Questa intervista a Karim Bekkal del Si Cobas, rilasciataci il 20 aprile scorso a seguito di quella già pubblicata a Eduardo Sorge il 16 aprile, viene pubblicata mentre ci arrivano notizie degli ennesimi omicidi padronali, operai morti di COVID perché obbligati a lavorare in magazzini privi delle misure di sicurezza. La pubblichiamo nel pieno della Settimana rossa, dopo che il 25 aprile in migliaia sono scesi nelle piazze e nelle strade di tutta Italia per celebrare la Liberazione dal nazifascismo e per mobilitarsi contro le misure del governo Conte. I tentativi di repressione del governo non sono riusciti ad arrestare queste mobilitazioni, hanno anzi dimostrato l’impossibilità per gli organi repressivi dello Stato di fronteggiare la lotta e le migliaia di mobilitazioni sparse in tutto il paese.
La “fase 2” di padroni, governo e questure è fatta di morti sul lavoro, manganelli, cambi appalto e speculazioni. La nostra “fase 2” sarà fare della giornata del 25 aprile una prova generale e un embrione di ciò che è possibile fare in larga scala nelle prossime settimane. Abbiamo davanti una battaglia per l’agibilità politica e delle lotte, una battaglia che va concepita in attacco, con strumenti nuovi se necessario.
Nell’intervista, Karim offre una serie di spunti di riflessione importanti. Anzitutto parla di squadre di vigilanza organizzate dal sindacato che nelle aziende in cui i rapporti di forza lo consentono controllano che ci siano le condizioni per lavorare in sicurezza. Questa iniziativa indica una via di come sia possibile anche in questo periodo organizzarsi, guadagnare agibilità politica dentro le aziende, malgrado le restrizioni imposte dal governo. In questo caso si tratta di squadre composte da attivisti del sindacato che controllano più aziende, perché ce ne sono le condizioni, ma cose simili posso e debbono essere fatte dagli RLS in ogni azienda e, dove l’RLS si mette di traverso o dove per esempio al sindacato non sia possibile arrivare dall’esterno, dai lavoratori stessi. A questo proposito rilanciamo l’articolo sui tre strumenti per resistere nelle aziende e organizzarsi per imporre le misure di sicurezza. Chiediamo da subito ai lavoratori, in particolare ai lavoratori e ai compagni del Si Cobas che leggono questa intervista, di mettersi in contatto con noi par aiutarci a migliore questi strumenti (con integrazioni o correzioni) sulla base della loro vasta esperienza sul campo di controllo operaio e astensione dal lavoro.
L’intervista riporta anche l’esempio della Protezione Civile Proletaria di Piacenza, composta da operai del Si Cobas, cui si è aggiunta di recente anche l’analoga esperienza di Prato, nonché quella del Movimento 7 novembre riportata da Sorge.
Sono iniziative di grande valore perché servono agli operai, servono alle masse e servono a far guadagnare agli operai autorevolezza presso le masse. Una rete imponente di Brigate di solidarietà si sono costituite anche a Milano e in ogni angolo del paese. Questi organismi possono occuparsi e in parte già si occupano a 360° del territorio, della denuncia delle cose che non vanno ma anche dell’attuazione di misure necessarie. Possono uscire, vigilare, denunciare pubblicamente e alle forze dell’ordine situazioni in cui non si lavora in sicurezza, fare censimenti, portare aiuto dove serve.
Dove possibile, il lavoro delle squadre di vigilanza può essere integrato a quello delle brigate. Attraverso iniziative come queste, presidi o scioperi puntiamo a creare iniziative congiunte e coordinamenti territoriali stabili tra le organizzazioni della classe operaia e le altre organizzazioni popolari (comitati di lotta per la sanità, per la casa, per la spesa, brigate, ecc.) per creare quella “rete” della cui necessità parla Karim. Questa “rete” l’abbiamo già vista svilupparsi alla Granarolo, all’Italpizza, alla Superlativa e in molte altre vertenze in tutto il paese. È una rete di solidarietà contro la repressione, per il lavoro, diritti e dignità, ma è già anche l’embrione di un potere. Storicamente (per citare i casi del nostro paese, durante il Biennio Rosso, la Resistenza e l’Autunno caldo) il potere della classe operaia è nato così ed è arrivato ad esprimersi nella gestione e nel controllo della produzione nelle fabbriche, nella distribuzione di beni e servizi nei quartieri e nelle città, nella rete capillare di vigilanza e controllo popolare rispetto alle azioni delle forze militari fedeli al nemico di classe. Andare all’attacco significa mettersi nell’ottica di lottare per costruire questo potere.
L’intervista è stata anche occasione di parlare con Karim di Partito. Questa questione è stata esplicitamente posta da più di un delegato nel corso delle due partecipate assemblee nazionali indette dal Si Cobas. Come comunisti pensiamo che un sindacato combattivo come il Si Cobas debba essere il più grande possibile e aperto a tutti i lavoratori, perché ne migliora le condizioni di vita ed è una grande scuola di lotta di classe. Inoltre, fa bene il Si Cobas in questa fase a porsi come centro aggregatore e a scendere sul terreno della lotta politica. Tuttavia, il Partito comunista non è l’organizzazione che porta nelle istituzioni della borghesia queste rivendicazioni politiche, né può nascere dall’espandersi o dall’unione delle lotte sotto una piattaforma rivendicativa unica, come emerge dalle parole di Karim. Tutti i partiti che sono nati così nei paesi imperialisti sono storicamente capitolati nel pantano dell’opportunismo e del collaborazionismo di classe, né è possibile in questa fase terminale della crisi generale che le lotte, senza una guida rivoluzionaria, si estendano oltre un certo livello senza essere fiaccate dai colpi che il nemico ci riserva in risposta. Il Partito non è in competizione né alternativo a un sindacato combattivo ma al contrario eleva il livello di tutte le organizzazioni di massa, come sono i sindacati combattivi, in cui i sui elementi intervengono e dalle quali recluta. Esso è composto dai migliori e più coscienti elementi della classe e delle masse popolari e ideologicamente e organizzativamente è concepito per dirigere e vincere una guerra.
Per farla finita con banchieri, speculatori, capitalisti, potenze straniere (come la NATO), Vaticano e per una nuova liberazione del paese c’è bisogno della rinascita del movimento comunista, c’è bisogno di un nuovo partito comunista che organizzi, alimenti ed elevi la resistenza spontanea delle masse popolari al procedere della crisi, di un partito che si dia i mezzi ideologici e organizzativi per costruire qui e oggi l’offensiva. Un Partito siffatto già esiste: è il (nuovo) Partito Comunista Italiano – della cui Carovana il Partito dei CARC fa parte. Esso è sorto per completare l’opera dei Partigiani: fare dell’Italia un paese socialista e contribuire così alla nuova ondata della rivoluzione proletaria che avanza in tutto il mondo.
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Anzitutto, qual è la situazione nei magazzini a Bologna e provincia?
Nel decreto Cura Italia, che prevedeva la chiusura totale di tutte le attività non di prima necessità, non c’è nulla per il settore trasporti-logistica. L’hanno considerato come un servizio pubblico essenziale, nonostante nelle precedenti leggi non fosse mai stato considerato come un servizio pubblico essenziale. In sostanza hanno obbligato tutti i facchini e tutti i driver a continuare a lavorare come se non fosse successo nulla.
Il sindacato di base oggi più rappresentativo e combattivo in questo settore è il Si Cobas, insieme all’ADL Cobas e, nonostante questo, non siamo stati in alcun modo resi partecipi delle trattative nazionali riguardo ai recenti decreti. I lavoratori del settore, in grossa parte immigrati, sono stati completamente abbandonati dallo Stato in balia dei padroni.
Ma i lavoratori hanno pensato da soli a imporre la misura necessaria: persino prima che uscisse il primo decreto sul Covid-19, i lavoratori sostenuti dal sindacato hanno comunicato al MISE, alle Regioni e a tutte le aziende l’intenzione di astenersi dal lavoro a meno che non fossero stati forniti adeguati DPI e strumenti per la sanificazione (guanti, prodotti e mascherine, ecc.).
Oggi per capire la situazione dobbiamo considerare due tipi di aziende: aziende che trasportano soltanto merce non di prima necessità e aziende che magari fanno anche consegne agli ospedali.
Le aziende che trasportano solo merce non essenziale sono state chiuse. Qui hanno aperto la cassa integrazione ma i lavoratori per avere la cassa integrazione anticipata devono compilare dei moduli con l’azienda (oltre a INPS e moduli per le banche) e oggi facciamo difficoltà a trovare qualcuno che ci risponda, cioè i padroni spariscono. I lavoratori vanno in banca e non riescono neanche ad ottenere la cassa integrazione anticipata, che comunque prevede un anticipo massimo di 700 sull’80% dello stipendio base.
Nei magazzini in cui ancora si lavora, perché movimentano merce che ad esempio va verso gli ospedali, abbiamo obbligato l’azienda a firmare degli accordi: 1) anticipo della cassa; 2) integrazione dello stipendio al 100% e non solo all’80%. In queste aziende ci sono problemi di sicurezza sul lavoro anche se va detto che delle volte sono le stesse aziende – non per giustificarle – che non riescono a trovare i DPI sul mercato, data la loro carenza in Italia. Pare che oggi non ci siano fabbriche in Italia che possano far fronte a questo problema. Questo è uno dei motivi per cui i lavoratori si sono astenuti dal lavoro: non c’erano le condizioni per svolgerlo in sicurezza.
Riuscite a movimentare solo merce essenziale come forma di sciopero?
In occasione del secondo decreto la situazione è precipitata: la quarantena ha creato un’impennata nel commercio online che ha avuto ripercussioni drammatiche sulle condizioni di lavoro. I lavoratori si sono accorti che tra i pacchi molti non contenevano merci essenziali. Diversi corrieri hanno quindi deciso dal primo giorno di lasciare a terra questi prodotti senza consegnarli. A quel punto l’indicazione del sindacato è stata: trasportare solo la merce di prima necessità (materiale per ospedali, farmacie e fabbriche che concorrono all’erogazione dei servizi essenziali).
Nel concreto, alcuni prodotti, come un televisore, vengono lasciati a terra, ma per altri, ad esempio quelli meccanici, è impossibile valutare se siano necessari o no. Politicamente il problema viene dal governo, che in questo periodo permette alle aziende del commercio online di continuare a speculare, motivo per cui, quando ci è impossibile effettuare un vero e proprio controllo, siamo costretti a consegnare tutto.
Avete fatto ricorso a squadre di vigilanza, in particolare per le aziende chiuse, in modo che gli operai possano controllare quello che succede in azienda?
Lo stiamo facendo sulle aziende aperte. In questo momento lavorare nel trasporto-logistica è come fare volontariato, pur essendo pagati. È una scelta che fai per il bene della collettività. Quando il lavoratore porta il materiale agli ospedali rischia la propria vita e questo non può essere un obbligo imposto col ricatto del salario. Chi sceglie di farlo deve affidarsi al sindacato che è informato su quali sono le condizioni di sicurezza e che deve mobilitarsi per farle applicare. Quindi, come organizzazione sindacale abbiamo costituito un gruppo che fa il giro dei magazzini di Bologna (con il permesso delle aziende che ce l’hanno accordato grazie ai rapporti di forza che abbiamo costruito all’interno) per controllare se effettivamente sono rispettate le distanze e le misure di sicurezza, se ci sono i DPI e adeguata sanificazione. Abbiamo anche chiesto che l’azienda comunichi costantemente al sindacato lo stato dell’arte in materia per avere un maggior controllo sulle effettive condizioni di sicurezza dei lavoratori.
I sanitari di Piacenza di recente hanno detto che se le aziende riapriranno, loro sciopereranno, perché la situazione sanitaria a Piacenza è gravissima. Questa è un’occasione importante di coordinamento tra lavoratori per imporre misure necessarie alla salute di tutte le masse popolari. Secondo te come sindacato potreste convergere su una lotta come questa?
Credo che il nome stesso del SI Cobas (Sindacato Intercategoriale dei Comitati dei base) ti dia una risposta a questa domanda. Anche se la maggior parte dei nostri iscritti è nella logistica, non significa che siamo un sindacato limitato a quel settore: noi siamo con tutti gli operai che lottano per salari, diritti e dignità.
Ci sono città, tipo Perugia, in cui la maggioranza degli iscritti del Si Cobas è composta da infermieri o lavoratori del pubblico impiego, quindi è chiaro che lì la lotta sarà più avanzata; stiamo cercando in ogni modo di essere vicini a chi lavora negli ospedali e agli infermieri, che oggi stanno affrontando in prima linea questa battaglia. Cercheremo sempre di trovare nuove modalità di lotta per poter far sentire la voce anche di questa classe di operai. Anche se lo sciopero in solidarietà tra settori non è previsto per legge, il Si Cobas ha dichiarato la volontà di rompere con questo e siamo pronti a scioperare in solidarietà nel momento in cui i lavoratori della sanità vogliono mobilitarsi e unirsi alla lotta.
Brigate di solidarietà stanno nascendo un po’ ovunque nel paese. Sicuramente conosci quello che stanno facendo con la Protezione civile proletaria a Piacenza. I lavoratori della logistica, che movimentano con loro mani la merce di tutta Italia, sono stati capaci di fare quello che il governo non sapeva o non voleva fare: trovare mascherine! Al punto che la Croce Rossa si è rivolta a loro! Credi che questa pratica possa essere estesa ai vari territori come forma avanzata di lotta? È una pratica che si può fare insieme con il lavoro delle squadre di vigilanza che già fate. In prospettiva è anche un modo per alimentare il coordinamento di fronte alla repressione che si profila all’orizzonte.
Il Si Cobas è un sindacato auto-organizzato a livello nazionale ma ogni provincia valuta autonomamente le misure da prendere. A Piacenza hanno visto che c’era la necessità di distribuire mascherine, sostenere l’attività della Croce rossa e distribuire beni di prima necessitò alla gente e si sono mossi in questa direzione. Qui a Bologna ci stiamo avvicinando alle persone che si trovano in difficoltà nel pagare l’affitto e stiamo cercando di bloccare gli sfratti e il pagamento degli affitti, dato che la cassa integrazione al massimo può anticipare 700 euro, ma ci sono affitti a Bologna che arrivano anche ad 800 e la gente con 700 euro non può pagare affitto, bollette, spesa, eccetera. Con il gruppo Social Log abbiamo fatto assemblee con gruppi di inquilini che non riescono a pagare gli affitti. Parliamo di controparti che hanno capitali da milioni di euro. Chiediamo di abbassare la tariffa dell’affitto o di sospendere il pagamento per questo periodo, finché non passa l’emergenza e riparte il lavoro. Con questa esperienza stiamo cercando di aprire qua a Bologna uno sportello per la casa. Noi a Bologna facciamo questo, a Piacenza fanno un’altra cosa. In generale si può dire che l’obiettivo non si limita a lottare nella logistica sul posto di lavoro, ma lottare per avere pieni diritti e dignità. Per questo se sarà possibile allargare la lotta del Si Cobas in altri settori e ad altre lotte, noi faremo parte di queste lotte.
È fondamentale che le organizzazioni della classe operaia a livello territoriale si leghino e dirigano tutte altre, come è successo per esempio a Prato per la Superlativa o a Modena per l’Italpizza – ma anche per la Granarolo ai tempi – creando coordinamenti stabili. Sono forme di coordinamento che nascono intorno alla solidarietà ma poi arrivano a mettere in questione il “sistema” di potere territoriale. Del resto la repressione ci mette tutti davanti a una scelta: o passare all’attacco o sfiduciarci e mollare sotto i colpi della repressione. Tu pensi che quelle esperienze indichino una via giusta e praticabile?
Ovviamente la miglior difesa è sempre l’attacco e l’attacco sicuramente va fatto quando ce n’è l’opportunità. In questa fase il capitalismo è in crisi e i rivoluzionari devono cogliere questo momento in cui il capitalismo ha dimostrato a tutti i popoli la sua inefficacia. Quindi oggi dobbiamo muoverci per accelerare la sua distruzione e per costruire un’alternativa migliore.
Dalla crisi del 2008 l’unico settore che ha avuto solo aumenti di salario e miglioramenti è stato quello del trasporto-logistica e questo è avvenuto perché è stato il settore più combattivo. Quindi solo attraverso la lotta e il modello di Granarolo e di Italpizza si possono conquistare diritti e dignità anche in questo momento. Se non passi all’attacco e non metti in piedi una lotta che riesca ad incidere, non puoi aspettare che i padroni ti regalino qualcosa, perché i diritti si conquistano praticandoli.
È fondamentale costruire intorno ai lavoratori una rete di solidarietà la più ampia possibile, non solo tra i settori lavorativi, ma anche collegandosi a tutte le altre lotte. Questo, del resto, sta nelle cose. Le lotte sociali, infatti, spesso riguardano gli stessi lavoratori. Molti lavoratori del trasporto-logistica, per esempio, il cui magazzino è stato chiuso, avranno la necessità non solo di difendere il posto di lavoro ma anche il proprio diritto a un’abitazione dignitosa, perché si troveranno a non poter pagare l’affitto. Lo stesso vale per il reddito minimo, che molti chiamano “Reddito di cittadinanza”, malgrado non debbano essere solo i cittadini italiani a riceverlo. Chi ha lavorato magari 20 anni in nero e altri 20 anni impiegato per aziende private e oggi si ritrova disoccupato, e non ha la cittadinanza italiana, non è giusto che non possa avere il Reddito di cittadinanza. Chiunque viva in questo territorio e sia costretto a sopravvivere sotto questo sistema capitalista nelle modalità che esso impone, deve poter rivendicare un reddito minimo.
Pensi che a Modena, così come a Prato, si stato utile coinvolgere anche eletti come la Ascari, Tommaso Fattori o persino qualcuno del PD che a Prato era in piazza?
Io credo che le adesioni sia della Ascari sia del PD o di tesserati CGIL nel corteo di Prato non vanno viste come adesioni sostenute dalle loro organizzazioni di riferimento, ma come iniziative di singoli individui – siano essi in buona fede o illusi – all’interno di quelle organizzazioni. Questo ha creato delle contraddizioni, perché questi individui sono stati criticati dalle loro stesse organizzazioni per aver partecipato e ciò crea spaccature nel campo a noi avverso. In particolare poi per quello che riguarda i lavoratori aderenti ai sindacati confederali, quando questi capiscono di essere attaccati proprio dall’organizzazione che dovrebbe difenderli mentre si mobilitano per i loro interessi e per la solidarietà di classe, si crea una coscienza politica che li fa capire che queste organizzazioni, che hanno aderito al capitalismo per poterlo abbattere, sono degli strumenti incapaci di ottenere quei diritti che come classe rivendicano.
Tu due anni fa mi dicesti che il sindacato può fare anche il partito. Pensi ancora che sia così?
L’indicazione del Si Cobas è molto chiara: oggi è il momento di creare un fronte di opposizione politica. Un sindacato che fa lotte non solo sindacali ma anche lotte politiche, come lo sciopero contro il razzismo, lo sciopero dell’8 marzo e lo sciopero contro il fascismo o sulla casa, un sindacato come il Si Cobas che ha partecipato a tutte quelle lotte, avvia una lotta politica e sta portando avanti un percorso politico. Se fai una lotta politica vuol dire che fai una guerra e se fai una guerra vuol dire che stai formando un partito, un’alternativa politica. Puoi chiamarlo partito o lotta politica, ma stai in automatico creando l’alterativa politica che sostituisce il capitalismo che oggi governa il mondo. Può avvenire attraverso l’adesione a partiti che già esistono o fondandone uno nuovo che assorba tutti i partiti di sinistra, se si trova un punto d’incontro per creare un’ampia rete di solidarietà, ma comunque è più importante fare una lotta politica piuttosto che parlare di partito, perché fare la lotta è già in sé un partito.