[REGGIO EMILIA] Intervista al partigiano “Alì”

Il 25 aprile di quest’anno, l’essere nel pieno dell’emergenza sanitaria Covid-19 ci ha imposto di essere creativi nella sua celebrazione, tenendo la barra dritta nella difesa e pratica delle agibilità politiche conquistate proprio con la Resistenza (applicando tutte le misure atte a garantire la salute). Infatti, quello stesso sentimento che 75 anni fa armava la Resistenza contro il regime fascista, ci attraversa, oggi, le vene, facendoci comprendere il valore e il ruolo storico imprescindibile delle masse popolari nella costruzione del nuovo mondo. In un momento come questo attuale in cui milioni di posti di lavoro vengono persi e migliaia di vite spezzate, nel nome del guadagno borghese si riaprono le restanti fabbriche che non avevano chiuso, a spese dell’enorme rischio per la salute degli operai.

Quella Resistenza che muoveva Giglio Mazzi, nel non così distante 1944 è più viva che mai e la sua intervista ci rivela i punti cardine della vittoria partigiana sul nazi-fascismo, fatta di organizzazione non solo militare, ma politica e sociale costituita da un ampio movimento d’appoggio popolare spontaneo e trasversale (con al centro la classe operaia) e dalla gestione politica del PCI che seppe conquistarsi autorevolezza e direzione (tanti divennero comunisti nel fuoco della lotta, tanti “partirono” partigiani per rispondere a bisogni immediati). Scopriamo come egli stesso, diventato operaio prima della fine degli studi, trova tra i colleghi in fabbrica quel movimento socialista e comunista che poco dopo sfocerà nell’esperienza dei GAP, delle SAP e delle brigate Garibaldi: un legame quello tra operai e comunisti che è una delle chiavi della forza che ha scardinato il regime fascista. Nelle sue parole traspare ed emerge l’approvazione del popolo per il movimento antifascista, un’approvazione che non rimane solo verbale: sostegno, aiuto e azioni sul campo sono disseminati ovunque nel racconto di Alì (nome di combattimento di Giglio tra le file del distaccamento “Katiuscia” della 37^ GAP di Reggio Emilia), percorrono persone e famiglie con i più diversi pensieri politici, a testimonianza di come messe di fronte alla verità di un oppressore, se guidate adeguatamente dal Partito Comunista, le grandi masse popolari sanno reagire e andare oltre. Pubblichiamo quindi l’intervista ad Alì consapevoli non solo che nella storia troviamo le radici del nostro futuro (la Resistenza fu il punto più alto raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia nella sua lotta per il potere) ma anche perché è necessario riprendere il cammino per un nuovo 25 aprile, che la faccia finita con padroni e affaristi e porti a compimento l’opera avviata durante la Resistenza, ovvero fare dell’Italia un nuovo Paese socialista!

Buona lettura!

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1. Partiamo dagli inizi: le radici della tua famiglia e dei tuoi genitori fino a diventare operaio alle Officine Reggiane…

La mia famiglia era di origine operaia, mio papà era muratore e mia mamma casalinga, lavorando dove capitava. Io invece mi sono laureato studiando la notte mentre lavoravo in banca e, cercando di non andare fuori corso, cosa che non era facile, ho perso parte della vista ma alla fine ci sono riuscito. Mio papà era socialista, tutti lo erano! Tra noi solo Otello Montanari parlava di comunismo: eravamo socialisti anzi, antifascisti. Nella mia brigata GAP non si parlava di comunismo, mentre in montagna le brigate erano comuniste: io, però, non ho mai saputo di esser comunista (si iscrisse al PCI a guerra finita, ndr). A quell’epoca abitavo in via San Martino, dietro a viale Montegrappa: un quartiere popolare che ora è stato rifatto. Appena finito l’ITI (Istituto Tecnico Industriale, ndr), siccome c’era la guerra e naturalmente i giovani delle Officine Reggiane venivano chiamati per andare al fronte, rientrai tra i ragazzi che le Reggiane attingevano dall’ITI perché conoscevamo il disegno tecnico: andai a finire nel reparto tracciatore e il capo reparto era Leoni. Qui nel mio reparto, c’era un noto antifascista che faceva grande propaganda: Simone Brega. Comunista e filo russo, molto stimato come operaio, era un grande politico. Ricordo che abitava al Cairo, storico quartiere popolare di Reggio.

2. Quando e perché decidi di “andare in montagna”?

I primi gappisti hanno cominciato ad organizzarsi già subito dopo l’8 settembre: operavano in città a viso scoperto e nelle brigate GAP (Gruppi di Azione Patriottica, ndr) c’era un tasso di mortalità molto alto. Ma il vero movimento è cominciato nella primavera del ‘44, il 15 marzo con la battaglia di Cerré Sologno.

In pianura, nello stesso periodo, si organizzavano le SAP (Squadre d’Azione Patriottica, ndr) e in montagna nascevano le Brigate Garibaldi. Dopo il bombardamento del 7 gennaio ‘44, che colpì le Officine Reggiane riconvertite in produzione bellica, venni sfollato a San Maurizio: il comando fascista, per non lasciare i ragazzi per strada, istituì l’Ispettorato Provinciale del Lavoro e noi giovani delle Reggiane fummo inseriti nelle centurie locali. I fascisti ne istituirono 10, inquadrando cioè 1000 giovani con l’obiettivo immediato di rimuovere le macerie del bombardamento. Poi, nel marzo ‘44 le centurie di Reggio dovevano, per ordine, andare sulla linea Gotica per scavare le trincee vicino Pesaro, a Tombaccia: nessuno però si presentò alla partenza! Il giorno dopo, i fascisti andarono a casa dei miei genitori per cercarmi e mia madre, addestrata, rispose che non ero lì e che anzi, ero già partito per la linea Gotica. I fascisti risposero che se non mi presentavo dopo tre giorni avrebbero ammazzato tutti: per fortuna non sono più tornati. Visto che non potevo più dormire dentro casa, misi un materasso sul tetto ma ben presto diventò una soluzione troppo scomoda. Ricordo molto bene che mentre ero sul tetto, la notte sentivo delle voci nel porticato che venivano dalla porta morta (spazio aperto ad arco tra la casa e la stalla, tipica delle cascine emiliane), dei sussurri.

3. Quali sono stati i momenti più significativi della tua partecipazione alla Resistenza a Reggio Emilia…

Già si parlava di ribelli, e io pensai “se potessi… se quelli che sussurrano sono ribelli potrei andare con loro e risolvere il problema di dormire fuori casa”. Al contadino Piero Gualdiche che ci ospitava, chiesi di poter aggregarmi a loro (Piero diventerà il comandante “Blord” della mia brigata) e lui mi rispose: “ma dove vuoi andare che hai 17 anni!”. Lo interpretai come se dubitasse del mio coraggio e allora con un coetaneo il giorno successivo lavorammo su un aereo tedesco al campo volo per portare via una mitragliatrice. Pensavamo fosse facile e aspettando l’allontanamento della sentinella lavoravamo nella carlinga: dopo due giorni abbiamo tagliato tutto e portato via il bottino ma Piero, invece di complimentarsi con noi come ci saremmo aspettati, ci rimproverò. Abitavamo appena ad un chilometro dall’aeroporto e temeva perquisizioni dei tedeschi: noi rispondemmo che volevamo dimostrare il nostro coraggio e Piero rincarò la dose dicendoci che tra l’altro quella mitraglia fuori dall’aereo non sparava! Dopo un po’ di tempo però Piero mi disse che la sera avrei potuto, all’ora fatidica di mezzanotte, andare a conoscere le voci che sentivo di notte: scoprii che erano i miei amici sfollati che si erano organizzati! Dopo due notti attaccammo il presidio fascista di Masone. Mentre infuriava la battaglia, si aggiunse una colonna di tedeschi che veniva da Rubiera e, attratto dai traccianti, si unì pure “Pippo” (i bombardieri alleati notturni, ndr), senza però colpire nessun bersaglio. La sera già si vociferava di “quei ragazzi di montagna, con la barba” anche se nessuno di noi la portava in realtà: erano però azioni che infondevano fiducia tra la gente.

A quel tempo ero ancora inquadrato SAP e il primo distaccamento GAP aveva come base il podere dei fratelli Vecchi, in Gattalupa: erano tre giovani che lo formavano, scoperti da una spia fascista. Al mattino presto arrivò la brigata nera, i gappisti sentirono il rumore, usciti dai nascondigli e vedendo la brigata, cominciarono a sparare coi mitra (che procuravamo direttamente noi perché non ricevevano supporti dagli alleati): uno di loro cadde morto e i fascisti dalla rabbia per la fuga degli altri due, andarono al podere dei f.lli Vecchi e presero due giovani che non c’entravano nulla, fucilandoli. Oggi un cippo li commemora come partigiani. Dopo questo evento il distaccamento GAP si sfaldò e il comando piazza di pianura ebbe quindi l’esigenza di ricostruirlo: era importantissimo in pianura, perché il GAP aveva il compito di addestrare tutte brigate SAP della zona. C’era infatti un distaccamento GAP per settore e fino a 20 distaccamenti SAP. Ovviamente, il comando cerava nuovi gappisti tra i SAP e io stesso però non volevo andare perché era molto pericoloso, era gente con grande coraggio, ma il 90 percento moriva. Alla fine però la mia squadra SAP di 6 persone decise compatta di formare il nuovo distaccamento GAP e da quel giorno iniziò l’avventura del distaccamento “Katiuscia” della 37^ GAP.

e la tua esperienza come membro dei GAP?

Il primo giorno andai in città con i miei libri da studente e una pistola nascosta nell’antologia. Quel mattino passai in pieno giorno nella città piena di SS: l’unico modo per salvarsi era che non ti riconoscessero e nei GAP quel che fai di notte non conta, bisogna fare di giorno, perché è così che fai veder il coraggio e la grinta. Poi, quando non c’erano operazioni si andava a pattugliare la via Emilia. Il primo gennaio del ‘44, io e Montanari eravamo proprio di turno di pattuglia sulla via Emilia, nel caso un fascista fosse passato lo avremmo fermato e gli avremmo preso armi e divisa. Quel giorno un gruppo di ciclisti comandato da uno in divisa si avvicinò a noi: tirai fuori la pistola dalla cintura e, lungi da noi pensare che fosse una trappola, dissi ad Otello: “stai pronto che ci penso io”. Quando arrivai contro quello in divisa buttai la bicicletta nel fosso e gli dissi in tedesco e italiano: “mani in alto”. Quel tizio però fece un mezzo sorriso e alzo le mani, di solito non accadeva perché si spaventavano. Gli presi quel che aveva e gli dissi: “non vogliamo farti niente, vieni con noi in quella stradina (ora vicino all’attuale Osteria della Zucca, ndr) che prendiamo la tua divisa”.

Ci avviammo nella via, dietro di lui Otello e io in terza posizione: mentre stavo per arrivare sulla via sentii dietro di me lo stridio di una catena, di solito quando facevamo queste azioni c’era qualcuno che ci faceva un applauso perché i fascisti nei posti di blocco requisivano le biciclette e quindi la popolazione era contenta di vederci che le riprendevamo e li fermavamo. Pensai che quel rumore fosse un cittadino contento dell’operazione. Però dietro di me non c’era un abitante ma un ragazzone con un borsalino, che stava tirando fuori la pistola: per fortuna la sua pistola si incastrò nella tasca e mi diede il tempo di girarmi. Appena recuperata l’arma fece fuoco contro di me a distanza di circa mezzo metro mentre mi voltavo. Il colpo, dato il mio movimento, mi colpii nelle due scapole e per fortuna il movimento naturale di inarcare la schiena mi salvò. Volai per terra per il colpo: era un ufficiale delle SS italiane molto addestrato, poi sparò un altro colpo a Montanari, colpendolo.

Il fascista aveva nella mano destra una valigetta che, dato il contraccolpo dell’arma, si incastrò nella bici e lo fece cadere proprio vicino a me: a quel punto si avvicinò per darmi il colpo di grazia. Anche noi, però, eravamo un addestrati e senza muovermi aprii il fuoco contro di lui. Dopo aver subito il colpo allo stomaco, sparò di nuovo e mi colpii sulla gamba creando un tunnel di mezzo metro nel mio fianco. Continuò poi a sparare a Otello: il fascista, voltandosi verso i ciclisti chiedere un aiuto, in quel momento capii di averlo colpito (morì poi per le ferite). Svenni, quando riaprii gli occhi mi sembrava di vedere arrivare le macchine dei fascisti per catturarmi. I gappisti non avevano l’obbligo di suicidarsi, ma la maggior parte dei morti pur di non farsi prendere si sparava perché tanto i fascisti non ti avrebbero mai lasciato vivere. In quell’istante sentii Otello gridare “Alì corri a chiamare la zia!” ma io non sapevo dove abitasse, non sapevo neanche che avesse una zia! Andai quindi in una casa vicina. Con il sangue che usciva, la schiena che bruciava e la gamba rigida cercai di rialzarmi e raggiunsi la porta morta della casa: caddi giù gridando “correte correte che c’è Otello lungo la strada!”. Non potei dire il suo nome di battaglia Jack, perché nessuno l’avrebbe riconosciuto altrimenti. A quel punto richiusi gli occhi e svenni di nuovo. Quando rinvenni non ero più nella casa e lungo la via Emilia non c’era nessuno ma notai la mia bicicletta con ancora le gomme gonfie appoggiata sul muro. Non sapevo chi me l’avesse rimessa lì ma montai in bici e cercai di passare la ferrovia dello stato, perché al di là i partigiani avevano un’influenza maggiore e il nemico non si avventurava tranquillamente. Incontrai poco dopo, sulla carraia, un vecchietto (in realtà aveva 35 anni, ma per me 17enne erano tutti vecchietti!) e , forse spaventato dagli spari, da me che ero coperto di sangue, cenere e polvere scappò via: in quel momento feci una riflessione amara, ci dicevano che eravamo l’esercito del popolo degli operai e dei contadini, e vedendo lui scappare pensai “veh, il popolo, un ragazzo che sta per morire e il popolo non l’aiuta”…

In realtà, ci fu un grande legame tra i combattenti e la popolazione…

Sì, infatti seppi solo dopo che la bicicletta me la riportò un’amica di mia sorella che mi riconobbe. Dopo l’incontro con il “vecchio” caddi e con tutta la forza che avevo passai la ferrovia, cadendo subito dopo. Lì incontrai mia sorella, spaventata a morte dalla mia condizione. Corse per aiutarmi ma la ammonii di non toccarmi per poi non sporcarsi e farsi scoprire, le chiesi però di tirare fuori un carretto da sotto un tetto per portarmi via. In quel momento due giovani passarono di lì, mi chiesero: “chi è stato!?, ma io non volevo rispondere perché se dicevo chi era stato dicevo chi ero io! Mi dissero “se sei un partigiano non avere paura perché anche noi siamo del movimento” (parola che diceva tutto e niente) e gli risposi: “se siete del movimento portatemi via voi due con il carretto!”. Scoprii che erano due guardia fili che dopo la Liberazione divennero miei amici.

Mi presero e mi portarono nella casa della famiglia Chierici, noti antifascisti, dove rimasi nascosto nella stalla. Passarono due ore, ormai era sera, e pensavo: “adesso quando sentirò fuori gli scarponi , o sono i tedeschi o sono i miei compagni, se sono i tedeschi è finita se sono i miei compagni mi salvo”: dopo due ore sentii gli scarponi e il primo ad entrare fu “Volga”, il mio compagno Umberto Ferretti, un ragazzone che non piangeva neanche se lo pelavi vivo ma quando mi ha visto in quelle condizioni si è messo a piangere. Poi con un barella improvvisata mi portarono via e, tramite mia sorella, arrivò il medico: il medico fascista della zona di San Maurizio. Venne, anche perché la Liberazione era nell’aria e mi disse: “non ti posso mandare all’ospedale perché ti ammazzano subito, allora, io ti inietto dentro alle ferite una pomata. Se le pomate sono arrivate a fare quello che spero abbiano fatto, tutte le mattine dovete trovare fuori dai buchi un centimetro di pomata, se tutte le mattine trovate un centimetro di pomata fuoriuscita vuol dire che le ferite si stanno cicatrizzando da dentro”, e così è stato. Ho fatto 3-4 mesi di latitanza ferito, passando da una casa ad un’altra di socialisti e cattolici, superando il rastrellamento dei giorni successivi allo scontro a fuoco protetto dalla popolazione e dai miei compagni. Per l’unità della Resistenza una famiglia di cattolici mi ha tenuto in casa e mi hanno curato come un figlio.

Poi si arriva all’aprile del ‘45 e l’entrata a Reggio Emilia…

Il 22 di aprile mi ero già rimesso ed eravamo stanziati in una località tra Masone e Castellazzo (“i boschi”): ad un certo punto vedemmo arrivare una colonna militare e inizialmente pensammo i tedeschi ma quei camion avevano la stella bianca, erano americani! Così ci rendemmo visibili all’avanguardia statunitense: eravamo vestiti in modo impossibile e gli americani erano un po’ interdetti ma quando hanno visto che la gente ci applaudiva han capito che eravamo partigiani. Poco dopo siamo tornati sulla via Emilia e assieme abbiamo marciato verso la città, per liberarla. Noi eravamo in testa alla colonna alleata ma, arrivati al ponte in zona del Mauriziano… il ponte era stato fatta saltare in aria dai tedeschi e quindi la colonna americana si fermò. Noi, che conoscevamo molto bene il territorio, siamo riuscita ad arrivare a San Lazzaro e da lì nuovamente sulla via Emilia, completamente libera fino al villaggio “Stranieri”, che allora si chiamava Costanzo Ciano. Non c’era nessuno in giro: per paura dei fascisti tutta la gente era nascosta in casa, poi si sentì dire “ma no, i Partigiani!” e in un attimo scese tutta la gente giù ad abbracciarsi. Ormai arrivava l’imbrunire ed era ancora il 23, quindi tornammo verso San Maurizio e il 24, a Gavasseto, prelevammo una grossa autoambulanza tedesca per andare in città e stanare i franchi tiratori. Nel frattempo le altre brigate partigiane convergono sulla città e alle ore 16 del 25 aprile, Reggio Emilia è libera!

4. Parliamo del dopo Liberazione e della strada che hai intrapreso….

La “Polizia Partigiana” scese direttamente dai monti già il giorno della Liberazione, poi la Provincia fece la PEP, la Polizia Economica Provinciale. Il Prefetto V. Pellizzi prese trenta gappisti e trenta membri delle Fiamme Verdi1, calibrando i due poli famosi la Curia e il Partito Comunista, e creò il primo nucleo di Polizia Ausiliaria di Stato, poi i numeri aumentarono con il tempo e cambiammo, nei primi tempi, diverse caserme. Son rimasto ausiliario tre anni, fino a fine ‘47 perché ci han buttato fuori tutti: io sono stato l’ultimo. Per “eliminare” in silenzio senza sollevare polemiche gli ex partigiani ci mandavano, per diventare effettivi, a fare delle scuole di Polizia a Roma e lì ti bocciavano. Qualche Fiamma Verde è rimasta nei ranghi. Poi io ero studente, volevo continuare gli studi quando sono andato a Roma un ufficiale non potrai mai fare “psicologicamente” il poliziotto con tutti i “buchi che hai addosso” e qui le questioni erano due: se ti dimettevi tu non ti davano nulla, se invece ti riformavano loro ti davano una buona uscita di 35 mila lira e così, insieme a un altro di Reggio, è finita la mia esperienza in Polizia.

poi arriva il 7 luglio 1960 e qui hai un aneddoto sul vicequestore della Polizia che gestiva la piazza quel giorno

Nel maggio ‘45 arriva da noi in Polizia tale Caferi, facendo il gran compagno e cantando Bandiera Rossa e altre canzoni partigiane… scoprimmo poi che era stato il preside delle scuole di Boretto, gran fascista scappato nel gennaio del ‘45. All’epoca non lo sapevamo e anzi, facemmo una gran battaglia affinché da ausiliario diventasse un commissario effettivo… e così avvenne, nel ‘47: ricordo che eravamo tutti al nostro solito bar quando entra Caferi con un foglio in mano gridando “eh ragazzi! È arrivato il fonogramma da Roma, sono diventato effettivo! E adesso che sono commissario effettivo vi farò vedere a voi partigiani e comunisti di merda chi sono io!”. Non lo avesse mai detto: gli tirammo addosso tutto quello che avevamo a tiro e lui scappò da una porticina. Non lo vedemmo più fino al 7 luglio, al comando dell’ordine pubblico della piazza quando ci sono i morti2. Questo era Giulio Caferi Panico.

6. Anche oggi abbiamo bisogno di un 25 aprile per liberarci dall’occupazione dei capitalisti… che ne pensi?

Noi a quel tempo abbiamo fatto solo quello che c’era da fare e oggi la situazione è brutta e triste perché si è tollerato troppo: abbiamo le leggi per reprimere i fascisti ma fa comodo lasciarli fare, tenerli in riserva e in funzione anti comunista, non si sa mai. E anche qui recentemente abbiamo visto il risultato, le svastiche a Cavriago: questo è il risultato di questa tolleranza. La Liberazione non è stata all’altezza di quello che pensavamo anche se quello che abbiamo è grazie ai comunisti. Ma i ricchi son tornati al potere, anzi ce li abbiamo messi noi perché quando c’è stata l’amnistia di Togliatti, noi partigiani eravamo disoccupati, e molti fascisti con l’amnistia son tornati nei posti di potere … e ci davano gli ordini a noi che eravamo partigiani: ne abbiamo fatte di scazzottate … tu fascista che sei stato riabilitato grazie all’amnistia mi vieni a dire cosa devo fare?

7. Il 25 aprile 2014 Salvini decise di tenere nella nostra città medaglia d’oro un comizio che sapeva tanto di provocazione. Un’ampia mobilitazione cittadina e popolare applicò i valori della Resistenza e 16 giovani antifascisti sono oggi sotto processo e la solidarietà è fondamentale, ti va di mandare un messaggio e un saluto a questi giovani compagni?

Ben volentieri, anzi, credo che sia doverosa una cosa del genere, perché tutto quello che si fa e si dice in onore del 25 Aprile e della Resistenza e di tutti quelli che son caduti per fare queste cose, è sempre un onore ricordare, anche in momenti come questi dove sono in corso dei processi o altre cose, che non dovrebbero neanche essere messi in piedi.

1Le Brigate “Fiamme Verdi” furono formazioni partigiane di ispirazione cattolica, talvolta direttamente guidate dalla Democrazia Cristiana;

2Cinque operai reggiani ed ex partigiani i cosiddetti morti di Reggio Emilia, Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli, tutti iscritti al PCI, furono uccisi dalle forze dell’ordine.

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