In questa intervista Alberto Cavedo illustra la sua esperienza nei Consigli di Fabbrica prima al Mollificio Bresciano di San Felice del Benaco sul Lago di Garda (azienda chiusa nel 2004) e poi, dal 1977, all’Alfa Acciai, grossa azienda siderurgica tuttora presente nella città di Brescia.
Partiamo dal 1973 e dalle tue prime esperienze lavorative, sindacali e politiche…
A quei tempi ero stato assunto al Mollifico Bresciano, è lì che ho iniziato la mia attività quando non avevo ancora 18 anni. Eravamo in 400 operai circa e si producevano le balestre per i camion, le molle e le barre stabilizzatrici per le macchine… lavoravamo quindi anche per altre aziende, come la FIAT. Ho iniziato a conoscere il movimento operaio, la fabbrica, i lavoratori, cosa vuol dire fare o non fare uno sciopero, ma la mia maturazione parte dalla strage di Piazza della Loggia, la strage fascista, nel 1974. Arrivarono i compagni da Brescia e venne organizzata un’assemblea in fabbrica con l’idea di occupare. Era la prima volta nella mia vita che sentivo la parola assemblea e occupazione di una fabbrica. È stata un’esperienza forte, che mi fece maturare nell’atteggiamento verso il sindacato, verso il PCI e verso gli altri lavoratori. Alle successive elezioni del Consiglio di Fabbrica mi candidai e venni eletto. Avevo 19 anni e trovarmi a parlare con degli operai che erano stati anche partigiani per me era come toccare il cielo. Me ne ricordo due in particolare, uno socialista e l’altro comunista, che erano i “capofabbrica”, entrambi della FIOM. Uno di loro era “storico” della fabbrica, l’altro invece proveniva dalla Breda di Sesto San Giovanni e ha portato un po’ di innovazione, perché prima neanche si sapeva cos’erano le lotte. Questi due mi hanno anche aiutato a diventare delegato.
A quel tempo esistevano i Consigli di Zona, ci vedevamo anche al di fuori della fabbrica. Nel Consiglio di Zona si parlava non solo dei problemi della fabbrica, ma anche di quelli del territorio. Si discuteva di scuola, casa, ambiente, ecc. Ed era un organismo derivato dai CdF. C’erano i consigli di fabbrica, di zona, provinciale, regionale, nazionale. Io sono cresciuto di più nei Consigli di Zona e nel sindacato, il PCI è arrivato dopo: ero già iscritto da giovane, ma la maturazione è arrivata anni dopo. I più vecchi portavano la loro esperienza, io ascoltavo, si discuteva di tutto.
Puoi farci un esempio di cosa faceva il CdF fuori dalla fabbrica?
Certo. San Felice è una zona turistica e quando andavi a fare la spesa non c’era il cartellino di residente (per avere lo sconto), il prezzo era lo stesso per tutti. Si è aperta una grande discussione fra di noi nel CdF e abbiamo creato una cooperativa di consumo, la “Cooperativa Lavoratori Bresciana”, dove comperavi all’ingrosso scatolame, pasta, ecc. I lavoratori si prenotavano e si faceva la spesa collettivamente. Abbiamo fatto anche questo. All’inizio era solo per i lavoratori interni al Mollifico, poi l’abbiamo aperta anche agli esterni, l’importante era che fossero lavoratori. Quella è stata un’esperienza bellissima, nata dopo mesi e mesi di discussione… ci vedevamo anche dopo il lavoro, in una piccola locanda a Raffa di Puegnago che ci aveva dato il permesso di riunirci lì.
Come funzionava il CdF?
C’erano i cosiddetti “gruppi omogenei”: gruppi di reparto in cui il candidato era eletto a scheda bianca. Una cosa fantastica, non come adesso.
Io ero ancora molto giovane, ma mi ricordo che gran parte delle assemblee le indicevano quei due delegati, i due ex partigiani, e che la FIOM era il sindacato più grande e forte nella zona. Però grossi problemi in fabbrica non ce n’erano, perché c’era un forte movimento operaio, sindacale e poi il padrone, essendo del paese, non voleva creare dissapori. Pensa che, se facevamo sciopero, durava 8 ore al massimo.
Com’era il rapporto con il PCI?
Il PCI c’era ma eravamo in pochi: molti giovani, una compagna che aveva fatto l’università, mi ricordo, ci aiutò riguardo alcune questioni politiche e culturali. Ci consigliava dei libri e ci ha spronato a vendere l’Unità di domenica, spiegandoci l’importanza di tale gesto. Ha insegnato a dei giovanotti che ancora non sapevano niente! A volte ci dava compiti da fare tipo “leggete questo passo di Lenin”… Di fatto io ero il rappresentante del PCI nella fabbrica. Ogni paesino, compreso il nostro, aveva una sezione, solo che noi non eravamo in tanti.
Quando hai cominciato a lavorare all’Alfa Acciai di Brescia?
Nel dicembre del 1977, ma già prima avevo avuto un’esperienza con quella fabbrica. Anni prima avevo visto l’occupazione della fabbrica, stavo facendo il servizio militare ed eravamo stati mandati a presidiarla, mi ricordo che contavo i giorni di occupazione “con la stecca” [il foglio in cui si spuntavano i giorni che mancavano al congedo -ndr]. Mi rimase impressa, anche se non ricordo bene perché c’era quella vertenza.
All’Alfa Acciai lavoravano quasi 900 operai. Quegli anni mi hanno molto formato perché quelli eletti nel CdF alla fine erano i più combattivi, erano i compagni. Noi “giovanotti” entrammo nel CdF e portammo una ventata nuova, un nuovo gruppo dirigente. Abbiamo dovuto lottare un pochino per avere voce in capitolo nelle decisioni finali. Vorrei sottolineare una cosa: ogni accordo e discussione con l’azienda passava dall’assemblea dei lavoratori e dal suo voto. Il nostro concetto di maggioranza non era “54% a favore: approvato!”; se la decisione non superava il 74% dei voti dicevamo all’azienda che l’accordo non passava, perché una parte dei lavoratori non era d’accordo. Invece a volte i sindacati venivano a fare le assemblee e provavano a far passare cose insensate e si mettevano di traverso.
Quindi a volte il sindacato si opponeva, voleva arginare questo fermento…
Sì, anche perché alcuni di noi nel CdF avevamo deciso di fondare una sezione del PCI e nella rappresentanza sindacale eravamo anche tutti compagni e giovani portatori di aria nuova… Questa è stata la nostra forza, avevamo un delegato per ogni reparto. C’erano lavoratori che non erano rappresentanti, ma erano militanti, facevano proselitismo. All’Alfa c’erano 880 operai, di cui 600 iscritti alla FIOM, 40 alla UIL, 90 alla FIM, e la sezione del PCI contava 75 tessere. La sezione l’abbiamo fondata nel 1985, l’anno dopo la manifestazione per la scala mobile [contro il “decreto di S. Valentino” con cui nel 1984 il governo Craxi sterilizza la scala mobile e lancia l’attacco alle conquiste e ai diritti strappati dalle masse popolari negli anni precedenti-ndr]. Proprio la data di quella mobilitazione ci ispirò per il nome della sezione:“24 marzo Alfa Acciai”.
Quali erano i principali problemi che affrontavate?
Le rivendicazioni sono sempre state per il salario, ma ci fu anche una grande lotta per l’ambiente nel 1985. Essendo una fabbrica siderurgica con le emissioni, è normale che inquini e quindi dovevamo per forza intervenire. La fabbrica era, ed è ancora oggi, in una zona residenziale di Brescia e alcuni abitanti vennero direttamente a parlare con noi operai. Noi non ci siamo tirati indietro anche perché eravamo i primi a non voler inquinare, ne abbiamo parlato con i cittadini, anche scontrandoci a volte perché alcuni di loro volevano che la fabbrica chiudesse. Intervenne anche la ASL, abbiamo chiesto e ricevuto una mano da diversi medici professionisti, uno in particolare che veniva da Medicina Democratica ci ha aiutato molto.
Infine è intervenuta la Magistratura sequestrando la fabbrica. Questo ha aumentato il livello della mobilitazione, anche perché la direzione diceva che i comunisti volevano far chiudere l’azienda… ma non era così! I comunisti nel ’44-45 hanno difeso le fabbriche col fucile! Abbiamo lottato anche contro cittadini che dicevano che bisognava chiudere la fabbrica, abbiamo fatto centinaia di assemblee d’azienda per non rimanere indietro nella lotta. Voglio sottolineare una cosa: quando arriva il carabiniere mandato dal giudice che ti dice che deve sequestrare la fabbrica, la prima cosa che dici come lavoratore è che non è possibile, che hai bisogno di lavorare. Quindi c’era una tendenza nel sindacato a dire di lavorare anche se questo significava inquinare… E invece no! Noi dicevamo che la fabbrica doveva essere modernizzata al più presto, che il padrone doveva investire per affrontare il problema dell’inquinamento. Nessun lavoratore ha mai contraddetto questa linea, gli operai avevano fiducia in noi e nel nostro operato.
Il piano successivamente formulato dall’azienda è stato sottoposto al nostro controllo e finché non ha rispettato i nostri parametri prestabiliti il piano è stato bocciato. Alla fine il giudice ci ha proposto un piano con la soluzione del problema, noi l’abbiamo accettato e i sigilli alla fabbrica sono stati tolti, non senza tentativi di boicottaggio da parte della direzione.
Oltre che organismi di lotta sindacale, secondo te i CdF potevano essere strumenti per il cambiamento rivoluzionario della società, partendo dal ruolo attivo della classe operaia?
Sicuramente non si parlava solo di rivendicazioni, anzi nel CdF si parlava della società, dei suoi problemi e della necessità di cambiarla. I CdF si può dire che sono nati proprio per questo! Volevamo cambiare la società, ma non ci siamo riusciti. Perché? Appena dopo che me ne ero andato dall’Alfa, chiamai un mio compagno per farmi raccontare un po’ la situazione. Mi disse: “Da quando sei andato via, in fabbrica non si parla più di politica”. Secondo me abbiamo fallito perché sono riusciti a eliminare gli elementi più avanzati, a togliere il carattere politico dei CdF. La Federazione Lavoratori Metalmeccanici [negli anni ’70 FIOM, FIM e UILM erano unificate sotto questa sigla-ndr] era come una quarta confederazione sindacale, che quando voleva poteva organizzare uno sciopero. Questo dava fastidio, soprattutto alle altre confederazioni, e secondo me il colpo di grazia ai CdF l’hanno dato loro. Forse perché i CdF erano organismi troppo indipendenti e questo non andava bene, mentre su quelli poco indipendenti ci hanno giocato. Inoltre una volta ci si ribellava anche ai dirigenti sindacali, ora non è più così.
I CdF furono una svolta radicale, erano praticamente i Soviet! Qualcuno ha lavorato per fermare questo movimento, ma abbiamo provato in tutti i modi a cambiare la società: dentro la fabbrica, fuori dalla fabbrica, manifestazioni, cortei, ecc. Forse si aveva paura di fare appunto il balzo in più. Probabilmente non siamo stati capaci di gestire questo movimento anche fuori dai cancelli: in fabbrica eravamo forti, ma fuori lo eravamo molto di meno.
In conclusione, se tu dovessi dire che fare ora …
Per prima cosa non lottare fra di noi comunisti, il nostro nemico principale sono il capitalismo e il padrone! La questione principale è mettere al centro il lavoro, l’articolo 1 della Costituzione. Oggi bisogna partire dal lavoro, punto. Dovremmo tornare a essere un sindacato rivendicativo, dobbiamo continuare a chiedere: è così che si conquistano i lavoratori, chiedendo ciò che manca. Bisogna aver coraggio e non paura di combattere. C’è bisogno di un partito comunista forte e di un sindacato di classe, questa è la strada e dobbiamo anche fare passi indietro nel senso di riportare a noi la classe operaia. A tal proposito vorrei concludere con il frammento di una memoria che ho scritto tempo fa e che avevo letto a una vecchia festa del PCI. L’ho intitolata “Che cos’è la fabbrica?”.
“La fabbrica funziona come un insieme di memorie, come un luogo di accumulazione dell’esperienza collettiva che altrimenti si smarrirebbe tra i rivoli dell’esperienza individuale, potenzia i momenti di un’autobiografia collettiva che ha senso quando ritrova i propri luoghi di radicamento, caricandosi di connotati affettivi di appartenenza. Nella fabbrica non agiscono semplici ragioni sociali (le aziende, le fabbriche ecc.), marchi di un solo valore commerciale, ma esperienze vissute e pezzi di storia, vicende trascorse. Per esempio: la prima prova d’orgoglio davanti al capo, il primo sciopero e la dignità ritrovata, la catena dei conflitti e poi la lotta politica.
Una lettura esclusivamente aziendale ed economicista ci ha abituati a vedere nel posto di lavoro una neutra unità produttiva, un punto di vista dell’assemblaggio in vista della produzione, un pezzo del mercato del lavoro privo di ogni caratteristica esistenziale e nello stesso modo una prassi sindacale economicista ci ha fatto credere che un luogo valesse l’altro, che ogni posto di lavoro possa essere sostituito per maggior profitto secondo la legge del mercato, che il dove e come fosse prodotto non contasse nulla… Non è così. Il lavoro in primo luogo ha la sua dignità. È vero che le esistenze sono individuali, ma esiste anche una dimensione collettiva all’interno della fabbrica la cui rottura provoca lacerazione. Per ogni fabbrica smantellata è una comunità che si dissolve e insieme un patrimonio di esperienze, di comunità che si disperde: anni di sforzi collettivi che se ne vanno”.