CdF Lombardini (RE) – intervista a Tonino Paroli

Intervista a Tonino Paroli sul CdF della Lombardini Motori (attualmente parte del gruppo Kohler), una fabbrica metalmeccanica storica in una città, Reggio Emilia, che nel secolo scorso è stata centro importante della lotta di classe del nostro paese, del movimento operaio (basti pensare all’occupazione delle Officine Reggiane del 1920 e del ’50-’51) e del movimento comunista (vedi i fratelli Cervi, i morti del luglio del ’60, la lotta contro il revisionismo moderno e la nascita delle Brigate Rosse).

Dove lavoravi? Esisteva un CdF nella tua fabbrica?

Ho iniziato a lavorare a 16 anni prima tra piccoli artigiani poi alla Pratissoli, un’azienda produttrice di pompe per irrorazione e diserbo. Nel 1968 sono entrato alla Lombardini Motori, che allora era la più grande fabbrica della città, con più di mille operai distribuiti tra due stabilimenti: quello dove lavoravo io a Pieve Modolena e l’altro proprio dentro Reggio Emilia, nel quartiere Gardenia. Si producevano motori di tutte le tipologie e io lavoravo nel reparto macchine, dove si trovavano anche i torni. Ero rettificatore su una macchina di controllo che però dovevo organizzare io, andava programmata, misurata, ecc. Controllavo 6-7 pezzi al giorno: questi erano i miei ritmi di lavoro, ritmi volutamente lenti.

Riguardo ai CdF, sì alla Lombardini ce n’era uno.

Quando e come si è formato? Come era composto e come funzionava?

Ricordo che si costituì nel 1969, in sostituzione della Commissione interna che quelli della mia generazione, in rottura con quella precedente, vedevano come una struttura dipendente dai vertici dei tre sindacati, perché erano loro che stabilivano chi ne doveva far parte. Vedevamo la Commissione interna come una struttura incapace di soddisfare la volontà di partecipazione e decisione dal basso degli operai. Una grossa spinta alla costituzione del CdF arrivava poi dall’esterno, dal contesto sociale di allora: le lotte studentesche dell’anno precedente, la guerra in Vietnam, Che Guevara, ecc., l’acuirsi del sentimento di ribellione tra gli operai, che chiedevano una partecipazione orizzontale in fabbrica. Così anche da noi ci si organizzò in maniera tale che i delegati di reparto fossero eletti a prescindere dalla loro appartenenza sindacale, l’importante era che fossero lavoratori corretti e disponibili e che facessero effettivamente gli interessi del reparto. In totale eravamo una decina di delegati, in maggioranza iscritti alla FIOM, come me. Io fui eletto come delegato del reparto macchine e assieme a tutti gli altri delegati componevamo il CdF, in cui vigeva una divisione dei compiti. C’era poi l’assemblea dei lavoratori che si riuniva al bisogno, anche durante l’orario di lavoro per chiamare allo sciopero.

Qual era il ruolo del CdF dentro la fabbrica?

L’assemblea di fabbrica decideva gli argomenti da trattare e questi venivano discussi insieme ai delegati. Il CdF si occupava ad esempio di gestire la turnazione per far fronte all’alienazione prodotta dalla catena di montaggio, lottava per ottenere miglioramenti salariali, organizzava i picchetti (andavamo ai cancelli alle 4 di mattina a lanciare uova contro le macchine dei crumiri, che smisero presto di provare a entrare durante gli scioperi). E poi organizzava gli scioperi interni. Insomma, quando il padrone si metteva di traverso si organizzavano gli scioperi e si tutelavano gli interessi degli operai, soprattutto riguardo alla sicurezza e alla pulizia: se in un reparto c’erano troppe polveri, bloccavamo tutto fino a quando non ottenevamo gli aspiratori. Ci sostenevamo uno con l’altro per ottenere ritmi di lavoro più umani: se qualcuno nel mio reparto doveva andare in bagno, poteva prendersi tutto il tempo di cui aveva bisogno, anche quello per leggere il giornale, e se il capo reparto provava a fare storie, la risposta era immediata!

Io ero un delegato, ero un ribelle e un piantagrane, con un pizzico di anarchismo… avevo la foto di Mao Tse-tung nell’armadietto e questo era di per sé motivo di scontro con il capo reparto. Si facevano spesso scioperi selvaggi, anche brevi ma ripetuti: se c’era qualcosa che non andava in un reparto, non aspettavamo di organizzare uno sciopero a cui partecipassero migliaia di persone, ma intanto si organizzava lo sciopero di quel reparto specifico, per collegarsi poi allo sciopero degli altri reparti se nell’assemblea veniva deciso di estendere l’iniziativa.

Erano due o tre i delegati che andavano a trattare in direzione. E ogni volta che si scioperava riempivamo la fabbrica, soprattutto i bagni, di scritte contro il padrone!

Il CdF era attivo anche all’esterno della fabbrica?

In realtà era un po’ chiuso sulla fabbrica, orientato sulla lotta sindacale e non particolarmente proiettato verso l’esterno. Il CdF non era concepito come un’organizzazione di lotta che aveva l’obiettivo di cambiare la società… si fecero però delle assemblee sulla legge Basaglia [la legge, che aboliva i manicomi e prevedeva sistemi alternativi di cura per i malati psichiatrici, verrà approvata nel 1978-ndr], visto che a Reggio c’era uno dei suoi “seguaci”. Sapevamo che c’erano altri CdF simili al nostro, ma non esisteva un coordinamento vero e proprio. A Reggio Emilia, in cui prevalevano a quel tempo le piccole fabbriche, di grandi Consigli di Fabbrica non ce n’erano tanti, ma esisteva un coordinamento del sindacato FIOM. Questo coordinamento dava modo a noi delegati dei CdF e agli altri di scambiarci aggiornamenti ed esperienze: in quegli anni c’erano altre due o tre fabbriche interessanti come ad esempio la Max Mara (dove ricordo che una volta il padrone finì, senza volerlo, per essere ostaggio degli operai riuniti a picchettare!), la Landini, la Gallinari e la Bloch.

Com’erano i rapporti con le organizzazioni sindacali? E con il PCI?

C’era un legame stretto con la FIOM, ma in generale noi mantenevamo il nostro punto di vista sulle questioni interne. In fabbrica c’era una cellula del PCI a cui ero iscritto io come anche molti altri operai. La sua influenza era forte anche se, per quanto mi riguarda, gli altri iscritti erano troppo “poco critici” rispetto al PCI. Io e altri due o tre operai eravamo contro la linea del PCI nazionale e locale e questo ci ha portati a rompere sia con il CdF che con il PCI.

Che relazione ha avuto questo percorso nel CdF con la tua scelta di entrare nelle Brigate Rosse?

A Reggio, in quegli anni, si affacciavano Lotta Continua, Avanguardia Operaia e Servire il Popolo e quindi ci furono, in città, i primi contatti con i cosiddetti “gruppi extraparlamentari”. Nello stesso tempo, in opposizione alla deriva del PCI di quegli anni iniziava a costituirsi un comitato di studenti e di operai che si riunivano in un appartamento in via Emilia… lo spunto venne dalla lotta degli studenti contro l’aumento dei biglietti del tram e poi dall’occupazione dell’IPSIA, in seguito altri “cani sciolti” si aggregarono via via. Franceschini [uno dei fondatori insieme a Prospero Gallinari delle Brigate Rosse a Reggio Emilia-ndr], che allora studiava all’Università di Bologna, venne a sapere di alcuni operai ribelli e “maoisti” ed è così che fondammo il gruppo dell’appartamento.

Dall’appartamento inizia il percorso che ci porterà a Sinistra Proletaria prima e alle Brigate Rosse poco dopo.

Come mai secondo te i CdF si sono esauriti?

In molti hanno cercato di spegnere il conflitto, ma se si rimane chiusi nella fabbrica non se ne salta fuori. Era necessaria una visuale più ampia.

Non pensi che oggi sia necessario far rinascere organismi simili ai CdF? Facendo tesoro degli errori del passato…

Gli errori sono preziosi, sono una ricchezza se visti nell’ottica di imparare per non ripeterli. Il CdF è un embrione della gestione collettiva di cui parlano i comunisti e per questo deve essere esteso a tutta la società.

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