CdF Rhodiatoce (VCO) – intervista a Carlo Alberganti
Intervista a Carlo Alberganti sul Consiglio di Fabbrica della Rhodiatoce (prima Rhodiaseta e poi dal 1972 Montefibre), fabbrica di fibre tessili artificiali nel Verbano-Cusio-Ossola (VCO).
Ti presenti?
] è rimasto segnato, anche se continuava ad andare a messa la domenica.
Io non ho fatto la scuola di partito ma ho fatto quelli che ora chiamano “stage”: su Gramsci, sulle questioni di lavoro e altro. Quindi, ho lavorato per il partito: sono diventato segretario della FGCI e poi responsabile del lavoro. Ho fatto anche il corrispondente dell’Unità.
In fabbrica, come giovani comunisti militanti, la prima cosa che abbiamo fatto è stato un circolo della federazione giovanile comunista e avevamo creato un giornale operaio della Rhodiatoce: il padrone ci ha vietato di usare quel nome, perché faceva riferimento alla fabbrica. Abbiamo cominciato a lavorare dentro la fabbrica e mettere insieme un gruppo di gente attiva. È stata una cosa importante per il partito.
Nel 1967 sono cominciati nella fabbrica dei movimenti di lotta, c’è stato un risveglio dei lavoratori. Un elemento importante è stata la sindacalizzazione degli impiegati, una generazione di persone che aveva frequentato l’Istituto Cobianchi: quindi non erano solo portatori del lavoro tradizionale operaio, ma erano persone che ne sapevano di più, che avevano studiato. Così, alla Rhodiatoce si è realizzata un’unione nella lotta tra gli operai e gli impiegati, che normalmente non facevano mai sciopero. Invece a partire dal ‘66-’67 hanno cominciato ad avanzare delle richieste di carattere sindacale e già allora tutte le iniziative erano gestite direttamente dagli operai, anche se il sindacato era presente unitariamente, cosa non di poco conto dato che dal 1947 fino a fine anni ‘50 il conflitto tra sindacati era così accanito che era più forte anche del conflitto tra sindacati e padrone.
Ci descrivi la tua azienda: che cosa produceva e quanti operai eravate?
La Rhodiatoce prima si chiamava Rhodiaseta con partecipazione paritaria di Montecatini e della francese Rhone-Poulenc, poi nel ’72 cambiò il nome in Montefibre. Fabbricavamo fibre tessili come il nylon. Eravamo 4.200 operai, poi c’era una rete di lavoratori esterni, circa 1.000 persone.
Come sei entrato nel CdF? Come funzionava e che peso politico aveva? Quali battaglie avete promosso?
La “scintilla” fu nel 1969 perché venne falsamente denunciato il fatto che dei compagni di lavoro si erano picchiati: il padrone colse l’occasione per annunciare una serie di licenziamenti. Partì l’occupazione della fabbrica, prima nel reparto dei diretti interessati e poi in tutti gli altri. Rivendicavamo il diritto di assemblea in fabbrica e facevamo richieste di miglioramento sui carichi di lavoro, sui provvedimenti disciplinari del padrone, sulla parità di categoria tra uomo e donna. Il movimento dei lavoratori non era una risposta difensiva, ma propositiva. Facevamo assemblee permanenti in fabbrica. Due anni prima invece i sindacati avevano bloccato questo slancio, c’era stato uno scontro tra lavoratori e sindacati perché questi ultimi avevano firmato, senza consultare i lavoratori, un accordo che cedeva al ricatto di licenziamenti e aumentava i ritmi di lavoro.
Nacquero quindi nei singoli reparti gruppi di lavoro, legittimati poi da contratti e leggi, sotto il controllo dei lavoratori. So che i CdF nascono negli anni 1919-20 (c’è stata persino una legislazione nel periodo fascista che teneva dentro delle forme di CdF ma sotto il controllo del sindacato). Si erano formati in tutta Europa. All’inizio si erano ispirati ai Soviet. In Olanda c’è stato un teorico che ha fatto uno studio sui CdF. Sono stato in Germania e lì c’erano CdF a gestione statale.
Un altro problema su cui si svilupparono le lotte era quello della salute: già si facevano ricerche sull’ambiente e organizzai l’occupazione della fabbrica di Rumianca a Pieve che produceva cloro-soda e acido solforico. Furono 30 giorni di occupazione e, anche mentre la fabbrica era ferma, dentro c’era una nebbia di sostanze nocive che la gente respirava e molti morivano. In totale sono morte centinaia di persone e solo nel ’77 in 5 o 6 operai. Un compagno del PCI aveva la fissa per l’ambiente e allora portava avanti la lotta per la salute e l’ambiente.
Anche alla Montefibre sono morti in centinaia per tumori ai polmoni per l’amianto: anche se è dal 1908 che sanno che l’amianto è nocivo, solo nel 1994 lo hanno detto.
Che rapporto aveva il CdF con la città e la cittadinanza? E con il PCI?
Durante l’occupazione della fabbrica si è formato un comitato di lotta che ha avuto un ruolo notevole. Era un comitato cittadino formato da operai e studenti che appoggiava la lotta in fabbrica. Ci si trovava tutte le sere, si organizzavano incontri per informare le altre fabbriche sulla lotta in Rhodiatoce, sollecitare la solidarietà attiva e impegnare l’ente locale a mettersi al servizio dei lavoratori.
Si era creata una rete di fabbriche che si confrontavano tra loro sull’andamento delle lotte. Noi e l’Unione Manifatture, che era composta da due fabbriche tessili, una a Trobaso e una a Intra. Poi c’era la Cartiera a Possaccio con più di 500 lavoratori. La Nico, la Nestlè, le Officine Restellini e a Trobaso c’era una fabbrica metalmeccanica di 300 persone, a Ghiffa un’altra tessile di 60/70 operai, mentre alcune come la Cucerini erano già chiuse…. a Omegna la crisi arrivò prima che da noi. In Ossola c’erano la Sisma, la Ceretti, e a Pieve Vergonte altre fabbriche…
Le lotte operaie hanno bisogno di una rete sociale che non è solo lavoratore con lavoratore. Abbiamo fatto 40 giorni di lotta e l’abbiamo vinta. Il sistema di organizzazione rovescia le cose, c’è un’autorità dei lavoratori, non solo a livello della lotta salariale. La battaglia per la riduzione del carico di lavoro è stata importante per i risultati e per come siamo stati in grado di ottenerli. Per farlo devi ragionare, conoscere bene il lavoro, studiare il sistema sui telai, i turni, ragionare sugli scarichi perché oltretutto era una fabbrica con problemi ambientali. È stata una battaglia vincente!
Una cosa che doveva andare meglio? La fabbrica era ferma, invece quando si occupa una fabbrica bisognerebbe farla lavorare, far vedere al padrone e alla gente che puoi far andare avanti la produzione anche senza padrone. Lo sciopero lo fai per danneggiare i padroni, non i lavoratori.
Inoltre, il PCI nel 1969 non è stato una presenza attiva. In quell’anno andai a Roma, c’era un corso sull’esperienza dei delegati e io parlai per il nostro territorio. Poi, sono stato eletto segretario della Camera del Lavoro di Verbania: la lotta era ancora sui carichi di lavoro perché in alcuni reparti non veniva rispettato quello che era stato imposto con le lotte dell’occupazione. L’azienda presentò un piano per la riduzione dei lavoratori. In quel momento non eravamo più all’attacco, eravamo già sulla difesa, era il padrone che aveva il coltello dalla parte del manico. Negli anni ’70 cominciarono le crisi industriali, in VCO perdemmo 7.000 posti di lavoro e quando non vinci, la gente non ti segue più.
Nel ’70 c’è stata una seconda ondata di mobilitazioni e il PCI ha dato solidarietà, ma io ero già in crisi con il Partito comunista. Nel 1970 nacque il Manifesto e io passai al Manifesto a Verbania. Anche mia moglie, che era nel comitato del PCI, passò al Manifesto e per questo fu radiata: io no, perché in quel momento ero latitante.
Pensando alla tua storia come hai vissuto la repressione e la solidarietà espressa dai compagni?
Quando occupammo la fabbrica, scattò la repressione della polizia: avevamo fatto dei cortei, avevamo bloccato treni, battelli… e la solidarietà da parte della gente è aumentata, perché capivano che era una risorsa per tutti. La polizia ha quindi emesso cinque mandati di cattura: per me e Tartaro, che era il leader della fabbrica, per altri due delegati aziendali e per uno che invece non c’entrava niente. Tartaro era a Roma in quel momento, per cui la polizia si presentò al ministero dove c’era il ministro democristiano Donat-Cattin, che rispose che “al ministero non si arresta nessuno” e lo coprì. A me arrivò ad avvertirmi mia moglie: “guarda che vengono a prendere anche te”. Feci sette mesi di latitanza: sono stato in Valle Strona, nella valle sopra Omegna, poi a Novara, a Milano e poi a Bologna alla Camera del Lavoro. Ci fu un processo a 49 persone e fummo condannati in Cassazione. A Capodanno venne organizzata una manifestazione davanti al carcere molto partecipata. Sono venute al carcere di Verbania a dare solidarietà anche personalità, come Gian Maria Volontè che stava girando un film a Novara.
Come pensi che si possa portare ai lavoratori di oggi l’esperienza dei CdF?
Oggi siamo in difesa: nel momento in cui un’azienda vuole chiudere, tu sei già in difesa. Oggi non c’è più la lotta, non è più un elemento sociale. Quelli di Mercatone Uno sono andati fino a Roma e cosa hanno ottenuto? La cassa integrazione. Io vedo che oggi bisogna comunque fare tutto quello che si sta facendo. Ma serve chiederci cosa è mancato per cui alla fine il modello del socialismo non è stato capace di essere più attrattivo del sistema capitalista. Oggi la gente odia la sinistra, mentre allora ci amavano, perché allora i lavoratori maturati con le lotte hanno acquisito la consapevolezza della propria forza e del proprio ruolo nella società.
”.