Fin dal mese di marzo abbiamo fatto inchiesta sulla situazione che stanno vivendo i lavoratori a P.IVA, una categoria estremamente eterogenea di cui formalmente e apparentemente fanno parte sia l’affermato e ricco professionista che una grossa fetta di proletari costretti a lavorare come autonomi pur svolgendo in realtà un lavoro dipendente: tecnici, insegnati, educatori, infermieri ecc. L’aumento di questo tipo di inquadramento lavorativo è il frutto delle ristrutturazioni con le quali i capitalisti hanno regolarizzato il precariato, hanno “abbassato il costo del lavoro” e hanno aggirato i vincoli dei contratti collettivi. Gli strati intermedi e bassi delle P.IVA sono quindi un prodotto della crisi generale del capitalismo oltre che sue vittime designate: tartassati dalle tasse (“ogni P.IVA ha un socio al 65%, lo Stato” ci ha detto un autista di Siena) e strangolati dalla concorrenza delle grandi aziende capitaliste (altro che libero mercato!). L’emergenza Covid-19 ha aggravato la situazione.
Molti commercianti, ristoratori e artigiani hanno già chiuso perché i costi di gestione sono diventati insostenibili a fronte del completo abbandono da parte dello Stato: i 600 euro una tantum sono stati del tutto insufficienti a fronte di tasse e utenze da pagare nonostante l’attività sia ferma; quelli che sono riusciti a resistere alla “fase 1” si trovano oggi a dover affrontare ulteriori spese per soddisfare le norme anticontagio e anche se teoricamente potrebbero riaprire, preferiscono non farlo. Per moltissimi, si è aperta una fase di precarietà e instabilità per cui “vivono alla giornata”.
Per questo, già prima del 4 maggio, migliaia di ristoratori, ambulanti, parrucchieri, estetisti e altri venditori di beni e servizi hanno iniziato a organizzarsi per protestare nelle principali città del paese, oltre che contribuire in molte città alla raccolta e alla distribuzione dei pacchi alimentari e dei beni di prima necessità.
Fra le rivendicazioni che abbiamo raccolto riportiamo quelle avanzate dal gestore di un distributore di benzina di Massa, che sintetizza bene le principali rivendicazioni: “1. eliminare per tutto l’anno in corso tutti gli adempimenti che ognuno di noi deve pagare allo Stato (IVA e tasse) e non rimandarli! perché se i soldi non li abbiamo ora non li avremo nemmeno fra 3 o 4 mesi. 2. garantire al 100% gli eventuali prestiti che gli esercenti chiedono e chiederanno per poter fronteggiare questa situazione con restituzione degli stessi a tasso zero e non vedersi applicati interessi di alcun tipo; 3. eliminare tutta la burocrazia che ad oggi è presente per poter accedere ad eventuali sostegni messi a disposizione dallo Stato.
Io sto tenendo duro, come tanti miei colleghi, ma questa volta se nessuno si prende la responsabilità fino in fondo di intervenire con misure concrete ed efficaci credo che più del 50% delle piccole medie imprese sarà costretto a chiudere e questo sarebbe un grande danno per tutto il paese”.
Sono rivendicazioni “di buon senso” che si scontrano con la realtà: le P.IVA devono contendersi fra loro l’accesso al bonus di 600 euro e al mutuo di 25mila euro, mentre per FCA e altri grandi capitalisti che hanno goduto da sempre di aiuti statali e pubblici con il ricatto dell’occupazione, sono disponibili miliardi di euro. Sono richieste di buon senso come lo sono quelle dei lavoratori dipendenti delle aziende capitaliste e delle aziende pubbliche: tutti chiedono solo un lavoro utile e dignitoso. Categorie diverse con gli stessi obiettivi e la stessa necessità di costruire un unico fronte di lotta, organizzazione, mobilitazione e solidarietà per non essere le vittime designate della crisi e, soprattutto, per costruire l’alternativa politica al sistema di potere che le affama e le opprime.