzate di organismi operai e popolari che, spinti dalle condizioni concrete, iniziano ad agire come nuove autorità per mettere mano direttamente alla soluzione dei problemi e delle contraddizioni che la classe dominante, i sui governi e le sue istituzioni rifiutano di affrontare e anzi alimentano.
Il compito dei comunisti è sostenerle, rafforzarle, rafforzare il loro ruolo pratico al di là delle tante divisioni su questioni secondarie che la classe dominante promuove. Spetta a noi comunisti promuovere e alimentare l’organizzazione e la mobilitazione di ogni gruppo di lavoratori, giovani e anziani ad avere fiducia nelle loro possibilità e capacità a prendere in mano il futuro delle aziende, dei territori e del paese.