Rosalba Romano: del giornalismo, della spazzatura e del giornalismo spazzatura.

A proposito dell’articolo di Luca Fazzo e del suo direttore Alessandro Sallusti

Milano, 20 maggio 2020

Su il Giornale di ieri compare un articolo a firma Luca Fazzo che annuncia l’apertura di un’inchiesta per “diffamazione e minacce” contro il P.CARC per la scritta “Fontana assassino”. Non entro nel merito della scritta: il P.CARC ne ha spiegato il senso nel comunicato del 19.05.2020 e nella conferenza stampa tenuta oggi alle h. 12.00 visibile sul sito del Partito.

Mi preme invece precisare un altro aspetto dell’articolo di Luca Fazzo, non solo perché mi chiama direttamente in causa per nome e cognome, ma perché ha a che fare con la correttezza dell’informazione e la libertà di espressione e di stampa sancita dall’art. 21 della Costituzione del 1948 ancora in vigore (almeno formalmente) nel nostro paese. Anche Fazzo e il suo direttore Sallusti probabilmente hanno sentito parlare di correttezza dell’informazione, visto che fa parte, o meglio dovrebbe far parte, del codice deontologico del giornalismo… naturalmente non del giornalismo spazzatura, ma di un giornalismo degno di questo nome di cui in questa situazione c’è gran bisogno dal momento che anche solo conoscere il numero reale delle vittime dell’epidemia è un’impresa e visti i tentativi di zittire, con il bavaglio che porta il nome di “obbligo di fedeltà aziendale, infermieri (Marco Lenzoni a Massa è un caso tra mille!) e altri lavoratori che denunciano la mancanza di DPI, di tamponi, di sanificazione.

A riprova delle campagne d’odio di cui i CARC sarebbero responsabili, Luca Fazzo scrive che a Milano una dei Carc, Rosalba Romano, è stata condannata in primo grado e appello per la persecuzione a un poliziotto, definito ripetutamente sui social come «bastardo e bandito», anche lui con nome e cognome. È vero che sono stata condannata in primo grado e in appello. Non per persecuzione, come scrive Fazzo, ma a seguito della querela per diffamazione contro di me presentata da un agente del VII Reparto Mobile di Bologna. Sono stata condannata per l’“Appello alla società civile” riportato in appendice. Prendetevi due minuti per leggerlo e poi provate a trovare dove c’è scritto «bastardo e bandito», provate a trovare dov’è la diffamazione, provate a collegarlo a quanto emerso dal processo Cucchi!

Di più: sono stata condannata non perché autrice di questo “Appello alla società civile”, ma perché titolare del sito sul quale la redazione di Vigilanza Democratica lo ha pubblicato.

A differenza di Sallusti, io non ho presidenti della repubblica che intervengono a graziarmi (fermo restando che neppure accetterei la grazia visto che ritengo di non aver commesso alcun reato) e, sempre a differenza di Sallusti ma come migliaia di lavoratori e attivisti politici e sindacali, io non ho soldi per pagare le sanzioni pecuniarie che mi sono state comminate… sanzioni pecuniarie che garantiscono l’impunità ai ricchi e strozzano la gente normale…, sanzioni che comunque non pagherò anche e soprattutto perché è ora di dire basta a questa forma di intimidazione e repressione delle lotte sociali.

Conclusione? Delle due l’una: o Fazzo scrive di cose che non conosce, e allora farebbe bene a informarsi prima di scrivere, oppure mente sapendo di mentire. Evidentemente Luca Fazzo ha “perso il pelo ma non il vizio” che aveva quando, giornalista a la Repubblica fra il 2004 e il 2006, trafficava con il SISMI… ma che sia proprio questo ad avergli aperto le porte a il Giornale?

Rosalba Romano

*******

Cosa deve ancora accadere perché il VII Reparto mobile di Bologna venga smantellato?
Appello alla società civile

Il 18 gennaio 2013 il Tribunale di Verona ha assolto 8 agenti del VII Reparto mobile di Bologna (Luca Iodice, Antonio Tota, Massimo Coppola, Michele Granieri, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Vladimiro Rulli e Giuseppe Valente) dall’accusa di lesioni gravissime ai danni di Paolo Scaroni, ultras del Brescia 1911 che il 24 settembre 2005 nella stazione di Porta Nuova ha rischiato di essere ucciso nel corso di cariche ingiustificate contro i tifosi in rientro dalla trasferta. Oggi Paolo è totalmente invalido e non si sa neppure se potrà essere avviata una causa per il risarcimento del danno. Sette degli agenti imputati sono stati assolti dal giudice Guidorizzi per insufficienza di prove, l’ottavo perché il fatto non sussiste.

Al momento della lettura della sentenza alla rabbia e all’abbattimento di Paolo, dei suoi familiari e degli oltre 500 tifosi giunti da ogni dove per supportarlo hanno fatto da contraltare gli abbracci e gli sguardi di soddisfazione dei celerini prosciolti. Criminali che purtroppo indosseranno ancora la divisa, impugneranno un manganello (magari al contrario come avvenuto quel giorno) e una pistola.

Non sono ancora note le motivazioni di questa vergognosa sentenza, ma alcune cose le sappiamo:

– sin dall’inizio ci sono stati tentativi di depistaggio e se l’inchiesta ha preso il via è stato solo grazie all’ausilio di una coraggiosa e testarda poliziotta della Polfer,

– la sentenza di assoluzione per “insufficienza di prove” è stata sicuramente facilitata dal fatto che i celerini non fossero identificabili a causa del casco con la visiera e il fazzoletto bordeaux con cui sono soliti mascherare il volto in questo tipo di “azioni”;

–  la prova principale che poteva inchiodare i colpevoli, ovvero il video con le riprese delle cariche girato dalla scientifica, è stato tagliato: un taglio di dieci minuti… esattamente quelli in cui Paolo viene massacrato. Tagliato anche nel finale il commento di due agenti: “adesso il questore ci inc…”, “ascolta, tu prova a guardare subito le immagini di quando il…”. Dieci minuti “di buco” di cui nessuna indagine interna da parte della polizia ha inteso accertare le responsabilità;

– la vicenda di Paolo Scaroni è soltanto una delle purtroppo numerose e documentate storie di abusi che vedono come protagonisti agenti e dirigenti del VII Reparto mobile di Bologna.

In relazione a quest’ultimo punto abbiamo ragione di supporre che condannare a Verona un’intera squadra del VII Reparto mobile di Bologna, forse avrebbe messo in difficoltà mandanti e protettori di questo corpo speciale. Una sentenza di condanna avrebbe avvalorato ulteriormente le denunce che già circolano e che si stanno facendo largo presso un pubblico più ampio.

Avrebbe avvalorato ulteriormente un interrogativo che già oggi molti pongono in maniera aperta: è davvero possibile parlare solo di mele marce, quando esse sono così tante all’interno di uno stesso Reparto? Come è possibile che nessuno all’interno della Magistratura si sia finora posto il problema di indagare se qualcosa non va nella catena di comando di questo Reparto e nel tipo di addestramento che esso riceve? Il VII Reparto mobile in che modo potrebbe ricondurre ai tanti interrogativi irrisolti “sull’eclissi della democrazia” che si verificò a Genova nel 2001?

Ricordiamo alcuni episodi che hanno visto protagonista il VII Reparto mobile di Bologna.

Al G8 di Genova uno dei corpi speciali al lavoro era il VII Reparto mobile di Bologna ed esso divenne tristemente celebre anche per una maglietta indegna che i celerini si fecero stampare per ricordare l’evento (quella con l’immagine di un poliziotto che schiaccia a terra un manifestante e la scritta A GENOVA C’ERO ANCHE IO).

Per gli arresti illegali di due pacifisti spagnoli compiuti sempre durante il G8 di Genova sono stati condannati in via definitiva a quattro anni (ridotti a uno per l’indulto) 4 poliziotti del VII Reparto mobile di Bologna (Luciano Beretti, Marco Neri, Simone Volpini e Antonio Cecere), mentre chi dava loro gli ordini (Luca Cinti, uno dei tanti promossi di Genova) si trova oggi sotto processo per falsa testimonianza (la prossima udienza è prevista per il 22 febbraio 2013). Luca Cinti testimoniò in aula di aver assistito all’arresto e che uno dei due arrestati aveva in mano una spranga, ma un filmato ha dimostrato che i due manifestanti erano assolutamente disarmati e inermi al momento del fermo.

Cinque poliziotti del VII Reparto mobile di Bologna sono stati condannati per abuso d’ufficio, rissa, calunnia, falso ideologico (e uno anche per lesioni personali) per una rissa all’uscita di una discoteca di Casalecchio nel 2008 scaturita dalle offese da essi rivolte contro tre nomadi.

Sono note a Bologna le cariche particolarmente violente contro gli studenti e gli indignados in cui più di una volta (altra coincidenza) sono rimaste ferite ragazze giovani colpite alle spalle: il caso di Martina Fabbri, di cui riproponiamo l’intervista, è uno dei più conosciuti e anche per esso l’identificazione del colpevole è stata resa ardua dalla reticenza e dall’omertà dei componenti della squadra che attuò la carica e dalla mancanza di un numero identificativo sulle divise degli agenti in tenuta antisommossa.

Ricordiamo anche che Bologna è la città in cui ha operato la “Uno Bianca” e che di possibili spinte interne ai vari apparati contrarie a una riforma in senso “democratico” della polizia hanno parlato non molto tempo addietro Gigi Notari del Direttivo nazionale Siulp e il giudice Giovanni Spinosa, ex pm della procura di Bologna che per primo venne incaricato di seguire l’inchiesta.

Noi crediamo che tutta la società civile debba essere coinvolta nel far luce su vicende, fatti e responsabilità che assieme alla mancanza di un codice identificativo per le forze dell’ordine e del reato di tortura contribuiscono a far sì che gli autori di gravissimi abusi, quando non di veri e propri omicidi (e c’è mancato davvero poco perché anche Paolo Scaroni venisse annoverato tra questi ultimi) rimangano impuniti, rinfrancati nel loro agire criminale da sentenze come quelle di Verona.

Chiediamo alle vittime di abusi di polizia, ai familiari delle vittime, alle Associazioni che si battono perché tali nefandezze non abbiano più a succedere (lo chiediamo in particolare all’Associazione “Le loro voci”, al “Comitato Verità e Giustizia per Genova”, ad “Antigone”, all’“Osservatorio sulla Repressione del PRC”, all’Associazione “A Buon Diritto”)

– di prendere posizione su questo tema

– di presentare un esposto alla Procura di Bologna perché apra una seria inchiesta sugli episodi di abusi che riguardano il VII Reparto mobile di Bologna per accertare possibili collegamenti e responsabilità nella catena di comando

– di far pressioni perché il VII Reparto mobile di Bologna venga sciolto.

Chiediamo ai parlamentari di presentare interrogazioni al riguardo e ai candidati progressisti che alzano la bandiera della “legalità” e del rispetto della Costituzione di utilizzare la visibilità di cui godono per contribuire a questa battaglia di democrazia.

Chiediamo anche agli ultras che sono stati vicini a Paolo, che sono vicini a quanti altri sono caduti vittime di abusi di polizia, di far propria la battaglia per l’introduzione del codice identificativo e del reato di tortura e per lo scioglimento del VII Reparto mobile di Bologna. L’ingiustizia subita da Paolo, gli striscioni esposti per lui in ogni stadio, i tifosi presenti il 18 gennaio a Verona hanno mostrato che è possibile unire “in nome della Verità e della Giustizia” persone che normalmente si professano rivali.

Se ieri avete fatto 100, oggi cercate di fare 200!

Quella per l’introduzione del codice identificativo e del reato di tortura e per lo scioglimento del VII Reparto mobile di Bologna è una battaglia di civiltà che ci riguarda tutti.

Chiediamo a tutta la società civile di riprendere e porre con forza anche questa domanda: “Cosa deve ancora accadere perché il VII Reparto mobile di Bologna venga smantellato?”.

Milano, 22.01.13

La redazione di Vigilanza Democratica

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