CdF della Dalmine e la lotta della Tirrena Macchine (Massa) – Intervista a Mario Del Moretto e Giuseppe Baroni

Avete iniziato a lavorare alla Dalmine nel 1985. Com’era allora la situazione?
Giuseppe: Sì, ho iniziato a lavorare alla Dalmine nel 1985 con un contratto di formazione. In quel periodo ci furono diverse assunzioni perché grazie a un grosso investimento era stato aperto un nuovo reparto. Ma dopo solo due anni, nel 1987, parte la cassa integrazione, iniziano a chiudere prima i singoli reparti per arrivare poi alla dismissione totale dell’azienda nel 1990.
Alla Dalmine producevamo tubi in acciaio senza saldatura – sottoposti a un trattamento termico di tempera reso ancora più efficace dal clima mite del nostro territorio – che venivano utilizzati per realizzare metanodotti, oleodotti e per l’estrazione del petrolio Lo stabilimento comprendeva anche un’area retroportuale a Marina di Carrara dove venivano stoccati i tubi prima di essere spediti a destinazione.
La chiusura della fabbrica fu motivata con la “crisi strutturale dell’acciaio” ma dietro c’era la volontà politica di favorire lo stabilimento di Bergamo. Erano gli anni in cui le partecipate statali iniziavano a essere smantellate attraverso la chiusura delle fabbriche o la loro vendita ai privati. Credo che un tavolo tecnico al Ministero, teso a capire se i conti dello stabilimento di Massa fossero davvero in rosso, non ci sia neanche mai stato e anche questo porta a dire che la scelta di chiudere fu politica.
Gli operai che lavoravano alla Dalmine di Massa, erano altamente specializzati, molto preparati professionalmente, tant’è che spesso venivano mandati alla “casa madre” di Bergamo, per insegnare il funzionamento dei macchinari agli operai di lassù.

Alla Dalmine esisteva un Consiglio di Fabbrica? Che ruolo aveva?
Giuseppe: Io personalmente non ho fatto parte del CdF… più che altro sono stato presente nelle lotte successive, dal 1990 in poi. Ero però in contatto con diversi compagni che avevano vissuto gli anni delle grandi mobilitazioni, dentro e fuori le fabbriche, grazie alle quali abbiamo conquistato diritti e tutele importanti come la mensa (una volta alla Dalmine il panino dovevi mangiartelo in piedi), le commissioni interne e quelle per la tutela dell’ambiente perché finalmente si era cominciato a parlare anche di ambiente, di salute e di sicurezza.
Ricordo che negli anni in cui c’ero io, esistevano ancora reparti, tra cui il mio, dove gli operai erano riusciti a creare una sorta di autogestione su base solidaristica. C’erano diverse postazioni e noi operai ruotavamo su di esse a turno in maniera tale che, nel giro di un anno, tutti potevamo acquisire competenze professionali complete e chiedere lo scatto di livello. La solidarietà era alla base della nostra organizzazione e se, per esempio, avevi bisogno di ferie, ci venivamo sempre incontro uno con l’altro per sopperire ad eventuali assenze.
Chiaro che l’azienda non gradiva lo spirito solidale che esisteva tra noi operai e ha sempre cercato di mettere i bastoni fra le ruote, spesso infiltrando tra di noi i “suoi” uomini. Inoltre, come se non bastasse, questo tipo di organizzazione solidale veniva criticata anche da altri… da sinistra ci dicevano che apparivamo filo-democristiani, per la DC invece eravamo troppo comunisti!
Io so solo che mi sono trovato benissimo. Ho un bellissimo ricordo di quel periodo perché ho conosciuto molti operai e sindacalisti degni di ricoprire quel ruolo. Per la maggior parte erano sempre presenti, avevano “il senso della fabbrica”!
A volte entravamo in turno anche prima dell’ora prestabilita, perché concepivamo il lavoro come un diritto ma anche un dovere.
Alcuni sindacalisti e operai più anziani sono stati di grande esempio per me. Non si facevano problemi a dire come stavano le cose e a scontrarsi anche con le segreterie sindacali. Erano compagni sindacalisti che si relazionavano con noi operai sempre in modo corretto a prescindere dalla tessera che avevamo in tasca; ci raccontavano sempre la verità perché, come diceva Gramsci, “la verità è rivoluzionaria”. Erano coerenti, sempre. Per loro gli operai venivano sempre prima e questo indipendentemente dalla tessera sindacale.
Ho veramente un ricordo bellissimo, anche perché io di lotta sindacale e politica me ne sono sempre occupato. Facendo parte di una famiglia di comunisti sono cresciuto sentendo parlare di lavoro e di lotte… anche se finché sei ragazzo non riesci a capire fino in fondo certi problemi. Solo quando mi sono trovato a sperimentarli sulla mia pelle ne ho davvero preso coscienza.
Di lotte, quando non ci davano risposte sulla sorte della fabbrica, ne abbiamo fatte davvero tante: abbiamo occupato la ferrovia, l’autostrada, piazze e strade e per 20 giorni e 20 notti anche una palazzina della Direzione. L’azienda manteneva la produzione con 350 lavoratori mentre i restanti erano in cassa integrazione e non ha mai dato seguito al meccanismo di rotazione tra gli uni e gli altri: chi era fuori era fuori, chi era dentro era dentro, hanno cercato anche così di dividere i lavoratori tra “garantiti” e non.
Noi pretendevamo un piano industriale in cui fosse riportato nero su bianco il destino della fabbrica, ma non lo abbiamo mai ottenuto. I politici in ordine sparso continuavano a fare la loro passerella a Roma, ai tavoli istituzionali, dove ognuno portava la sua posizione e non una sintesi comune. Evidentemente il loro obiettivo era diverso dal nostro che è sempre stato quello di tenere aperto lo stabilimento di Massa in un’ottica di prospettiva industriale.

Quanto siete riusciti a coordinarvi con gli operai di altre fabbriche e a coinvolgere il territorio nella vostra lotta contro lo smantellamento della Dalmine?
Giuseppe: Beh, quando facevamo le riunioni nei direttivi la partecipazione delle altre fabbriche del territorio c’era. Ricordo bene gli incontri con i delegati dei cantieri, della RIV (oggi SKF), ecc., che servivano appunto per coordinarsi e mettere in campo mobilitazioni comuni.
La città ha sofferto molto a causa della chiusura della Dalmine. Intorno alla Dalmine girava un grosso indotto e la chiusura dello stabilimento ha prodotto una consistente perdita di posti di lavoro, anche il settore del commercio ne ha risentito. Pensa che già nel 1990 si parlava di chiudere la Sanac che oggi, infatti, è a rischio chiusura.
Dall’“alto” ci dicevano: “la Dalmine chiude, ma tanto abbiamo il marmo, il turismo… arriveranno i soldi e faremo una bella reindustrializzazione”. E invece niente. E diverse aree industriali sono state convertite al commercio.

In che misura il vostro organismo di lotta si occupava anche di politica? Guardavate al resto del paese o soltanto alla vostra realtà?
Giuseppe: Io inizialmente avevo la tessera del PCI, solo in seguito ho preso la tessera della FIOM. Mi interessavano molto di più le problematiche del paese in generale.
Con la marcia dei 40.000 alla Fiat e la sconfitta della scala mobile, sicuramente si diffuse la consapevolezza che una stagione era finita. Il PCI si scioglieva e scemava il protagonismo dei lavoratori ingabbiati dalla concertazione. Io non ho partecipato, per via dell’età, alla stagione del conflitto ma ho avuto l’onore di conoscere e lavorare con operai che hanno fatto la storia di questo paese e questo mi è servito ad affrontare con maggiore consapevolezza le vicende successive.

Mario, prima di passare alla vicenda della Tirrena macchine e alla “Tenda per il lavoro” vuoi aggiungere qualcosa a quanto detto finora da Giuseppe sulla Dalmine?
Mario: Anch’io sono stato assunto alla Dalmine nel 1985. Mi inviarono al reparto OCTG, considerato da tutti come il polmone dell’azienda. Lì venivano testati i tubi. Era bello, perché in quel reparto c’era l’autogestione di cui parlava prima Giuseppe. C’era sì un capo che ti indicava cosa dovevi fare, la commessa che ti era assegnata, ma poi eri tu a gestirla. Non si lavorava 8 ore di fila… potevi intervallare stando anche 2 ore sulla gru, però la produzione era sempre garantita.
Dal ’90 fino al ’98, anno della chiusura della Dalmine, siamo stati in cassa integrazione e a chi accettava di andare via veniva offerta una buonuscita di 50 milioni. Noi abbiamo aspettato l’apertura di quelle 3 o 4 aziende su cui governo e amministrazioni locali avevano promesso di investire dopo la chiusura della Dalmine e tra queste la Tirrena Macchine che ci era stata presentata come un “fiore all’occhiello” nel panorama industriale.
Io all’epoca ero il segretario del Circolo di Rifondazione Comunista della Zona Industriale e mi ricordo che dopo appena 7-8 mesi che ero entrato alla Tirrena già ero costretto a scrivere un comunicato stampa in cui denunciavo pubblicamente il fatto che gli operai, lì dentro, per ottenere uno stipendio dignitoso erano costretti a fare una marea di ore di straordinario… altro che fiore all’occhiello!
Pensa che il padrone ricevette 50 milioni di lire, più gli sgravi fiscali per 2 anni, per ognuno (e furono circa 50) degli ex dipendenti della Dalmine che assunse.
La Tirrena Macchine non ti riconosceva lo scatto di livello per la professionalità che avevi acquisito, ma per la tua disponibilità. In tutto, all’inizio eravamo 120-125 operai e la produzione era elevata, ma ben presto fu chiaro che le cose non andavano come dovevano andare… e infatti la fabbrica chiuse dopo soli 6 anni.
Per prendere i soldi da “Sviluppo Italia” l’azienda gonfiava i bilanci, falsificava le ore… e al tempo stesso i fornitori si lamentavano perché non venivano pagati. “Sviluppo Italia”, con tutte le aziende che ha portato a Massa, è stata solo una grande truffa a favore dei padroni “arraffatutto”, come diceva prima Giuseppe, e a nostro danno. E le amministrazioni di allora hanno sempre taciuto. Loro, come scrissi al sindaco dell’epoca Fabrizio Neri, preferivano (e preferiscono ancora oggi) pensare al turismo per far ingrassare gente che poi durante l’inverno andava (e va) a spassarsela in vacanza a Courmayeur!

Dopo la Dalmine ha chiuso anche la Tirrena Macchine e voi avete fatto la “Tenda per il Lavoro”…
Mario: Sì, la Tenda per il Lavoro è durata 4 anni. Dal 2004 al 2008 e aveva l’obiettivo di porre al centro dell’attenzione il diritto al lavoro, un problema urgente vista la chiusura di diverse fabbriche del territorio. La Tenda fungeva da coordinamento per molti operai di diverse aziende, ma nella pratica si reggeva sulle spalle di pochi tra cui io.
Eravamo già entrati nella fase in cui gli operai iniziavano a disinteressarsi alla lotta sindacale e politica e su questo facevano affidamento tanto i sindacati che le istituzioni. Finimmo per togliere la stessa Tenda per il Lavoro su pressione dei sindacati che ci venivano a dire che tanto il sindaco di allora, Roberto Pucci, ci avrebbe messo a posto tutti, cosa che poi ovviamente non avvenne…
Capisci bene che la partecipazione degli operai a questa lotta cominciò progressivamente a venir meno. Era già tanto se alcuni di loro, di ritorno dal mare, passavano a salutare chi di noi restava sotto la Tenda nel pieno centro di Massa.
Io ho sempre sostenuto che “chi lotta può perdere, ma chi non lotta ha già perso”, quindi ho sempre lottato. Ma le lotte devono essere portate avanti da tutti. E invece in quel periodo non fu così…

Nonostante sindacati e istituzioni tremino ancora oggi al ricordo della “Tenda per il Lavoro”, dalle tue parole, come da quelle di Giuseppe, emerge una differenza lampante tra il protagonismo operaio dei tempi della Dalmine e la partecipazione alle lotte successive. Quale ne è la causa a tuo parere? E cosa ti senti di dire agli operai di oggi?
Mario: A me piaceva lottare, lottavo per me ma anche per gli altri. Spesso, soprattutto negli ultimi anni, sono stato criticato perché ero considerato un estremista. Figurati, oggi avviene di peggio.
Penso che le persone siano deluse: oggi molti operai votano Lega e questo perché la sinistra non ha fatto più nulla per loro. Con il Jobs Act il padrone ha il potere di fare tutto ciò che vuole e se c’è un sindacalista che prova ad opporsi lo prendono a calci nel sedere e lo buttano fuori.
Ti dico una cosa… pensa che l’altro giorno ho incontrato un mio ex collega che ho saputo che ha preso la tessera della FIOM e gli ho chiesto come mai non l’avesse presa ai tempi in cui lavoravamo assieme. Sai cosa mi ha risposto? Che non la prendeva perché io ero troppo estremista… questo fa capire a cosa si è ridotto oggi il sindacato.
Cosa mi sento di dire agli operai di oggi? Anzitutto che le lotte vanno fatte perché, prima o poi, vengono premiate. E di tenere duro. La lotta dentro la fabbrica va fatta, ma occorre anche uscire fuori della fabbrica. È importantissimo che gli operai di una fabbrica si coordinino con quelli di un’altra. Se ci sono problemi all’interno di una fabbrica o la fabbrica chiude, è tutta la città a risentirne, è la città intera ad avere un problema, quindi vanno fatte manifestazioni, scritti documenti, comunicati, ecc. .. senza mai mollare!

Iscriviti alla newsletter

Abilita JavaScript nel browser per completare questo modulo.

I più letti

Articoli simili
Correlati

La lotta per la formazione

La formazione è un pilastro dell’attività del P.Carc. Si...

4 novembre in piazza: appello del Calp di Genova

Unire le lotte e le mobilitazioni contro la guerra...

Quando i sionisti attaccano hanno paura della verità

Liliana Segre e la denuncia all'attivista Cecilia Parodi

Manuale di Storia contemporanea

La conoscenza della storia è uno strumento della lotta...