Intervista a Carlo Alberganti sul Consiglio di Fabbrica della Rhodiatoce (prima Rhodiaseta e poi dal 1972 Montefibre), fabbrica di fibre tessili artificiali nel Verbano-Cusio-Ossola (VCO).
Ti presenti?
Sono nato quasi 80 anni fa, ho fatto la quinta elementare e poi sono andato a lavorare nei bar, un lavoro che mi piaceva e, dopo altre esperienze lavorative, sono entrato alla Rhodiatoce dal 2 luglio 1960, data importante perché ci fu lo sciopero generale [contro il governo del democristiano Tambroni, sostenuto apertamente dal MSI, il partito fascista fondato e diretto da Amirante reduce dalla Repubblica di Salò. A partire da Genova si estese a tutto il paese un moto di ribellione che spaventò il Vaticano e il resto della classe dominante, tanto da indurli ad abbandonare Tambroni al suo destino e a formare, per placare gli animi, il governo Fanfani, il primo sostenuto apertamente dal PSI di Nenni e sottobanco dal PCI di Togliatti – ndr].
La politica mi ha conquistato fin da bambino perché una signora anziana che abitava vicino a casa, e che io chiamavo nonna, mi faceva sempre racconti antifascisti. Il marito era un vecchio socialista a cui i fascisti avevano dato l’olio di ricino e che spesso portavano in carcere. I due fratelli di mia mamma erano uno comunista e l’altro socialista. Dopo la marcia su Roma [il 27 e 28 ottobre del 1922-ndr], quando gli squadristi hanno tentato di bruciare il circolo di Fondotoce (VB), loro erano lì. Sono stati avvisati da un loro cugino che era fascista: “guardate che stasera vengono al circolo”. Poi sono andati a finire in Tanzania (allora Tanganica). Quando loro sono andati in Africa, mia mamma per intere sere ha bruciato libri e volantini perché eravamo in pieno fascismo. Il padre di mia mamma è uno dei 28 che si è salvato a Macallè, in Etiopia. Era anarchico, era iscritto all’associazione anarchica che aveva appoggiato Bresci quando ha ammazzato re Umberto I [il 29 luglio del 1900-ndr]. Mio papà era cattolico, un operaio privo di istruzione: aveva fatto per 27 anni il panettiere e poi era finito in fabbrica per altri 25 anni. Era una persona umile, per bene. Nel 1942 si era iscritto al partito socialista a Pallanza: lui non mi aveva mai detto che era iscritto, però aveva fatto sciopero nel ’48. Faceva parte della confraternita perché allora era così: andavi in chiesa ma eri socialista. Quando il Papa ha fatto la bolla che scomunicava i comunisti e i socialisti [si tratta del decreto della Congregazione del Sant’Uffizio, pubblicato il 1° luglio 1949 con l’approvazione di Pio XII, che dichiarava illecita l’iscrizione al PCI nonché ogni forma di sostegno e passibile di scomunica chi professava la dottrina comunista. Il decreto venne reso pubblico nelle parrocchie di tutta Italia con manifesti che recitavano: “Fa peccato grave e non può essere assolto chi è iscritto al PCI, chi ne fa propaganda in qualsiasi modo, chi vota per esso e i suoi candidati, chi scrive, legge e diffonde la stampa comunista, chi rimane nelle organizzazioni comuniste: Camera del Lavoro, Federterra, Fronte della Gioventù, CGIL, UDI…” – ndr] è rimasto segnato, anche se continuava ad andare a messa la domenica.
A quanti anni sei entrato in fabbrica? Che mansioni avevi e che contesto c’era intorno a te?
Avevo 19 anni quando il 2 luglio del 1960 sono entrato in fabbrica, alla Rhodiatoce, una consociata della Montedison a Pallanza-Verbania, e subito dopo c’è stato lo sciopero generale. Mi sono subito iscritto alla CGIL e sempre in quell’anno, siccome avevo un amico che faceva il portiere ed era il segretario dei giovani comunisti, ci siamo messi a discutere e alla fine mi sono iscritto alla FGCI: quando sono entrato in fabbrica avevo già la tessera dei giovani comunisti. Nel 1963 il segretario della federazione del PCI mi ha chiesto se volevo andare a lavorare come funzionario del partito e ho accettato. Facevamo il tesseramento e, alle molte persone che abitavano a Pallanza, la domenica andavamo a diffondere il giornale: c’era una comunicazione e una trasmissione molto elementare che però funzionava. Mi interessava il tema del lavoro e sentivo il fascino di un’organizzazione che aveva al suo interno a diversi gradi un’intellighenzia notevole. Il PCI era come la giraffa, aveva una testa così alta… come fa la giraffa a sostenersi su un collo così alto e fine? Il PCI era così: aveva una struttura organizzativa e culturale molto alta; le sezioni del partito erano piene di libri e c’erano le scuole di partito, si andava fino in Unione Sovietica. E c’era un sostegno solido tra la gente, fino all’ultimo della scala.
Io non ho fatto la scuola di partito ma ho fatto quelli che ora chiamano “stage”: su Gramsci, sulle questioni di lavoro e altro. Quindi, ho lavorato per il partito: sono diventato segretario della FGCI e poi responsabile del lavoro. Ho fatto anche il corrispondente dell’Unità.
In fabbrica, come giovani comunisti militanti, la prima cosa che abbiamo fatto è stato un circolo della federazione giovanile comunista e avevamo creato un giornale operaio della Rhodiatoce: il padrone ci ha vietato di usare quel nome, perché faceva riferimento alla fabbrica. Abbiamo cominciato a lavorare dentro la fabbrica e mettere insieme un gruppo di gente attiva. È stata una cosa importante per il partito.
Nel 1967 sono cominciati nella fabbrica dei movimenti di lotta, c’è stato un risveglio dei lavoratori. Un elemento importante è stata la sindacalizzazione degli impiegati, una generazione di persone che aveva frequentato l’Istituto Cobianchi: quindi non erano solo portatori del lavoro tradizionale operaio, ma erano persone che ne sapevano di più, che avevano studiato. Così, alla Rhodiatoce si è realizzata un’unione nella lotta tra gli operai e gli impiegati, che normalmente non facevano mai sciopero. Invece a partire dal ‘66-’67 hanno cominciato ad avanzare delle richieste di carattere sindacale e già allora tutte le iniziative erano gestite direttamente dagli operai, anche se il sindacato era presente unitariamente, cosa non di poco conto dato che dal 1947 fino a fine anni ‘50 il conflitto tra sindacati era così accanito che era più forte anche del conflitto tra sindacati e padrone.
Ci descrivi la tua azienda: che cosa produceva e quanti operai eravate?
La Rhodiatoce prima si chiamava Rhodiaseta con partecipazione paritaria di Montecatini e della francese Rhone-Poulenc, poi nel ’72 cambiò il nome in Montefibre. Fabbricavamo fibre tessili come il nylon. Eravamo 4.200 operai, poi c’era una rete di lavoratori esterni, circa 1.000 persone.
Come sei entrato nel CdF? Come funzionava e che peso politico aveva? Quali battaglie avete promosso?
La “scintilla” fu nel 1969 perché venne falsamente denunciato il fatto che dei compagni di lavoro si erano picchiati: il padrone colse l’occasione per annunciare una serie di licenziamenti. Partì l’occupazione della fabbrica, prima nel reparto dei diretti interessati e poi in tutti gli altri. Rivendicavamo il diritto di assemblea in fabbrica e facevamo richieste di miglioramento sui carichi di lavoro, sui provvedimenti disciplinari del padrone, sulla parità di categoria tra uomo e donna. Il movimento dei lavoratori non era una risposta difensiva, ma propositiva. Facevamo assemblee permanenti in fabbrica. Due anni prima invece i sindacati avevano bloccato questo slancio, c’era stato uno scontro tra lavoratori e sindacati perché questi ultimi avevano firmato, senza consultare i lavoratori, un accordo che cedeva al ricatto di licenziamenti e aumentava i ritmi di lavoro.
Nacquero quindi nei singoli reparti gruppi di lavoro, legittimati poi da contratti e leggi, sotto il controllo dei lavoratori. So che i CdF nascono negli anni 1919-20 (c’è stata persino una legislazione nel periodo fascista che teneva dentro delle forme di CdF ma sotto il controllo del sindacato). Si erano formati in tutta Europa. All’inizio si erano ispirati ai Soviet. In Olanda c’è stato un teorico che ha fatto uno studio sui CdF. Sono stato in Germania e lì c’erano CdF a gestione statale.
Un altro problema su cui si svilupparono le lotte era quello della salute: già si facevano ricerche sull’ambiente e organizzai l’occupazione della fabbrica di Rumianca a Pieve che produceva cloro-soda e acido solforico. Furono 30 giorni di occupazione e, anche mentre la fabbrica era ferma, dentro c’era una nebbia di sostanze nocive che la gente respirava e molti morivano. In totale sono morte centinaia di persone e solo nel ’77 in 5 o 6 operai. Un compagno del PCI aveva la fissa per l’ambiente e allora portava avanti la lotta per la salute e l’ambiente.
Anche alla Montefibre sono morti in centinaia per tumori ai polmoni per l’amianto: anche se è dal 1908 che sanno che l’amianto è nocivo, solo nel 1994 lo hanno detto.
Che rapporto aveva il CdF con la città e la cittadinanza? E con il PCI?
Durante l’occupazione della fabbrica si è formato un comitato di lotta che ha avuto un ruolo notevole. Era un comitato cittadino formato da operai e studenti che appoggiava la lotta in fabbrica. Ci si trovava tutte le sere, si organizzavano incontri per informare le altre fabbriche sulla lotta in Rhodiatoce, sollecitare la solidarietà attiva e impegnare l’ente locale a mettersi al servizio dei lavoratori.
Si era creata una rete di fabbriche che si confrontavano tra loro sull’andamento delle lotte. Noi e l’Unione Manifatture, che era composta da due fabbriche tessili, una a Trobaso e una a Intra. Poi c’era la Cartiera a Possaccio con più di 500 lavoratori. La Nico, la Nestlè, le Officine Restellini e a Trobaso c’era una fabbrica metalmeccanica di 300 persone, a Ghiffa un’altra tessile di 60/70 operai, mentre alcune come la Cucerini erano già chiuse…. a Omegna la crisi arrivò prima che da noi. In Ossola c’erano la Sisma, la Ceretti, e a Pieve Vergonte altre fabbriche…
La lotta era quindi dentro e fuori dalla fabbrica e ci siamo mossi affinché la città rispondesse alla lotta dei lavoratori e li sostenesse. C’erano anche due preti, tra cui Don Giuseppe Masseroni, e sono venute anche personalità di rilievo per vedere come funzionava il sistema dei CdF da noi: leader di Lotta Continua, del Manifesto, di Azione Proletaria. C’era sicuramente un aspetto culturale, ma quello politico era il più significativo, perché così facendo abbiamo costruito un’organizzazione capillare e capacità organizzativa: si sperimentarono i Consigli di Zona; la presenza delle donne era notevole e la loro azione all’interno della fabbrica avveniva in modo autonomo, erano combattive; con le vertenze avevamo ottenuto che le aziende pagassero dei soldi per gli asili nido di quartiere.
Le lotte operaie hanno bisogno di una rete sociale che non è solo lavoratore con lavoratore. Abbiamo fatto 40 giorni di lotta e l’abbiamo vinta. Il sistema di organizzazione rovescia le cose, c’è un’autorità dei lavoratori, non solo a livello della lotta salariale. La battaglia per la riduzione del carico di lavoro è stata importante per i risultati e per come siamo stati in grado di ottenerli. Per farlo devi ragionare, conoscere bene il lavoro, studiare il sistema sui telai, i turni, ragionare sugli scarichi perché oltretutto era una fabbrica con problemi ambientali. È stata una battaglia vincente!
Una cosa che doveva andare meglio? La fabbrica era ferma, invece quando si occupa una fabbrica bisognerebbe farla lavorare, far vedere al padrone e alla gente che puoi far andare avanti la produzione anche senza padrone. Lo sciopero lo fai per danneggiare i padroni, non i lavoratori.
Inoltre, il PCI nel 1969 non è stato una presenza attiva. In quell’anno andai a Roma, c’era un corso sull’esperienza dei delegati e io parlai per il nostro territorio. Poi, sono stato eletto segretario della Camera del Lavoro di Verbania: la lotta era ancora sui carichi di lavoro perché in alcuni reparti non veniva rispettato quello che era stato imposto con le lotte dell’occupazione. L’azienda presentò un piano per la riduzione dei lavoratori. In quel momento non eravamo più all’attacco, eravamo già sulla difesa, era il padrone che aveva il coltello dalla parte del manico. Negli anni ’70 cominciarono le crisi industriali, in VCO perdemmo 7.000 posti di lavoro e quando non vinci, la gente non ti segue più.
Nel ’70 c’è stata una seconda ondata di mobilitazioni e il PCI ha dato solidarietà, ma io ero già in crisi con il Partito comunista. Nel 1970 nacque il Manifesto e io passai al Manifesto a Verbania. Anche mia moglie, che era nel comitato del PCI, passò al Manifesto e per questo fu radiata: io no, perché in quel momento ero latitante.
Pensando alla tua storia come hai vissuto la repressione e la solidarietà espressa dai compagni?
Quando occupammo la fabbrica, scattò la repressione della polizia: avevamo fatto dei cortei, avevamo bloccato treni, battelli… e la solidarietà da parte della gente è aumentata, perché capivano che era una risorsa per tutti. La polizia ha quindi emesso cinque mandati di cattura: per me e Tartaro, che era il leader della fabbrica, per altri due delegati aziendali e per uno che invece non c’entrava niente. Tartaro era a Roma in quel momento, per cui la polizia si presentò al ministero dove c’era il ministro democristiano Donat-Cattin, che rispose che “al ministero non si arresta nessuno” e lo coprì. A me arrivò ad avvertirmi mia moglie: “guarda che vengono a prendere anche te”. Feci sette mesi di latitanza: sono stato in Valle Strona, nella valle sopra Omegna, poi a Novara, a Milano e poi a Bologna alla Camera del Lavoro. Ci fu un processo a 49 persone e fummo condannati in Cassazione. A Capodanno venne organizzata una manifestazione davanti al carcere molto partecipata. Sono venute al carcere di Verbania a dare solidarietà anche personalità, come Gian Maria Volontè che stava girando un film a Novara.
Come pensi che si possa portare ai lavoratori di oggi l’esperienza dei CdF?
Oggi siamo in difesa: nel momento in cui un’azienda vuole chiudere, tu sei già in difesa. Oggi non c’è più la lotta, non è più un elemento sociale. Quelli di Mercatone Uno sono andati fino a Roma e cosa hanno ottenuto? La cassa integrazione. Io vedo che oggi bisogna comunque fare tutto quello che si sta facendo. Ma serve chiederci cosa è mancato per cui alla fine il modello del socialismo non è stato capace di essere più attrattivo del sistema capitalista. Oggi la gente odia la sinistra, mentre allora ci amavano, perché allora i lavoratori maturati con le lotte hanno acquisito la consapevolezza della propria forza e del proprio ruolo nella società.
Chiudiamo questa intervista con lo stralcio di un articolo che Carlo Alberganti ci ha fatto avere e da lui scritto nel ’69.“Tutto questo lavoro si tenta di portarlo avanti non in termini solidaristici, ma di stimolo alla lotta. In numerosi volantini diretti ai lavoratori e agli studenti, nelle numerose riunioni si tende a mettere in risalto che il modo migliore per contribuire alla lotta della Rhodia è quello di costruire e far avanzare la lotta nelle rispettive fabbriche e nelle rispettive scuole, partendo dai problemi reali della condizione operaia e dal disagio dello studente nella scuola; ed è quello di prendere coscienza che solo la lotta modifica la realtà operaia e del significato che assume alla Rhodia lo scontro di classe in corso. Questo avendo coscienza dell’importanza decisiva della lotta che si combatte, che oltre al suo valore sindacale, rappresenta un momento di lotta politica importante della classe operaia contro lo sviluppo capitalistico.
I contenuti rivendicativi, il tipo di lotta, l’articolazione politica degli strumenti di azione, frutto dell’elaborazione e partecipazione operaia, hanno rappresentato alla Rhodia un “modo nuovo” di rispondere al padronato; dall’attacco della direzione si è passati alla controffensiva costringendo uno dei monopoli decisivi dell’economia italiana a subire il terreno di lotta scelto dai lavoratori”.