In questi ultimi mesi abbiamo avviato un lavoro di interviste e racconti su come funzionavano e che ruolo avevano i consigli di fabbrica. Di queste invitiamo alla lettura di quelle realizzate a Pietro Vangeli e a Roberto Rugi.
Rilanciamo, su questa scia, l’articolo “un colpo d’occui sui consigli di fabbrica degli anni ’70” pubblicato sul numero 63 della rivista la Voce del (nuovo PCI), di cui invitiamo alla lettura e alla massima diffusione. L’articolo è utile perchè sintetizza bene gli aspetti principali, da un punto di vista sia politico che pratico, molto utili agli operai che oggi vogliono comprendere meglio come possono organizzarsi in fabbrica e quali passi è utile fare. Buona lettura.
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Un colpo d’occhio sui Consigli di Fabbrica degli anni ‘70
Negli anni ‘70, il seguito del movimento del ’68 e dell’Autunno Caldo, i Consigli di Fabbrica sono stati il massimo livello raggiunto dai lavorati aggregati nelle aziende capitaliste (quelli che nella nostra letteratura chiamiamo operai) nel porsi come dirigenti nell’azienda e come nuove autorità pubbliche all’esterno, verso le masse popolari organizzate e no e contro la borghesia e le sue istituzioni.
Il Partito dei CARC sta presentando, sul suo sito www.carc.it, una serie di interviste a esponenti dei CdF dell’epoca.
Dall’intervista a Pietro Vangeli, attualmente Segretario Nazionale del P.CARC e negli ultimi anni ’70 membro del CdF della SAMPAS e poi della Microfusione (entrambe aziende metalmeccaniche dei dintorni di Milano), abbiamo estratto due passaggi, a completamento dell’articolo Autunno Caldo di Sergio C.
1. Come funzionava il CdF e che peso politico aveva?
Ogni reparto [della SAMPAS], da 15 a 30 lavoratori, eleggeva il proprio delegato. Non aveva alcuna importanza la tessera sindacale, ogni delegato era eletto perché godeva della fiducia e del riconoscimento dei suoi compagni. Ed era revocabile in ogni momento. Il CdF era composto da 12 delegati ed era riferimento per tutto: gestione delle ferie, dei permessi, delle malattie lunghe, dei cambi di reparto e dei passaggi di livello, anche se erano molto rari: il posto era fisso e le mansioni non venivano cambiate con frequenza.
Il CdF faceva riunioni ordinarie, in cui venivano affrontati i temi della gestione e del controllo operaio sulla fabbrica e riunioni straordinarie quando particolari necessità lo richiedevano. Le decisioni venivano sottoposte per l’approvazione alle assemblee di reparto per questioni attinenti al reparto o all’assemblea generale. La partecipazione agli scioperi era del 100%: in caso di necessità si faceva il picchetto per impedire l’accesso dei pochi impiegati che sapevamo erano dei crumiri e provavano a entrare.
Il CdF aveva una stanza per le riunioni, alcuni uffici e anche uno spazio biblioteca per gli operai.
È utile ragionare sul fatto che, al di là di alcune specificità che cambiavano azienda per azienda e del fatto che ogni CdF si caratterizzava per essere o controllato e diretto dal PCI – cioè più di destra, più incline a tener conto delle esigenze dell’azienda – o diretto dai partiti e dalle organizzazioni alla sinistra del PCI, il funzionamento dei CdF era grossomodo il medesimo per ogni azienda. Quindi provate a moltiplicare il funzionamento di un CdF – ad esempio un delegato ogni 30 operai, nelle grandi aziende c’erano CdF con centinaia di delegati – per le fabbriche del territorio, della provincia, della regione e avrete un’idea di come e quanto l’organizzazione della classe operaia fosse influente nel movimento di tutto il resto delle masse popolari. Per esempio, a Milano per i funerali di Fausto e Iaio nel 1978, i CdF proclamarono lo sciopero e scesero nelle strade 200 mila persone.
A Milano esisteva l’attivo territoriale dei delegati della FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici – sindacato unitario di Fiom-Fim-Uilm), uno per ognuna delle zone. Agli attivi, circa due al mese, vanno aggiunti gli attivi delle organizzazioni sindacali, le riunioni degli iscritti ai sindacati, i coordinamenti con il movimento, le riunioni che ogni operaio faceva con il suo partito o organizzazione di riferimento… era una enorme e capillare rete di attività politica che dalle fabbriche si riversava nel resto della società. Con lo Statuto dei lavoratori, inoltre, gli operai avevano conquistato un monte-ore di permessi sindacali da utilizzare per fare attività all’interno e all’esterno dell’azienda.
Dove il CdF funzionava bene, cioè era veramente al servizio degli operai, metteva al proprio servizio i funzionari e le strutture delle organizzazioni sindacali. I sindacalisti intervenivano in fabbrica solo se convocati dal CdF e spesso venivano contestati duramente, alcune volte cacciati se osavano portare posizioni filopadronali. Oggi è l’opposto.
La relazione fra CdF e sindacati di regime emerge bene se prendiamo come esempio i rinnovi del CCNL. Il CCNL, che era appannaggio dei sindacati, aveva importanza, ma essa era relativa: la battaglia grossa avveniva nella contrattazione di secondo livello, quella aziendale. È lì che il CdF faceva valere tutta la sua forza e il suo “contropotere” in azienda. Nella contrattazione aziendale ci si rifaceva di quello che non si riusciva a ottenere nella piattaforma contrattuale: si metteva mano a tutti gli aspetti specifici e particolari della vita in fabbrica, oltre che alla questione del salario. Un esempio: nel periodo 1968-69 è stato eliminato il cottimo. Si è trattato di una grande conquista, ma c’è da considerare che oltre ad essere un grande incentivo economico, il cottimo poggiava anche su abitudini consolidate: per gli operai più anziani fare il cottimo era normale – “più lavori e più guadagni” era ritenuto giusto. Questo era una contraddizione perché erano proprio alcuni degli operai di più lungo corso che volevano fare il cottimo, erano abituati a lavorare così, volevano fare così, specialmente quelli che erano più specializzati. Alla SAMPAS il CdF ha disincentivato il cottimo anche fra gli irriducibili, istituendo il cottimo collettivo: sono state riformulate le “tabelle” e i soldi del cottimo venivano distribuiti fra tutti gli operai. Questo, ovvio, faceva un po’ incazzare quelli che puntavano allo stipendio più alto, ma li costringeva a mobilitarsi e a lottare collettivamente per aumenti salariali, anziché fare il cottimo e li educava a considerarsi parte di un collettivo. Allo stesso tempo valorizzava quelli che erano abituati a massacrarsi di lavoro, quelli che prendevano in giro i giovani “perché non avevano voglia di lavorare”, però educandoli e via via distogliendoli dal cottimo. (…)
2. Quando furono sostituiti dalle RSU nel 1991 i CdF erano una cosa ben diversa da quella di cui parli…
Bisogna sempre considerare il contesto storico e il movimento oggettivo della società.
A inizio anni ‘80 si sono combinati vari elementi: le ristrutturazioni aziendali, la sconfitta alla FIAT, il riflusso del movimento degli anni ‘70, molti dei delegati combattivi sono andati in pensione, molti delegati operai delle aziende in crisi sono stati inseriti, tramite accordi sindacali, nelle aziende pubbliche (Poste, Ferrovie, Enti locali), alcuni si sono ritirati, altri ancora hanno scelto la “carriera” da funzionario nei sindacati.
Nelle fabbriche la Cassa Integrazione su vasta scala aumentava il potere di gestione della vertenza da parte delle strutture sindacali, riduceva le possibilità di organizzazione e controllo operaio. L’accordo di S. Valentino (il taglio del 4% della scala mobile, nel 1984, con il governo Craxi – ndr) e i primi attacchi all’articolo 18 segnavano la debolezza del movimento dei CdF e la sconfitta del movimento degli anni ‘70.
Questa fase di “discesa” per me è stata un grande insegnamento rispetto ai limiti oggettivi della lotta rivendicativa e alla necessità di andare oltre, di lavorare per la costruzione del Partito comunista. I CdF sono stati una grandiosa esperienza, ma da soli non potevano fare più di quello che di molto positivo hanno fatto.
Per tutto un periodo c’è stato un movimento, in particolare a Milano e Torino, animato da Autonomia Operaia, Democrazia Proletaria e molti “cani sciolti”, per tentare di rianimare i CdF, le assemblee autoconvocate dei delegati. Ma il problema a quel punto non era la volontà o la combattività, era di linea e di strategia, era un problema politico, non organizzativo.
Da qui in avanti, infatti, la questione della ricostruzione di un partito comunista adeguato a promuovere la rivoluzione socialista in Italia diventa via via più chiara. È stato un processo lungo di cui la Carovana del (nuovo)PCI si è messa alla testa: il mio impegno politico principale diventa la redazione di Il Bollettino del Coordinamento nazionale dei Comitati contro la repressione e la redazione di Rapporti Sociali che affondano le radici in quel contesto e in quel periodo. Da lì poi si sviluppano le tappe della Carovana: la costituzione dei Centri di documentazione Filorosso (1987), dei CARC (1992), la costituzione della Commissione Preparatoria del Congresso di fondazione del (nuovo)PCI (1999), la fondazione del (nuovo)PCI (2004), la fondazione del P.CARC (2006). La ricostruzione di questo percorso non è argomento dell’intervista e anche la descrizione del contesto e del movimento operaio fra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni 90 del secolo scorso richiede un approfondimento che sarebbe utile fare. Ad ogni modo, nel 1991 i CdF vengono sostituiti dalle RSU. È stato un po’ un ritorno alle vecchie Commissioni Interne: i delegati tornano ad essere indicati dai sindacati.
La sinistra sindacale reagirà con la formazione di alcune strutture sindacali di base (Cobas) in concorrenza e in alternativa ai sindacati di regime. Ma questa è un’altra storia!