L’8 settembre di quest’anno saranno passati 77 anni dall’Armistizio di Cassibile, giorno in cui il Governo italiano nel corso della Seconda guerra mondiale firmò una resa incondizionata agli ex-nemici angloamericani e data da cui prese avvio il movimento della Resistenza. Su La Voce n. 64, nell’articolo “Resistere è necessario, ma ora bisogna passare all’attacco” il Segretario Generale del (n)PCI, Compagno Ulisse, ha scritto che con la crisi sanitaria lo scorso marzo “siamo entrati in un periodo per alcuni aspetti analogo a quello 25 luglio – 8 settembre 1943”. Alla Festa nazionale della Riscossa Popolare 2020 a Marina di Massa la Scuola di Base Anton Makarenko del P. CARC ha organizzato due seminari sul tema della Resistenza italiana per promuovere lo studio di questo periodo e coglierne i dovuti insegnamenti per la fase attuale
Nel 1943 l’Italia era un paese nel baratro della guerra imperialista e della dittatura terroristica. I servizi essenziali non funzionavano e in sostanza le istituzioni non riuscivano a far arrivare alla popolazione i beni necessari per un’esistenza dignitosa. Gli operai lavoravano per la guerra mentre i generi alimentari di prima necessità erano razionati. Il costo della vita aumenta e il potere d’acquisto dei salari scendeva continuamente. Il contrasto tra la retorica del regime, la “guerra lampo” che si sarebbe dovuta vincere in pochi mesi, e l’esperienza pratica di vita delle masse popolari era sempre più evidente. Nel paese c’era uno stato di diffusa illegalità e disobbedienza civile. In sostanza, il regime non era più in grado né di sostenere la guerra imperialista né di tirarsene fuori.
A marzo, in pieno regime fascista scioperarono più di 130.000 operai del Nord Italia. Le parole d’ordine erano economiche ma anche politiche: salario, pane, pace. Gli scioperi che cominciarono come “scioperi bianchi” (cioè, come astensioni spontanee sul luogo di lavoro) e via via si estesero. Lo stato di generale ingovernabilità rendeva impossibile una repressione di massa. La lotta operaia rischiava di paralizzare la produzione bellica e Mussolini il 2 aprile fu costretto ad aumentare stipendi e salari. Gli scioperi non riusciranno ad andare oltre, ma politicamente si tratta di una vittoria clamorosa. In pieno regime fascista, in un paese che produceva per la guerra, gli operai imposero delle misure economiche a loro favore.
Pochi mesi dopo si aprì una crisi politica senza sbocco. Il 25 luglio 1943, la borghesia monopolista decise con il Re di scaricare Mussolini, con un colpo di mano lo fece arrestare, lo destituì e lo sostituì col maresciallo Badoglio. I gruppi imperialisti stranieri preso atto della situazione e agirono secondo i propri interessi: a nord la penisola venne silenziosamente invasa dalle divisioni tedesche mentre a sud già avanzavano gli invasori angloamericani sbarcati in Sicilia. I 45 giorni del Governo Badoglio, che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943, passarono senza che la classe dirigente facesse nulla per impedire l’invasione tedesca. Il motivo era semplice: se si voleva davvero far qualcosa di fronte all’invasione straniera, bisognava inquadrare le masse militarmente e mobilitarle a combattere contro i nazifascisti, ma questa prospettiva terrorizzava quel che restava della classe dirigente (borghesia imperialista e Vaticano) e, quindi, il governo era paralizzato.
L’8 settembre venne pubblicamente annunciato da Badoglio l’Armistizio di Cassibile. Non appena fatto l’annuncio, lo Stato borghese sostanzialmente scomparve. Il Re e la sua corte, lo Stato Maggiore dell’esercito, alti ufficiali e burocrati lasciarono la capitale e i palazzi istituzionali e si rifugiarono a Brindisi, occupata dagli Alleati. Questi dirigenti se ne andarono, semplicemente scapparono vigliaccamente, stretti tra le masse da una parte e l’invasione tedesca dall’altra. Abbandonarono così a se stessa un’intera nazione, ivi compresa la struttura territorialmente articolata dello Stato e delle istituzioni pubbliche collegate con esso, tra cui un’armata di milioni di uomini dislocata all’estero. Sui territori ogni istituzione locale della struttura statale (Forze Armate, Forze dell’Ordine, Prefetture, Magistratura, banche, aziende pubbliche) si “arrangiava come credeva”. Fino a poco più di tre mesi prima, in Italia c’era stato un regime terroristico che al senso comune appariva monolitico e supinamente accettato da una parte consistente delle masse popolari. Dopo l’8 settembre, lo Stato non c’era più e rivolte spontanee si svilupparono in tutta Italia. Non c’era città grande o piccola dove non si tentasse di fare qualcosa per resistere contro i tedeschi, dove un gruppo di lavoratori non chiedesse ai generali che facevano fagotto di essere armati per resistere. In alcune città, si arrivò a insurrezioni generali di carattere spontaneo. Tentativi che però non trovarono ancora nel Partito comunista una salda direzione e che, quindi, durarono qualche giorno.
Il PCI, infatti, fu colto di sorpresa. I dirigenti del Partito non si aspettavano una crisi politica così repentina e profonda, segno di una mancata comprensione della natura della crisi in atto. Solo alla fine del mese di settembre 1943 il PCI cominciò a svolgere il suo compito di promotore, organizzatore e dirigente della guerra antifascista. A partire da questo momento, il PCI costruì poco a poco una nuova struttura politica e militare clandestina: la Resistenza. In tutta la storia del nostro paese fu la prima volta che, emergendo dalla parte oppressa e sfruttata della popolazione, gli operai e i contadini più avanzati si aggregarono attorno a un partito ideologicamente e organizzativamente indipendente dalla classe dominante e costruirono una ramificata struttura di potere autonomo. L’iniziativa promossa e capeggiata dal PCI costrinse anche le altre classi, comprese le classi dominanti e le forze politiche che le rappresentavano (ad esempio, la Democrazia Cristiana), a entrare nella Resistenza. Gli elementi più attivi di quei settori delle masse popolari su cui esse fondavano il loro potere spingevano in quella direzione. Se non volevano perderli, dovevano in qualche misura assecondarli.
Questa fase ci insegna che praticando una linea giusta un partito che era piccolo diventò grande. Un partito che era principalmente dedito alla propaganda clandestina durante il Ventennio dovette velocemente trasformarsi per diventare capace di organizzare e dirigere le masse popolari a istituire il Nuovo potere. Precisamente, fu la capacità di assolvere questo compito che lo rese grande. Al 25 luglio 1943 (quando Mussolini venne destituito) il Partito Comunista era una forza piccola se paragonato alle decine di milioni di proletari e contadini italiani: 5-6.000 membri, la maggior parte dei quali erano quadri temprati dalla clandestinità, dalla guerra di Spagna (1936 – 1939), dal carcere e dal confino. Questo numero aumentò esponenzialmente col passare dei mesi. Furono mesi che valsero anni. Si stima che nel corso dei soli 45 giorni del governo Badoglio affluirono al Partito in modo sostanzialmente spontaneo tra i 15-20.000 nuovi elementi: principalmente giovani operai e contadini, cresciuti nel regime fascista ma che videro nel PCI un punto di riferimento. Nel solo nord Italia nell’inverno 1944, quando il Partito si avviava a diventare lo Stato maggiore della Resistenza, si salì ai 70.000 membri, per arrivare ai 100.000 alla vigilia dell’insurrezione nel Nord il 25 aprile 1945. Tutto questo in soli venti mesi.
Al netto delle molte e profonde differenze tra un regime terroristico e il regime di controrivoluzione preventiva oggi vigente (e in fase di sgretolamento), noi diciamo che la crisi politica del regime fascista di allora ci offre preziosi insegnamenti per affrontare la crisi del regime politico della borghesia imperialista e delle Larghe Intese. Oggi noi, al contrario di quanto avvenne nel PCI del 1943, abbiamo compreso il nesso tra la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale e la crisi politica che si va acuendo in tutto il mondo. È questo che ci porta a concludere che da questa crisi politica, che è una crisi del sistema politico della classe dominante e che la crisi sanitaria ha solo aggravato, non si torna indietro. Non c’è soluzione se non con l’azione della classe operaia e delle masse popolari organizzate che, guidate dal movimento comunista, estromettono la borghesia dalla gestione della società e costruiscono il Nuovo potere. Questa consapevolezza – frutto del bilancio dell’esperienza e dell’analisi del movimento economico della società alla luce del marxismo-leninismo-maoismo – è il più importante punto di forza rispetto ai pur gloriosi predecessori che abbiamo alle spalle e ciò che ci permette di avere un piano per affrontare la situazione ai fini della lotta per il socialismo.