CdF Mollificio e Alfa Acciai (BS) – intervista ad Alberto Cavedo

In questa intervista Alberto Cavedo illustra la sua esperienza nei Consigli di Fabbrica prima al Mollificio Bresciano di San Felice del Benaco sul Lago di Garda (azienda chiusa nel 2004) e poi, dal 1977, all’Alfa Acciai, grossa azienda siderurgica tuttora presente nella città di Brescia.

Partiamo dal 1973 e dalle tue prime esperienze lavorative, sindacali e politiche…

A quel tempo esistevano i Consigli di Zona, ci vedevamo anche al di fuori della fabbrica. Nel Consiglio di Zona si parlava non solo dei problemi della fabbrica, ma anche di quelli del territorio. Si discuteva di scuola, casa, ambiente, ecc. Ed era un organismo derivato dai CdF. C’erano i consigli di fabbrica, di zona, provinciale, regionale, nazionale. Io sono cresciuto di più nei Consigli di Zona e nel sindacato, il PCI è arrivato dopo: ero già iscritto da giovane, ma la maturazione è arrivata anni dopo. I più vecchi portavano la loro esperienza, io ascoltavo, si discuteva di tutto.

Puoi farci un esempio di cosa faceva il CdF fuori dalla fabbrica?

All’inizio era solo per i lavoratori interni al Mollifico, poi l’abbiamo aperta anche agli esterni, l’importante era che fossero lavoratori. Quella è stata un’esperienza bellissima, nata dopo mesi e mesi di discussione… ci vedevamo anche dopo il lavoro, in una piccola locanda a Raffa di Puegnago che ci aveva dato il permesso di riunirci lì.

Come funzionava il CdF?

C’erano i cosiddetti “gruppi omogenei”: gruppi di reparto in cui il candidato era eletto a scheda bianca. Una cosa fantastica, non come adesso.

Io ero ancora molto giovane, ma mi ricordo che gran parte delle assemblee le indicevano quei due delegati, i due ex partigiani, e che la FIOM era il sindacato più grande e forte nella zona. Però grossi problemi in fabbrica non ce n’erano, perché c’era un forte movimento operaio, sindacale e poi il padrone, essendo del paese, non voleva creare dissapori. Pensa che, se facevamo sciopero, durava 8 ore al massimo.

Com’era il rapporto con il PCI?

Quando hai cominciato a lavorare all’Alfa Acciai di Brescia?

Nel dicembre del 1977, ma già prima avevo avuto un’esperienza con quella fabbrica. Anni prima avevo visto l’occupazione della fabbrica, stavo facendo il servizio militare ed eravamo stati mandati a presidiarla, mi ricordo che contavo i giorni di occupazione “con la stecca” [il foglio in cui si spuntavano i giorni che mancavano al congedo -ndr]. Mi rimase impressa, anche se non ricordo bene perché c’era quella vertenza.

Quindi a volte il sindacato si opponeva, voleva arginare questo fermento…

All’Alfa c’erano 880 operai, di cui 600 iscritti alla FIOM, 40 alla UIL, 90 alla FIM, e la sezione del PCI contava 75 tessere. La sezione l’abbiamo fondata nel 1985, l’anno dopo la manifestazione per la scala mobile [contro il “decreto di S. Valentino” con cui nel 1984 il governo Craxi sterilizza la scala mobile e lancia l’attacco alle conquiste e ai diritti strappati dalle masse popolari negli anni precedenti-ndr]. Proprio la data di quella mobilitazione ci ispirò per il nome della sezione:“24 marzo Alfa Acciai”.

Quali erano i principali problemi che affrontavate?

Essendo una fabbrica siderurgica con le emissioni, è normale che inquini e quindi dovevamo per forza intervenire. La fabbrica era, ed è ancora oggi, in una zona residenziale di Brescia e alcuni abitanti vennero direttamente a parlare con noi operai. Noi non ci siamo tirati indietro anche perché eravamo i primi a non voler inquinare, ne abbiamo parlato con i cittadini, anche scontrandoci a volte perché alcuni di loro volevano che la fabbrica chiudesse. Intervenne anche la ASL, abbiamo chiesto e ricevuto una mano da diversi medici professionisti, uno in particolare che veniva da Medicina Democratica ci ha aiutato molto.

Oltre che organismi di lotta sindacale, secondo te i CdF potevano essere strumenti per il cambiamento rivoluzionario della società, partendo dal ruolo attivo della classe operaia?

[negli anni ’70 FIOM, FIM e UILM erano unificate sotto questa sigla-ndr] era come una quarta confederazione sindacale, che quando voleva poteva organizzare uno sciopero. Questo dava fastidio, soprattutto alle altre confederazioni, e secondo me il colpo di grazia ai CdF l’hanno dato loro. Forse perché i CdF erano organismi troppo indipendenti e questo non andava bene, mentre su quelli poco indipendenti ci hanno giocato. Inoltre una volta ci si ribellava anche ai dirigenti sindacali, ora non è più così.

I CdF furono una svolta radicale, erano praticamente i Soviet! Qualcuno ha lavorato per fermare questo movimento, ma abbiamo provato in tutti i modi a cambiare la società: dentro la fabbrica, fuori dalla fabbrica, manifestazioni, cortei, ecc. Forse si aveva paura di fare appunto il balzo in più. Probabilmente non siamo stati capaci di gestire questo movimento anche fuori dai cancelli: in fabbrica eravamo forti, ma fuori lo eravamo molto di meno.

In conclusione, se tu dovessi dire che fare ora …

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