Commentando l’intesa raggiunta con il Governo il 17 gennaio sulla riduzione del cuneo fiscale – che è l’insieme delle tasse sul lavoro dipendente, sia quelle che pagano i datori che quelle che pagano i lavoratori – il Segretario Generale della CGIL Landini ha dichiarato che “la lotta paga”, poiché le trattative hanno prodotto un aumento in busta paga “fino a 100 euro” per 16 milioni di lavoratori dipendenti. “Un risultato storico frutto della mobilitazione del sindacato”, ha sottolineato. Le parole di Landini richiedono alcuni chiarimenti nell’interesse dei 16 milioni di lavoratori che beneficeranno del provvedimento.
Landini canta vittoria, ma di vittoria vera e propria non si tratta. Di questi tempi, qualunque aumento in busta paga è prezioso, ma a conti fatti il taglio del cuneo fiscale produce un aumento massimo di 20 euro al mese per chi ha un reddito compreso fra gli 8 mila e i 28 mila euro annui dato che va a sommarsi agli 80 euro mensili di detrazioni IRPEF già in vigore (il “Bonus Renzi”). 20 euro al mese, in confronto all’aumento del costo della vita, sono briciole, è elemosina.
In secondo luogo, la “lotta promossa dalla CGIL” è stata meno che blanda: tre manifestazioni nazionali (10, 12 e 17 dicembre) indette per la partecipazione dei funzionari e dell’apparato sindacale. Non una manifestazione dei lavoratori, non un’ora di sciopero, non un’assemblea. Più che la lotta, a pagare è stata la campagna elettorale per le elezioni regionali nella quale il PD, complici i vertici dei sindacati di regime, può rivendicare di aver “ridotto le tasse come promesso” e “aver dato più soldi ai lavoratori”.
Si conferma, ancora una volta, un principio cardine della politica delle Larghe Intese di cui Prodi, D’Alema e Bertinotti sono stati maestri: dare 10 e togliere 100. L’elemosina di 20 euro al mese ai lavoratori dipendenti fa il paio con la spremitura dei lavoratori autonomi, delle Partite IVA, degli artigiani, dei piccoli commercianti a cui le tasse rendono la vita impossibile e fa il paio con l’aumento insostenibile del costo della vita.
L’elemosina che deriva dal taglio del cuneo fiscale peserà sul bilancio dello Stato (se e quando entrerà a regime) 3 miliardi di euro nel 2020 e 5 miliardi di euro dal 2021. La spesa, stimata al ribasso, per l’acquisto degli aerei da guerra F35 è di 14 miliardi. Il TAV, la sola tratta TAV Torino-Lione, con stime al ribasso, costerà 8,4 miliardi di euro, mentre se la rete fosse costruita per intero anziché un pezzo alla volta, costerebbe quasi 40 miliardi. Con un calcolo puramente indicativo, poiché è impossibile fargli i conti in tasca, lo Stato italiano versa ogni anno dai 6 ai 9 miliardi di euro al Vaticano in ragione dei Patti Lateranensi (vedi articolo a pag. 8). Le ricostruzioni de Il Sole 24 ore affermano che l’evasione fiscale costa oltre 100 miliardi l’anno (non può trattarsi dell’idraulico, dell’elettricista o del bottegaio che lo Stato perseguita). Al conto non mettiamo i finanziamenti pubblici a padroni e fondi di investimento che decidono di mantenere la produzione di merci in Italia dalla Whirlpool alla FCA alla Arcelor Mittal che poi, puntualmente, chiudono e delocalizzano.
Quindi, i soldi ci sono. Sono tanti e sono tutti nelle tasche di pochi individui: “Il 10% più ricco della popolazione italiana (in termini patrimoniali) possiede oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione. (…) Il patrimonio del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero. La posizione patrimoniale dell’1% più ricco (che detiene il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana. (…) Il patrimonio dei primi tre miliardari italiani della lista Forbes (che a marzo 2019 erano Giovanni Ferrero, Leonardo Del Vecchio e Stefano Pessina) era superiore alla ricchezza netta detenuta (37,8 miliardi di euro a fine giugno 2019) dal 10% più povero della popolazione italiana, circa 6 milioni di persone” – (dati Oxfam, Il Sole 24 ore – 20 gennaio 2020).
Che la lotta paga è una verità più solida delle marchette elettorali del gruppo dirigente della CGIL. Se la lotta per salari più alti la conducono i sindacati di regime bisogna accontentarsi delle briciole e ringraziare che cadano dal tavolino. Se la conducono i lavoratori costringe anche gente come Landini a rincorrerla, fosse anche solo per non perdere la faccia e il ruolo di “capo del sindacato”.
Sono i lavoratori che la devono promuovere, al di là delle sigle sindacali di appartenenza e dell’appartenenza o meno al sindacato, al di là di chi votano alle elezioni o se non votano. Al di là di tutto, solo i lavoratori hanno interesse a lottare, hanno tutto da guadagnare con la lotta e tutto da perdere con gli accordi al ribasso.
Molti lavoratori lo sanno, ma sono scoraggiati perché sembra che debbano partire da zero (e in molti casi, anche se non in tutti, devono anche fare fronte agli ostacoli che proprio i sindacati di regime pongono loro), ma non è così. Ogni lotta particolare, anche se apparentemente isolata e marginale, è legata alle altre: le lotte contro i licenziamenti e le delocalizzazioni sono legate a quelle per la sicurezza sui luoghi di lavoro, quelle per i rinnovi dei contratti nazionali (sono in corso le trattative per quello dei metalmeccanici) sono legate a quelle contro il carovita e tutte rientrano nella diffusa resistenza spontanea al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro e allo smantellamento dei diritti e delle tutele. Tutte, in definitiva, rientrano nella guerra che gli operai e i lavoratori devono combattere contro i loro reali nemici che non sono gli immigrati, i dipendenti pubblici, i musulmani, ecc., ma i padroni.