L’Impresa di Fiume e cosa insegna ai comunisti di oggi

 

L’Impresa di Fiume è generalmente conosciuta come il fenomeno dal quale prese le mosse il fascismo. Effettivamente, a livello “estetico, culturale e propagandistico” il fascismo vi ha attinto a piene mani, ma a livello politico essa presentava una spiccata contraddittorietà nella quale la mobilitazione reazionaria ha preso infine il sopravvento solo per i limiti ideologici e politici del PSI.

Per un’articolata ed esaustiva ricostruzione storica rimandiamo al libro Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria (cap. XIV), per una estrema sintesi politica, invece, rimandiamo all’articolo “Il Biennio Rosso in Italia e la forma della rivoluzione socialista oggi” pubblicato su La Voce del (nuovo)PCI n. 63.

In questo articolo, compatibilmente con lo spazio a disposizione, puntiamo a combinare i due aspetti, breve ricostruzione storica e bilancio politico, per rafforzare uno dei temi centrali di questo numero di Resistenza: quali che siano le cause, le caratteristiche e il contenuto del movimento spontaneo delle masse popolari, se i comunisti hanno una giusta concezione del mondo e operano in ottica di guerra (la Guerra Popolare Rivoluzionaria), essi possono farlo confluire nella rivoluzione socialista. Di più, i comunisti possono usare ai fini della rivoluzione anche le contraddizioni in campo nemico, le difficoltà della classe dominante e le crepe che si aprono nel suo fronte. Bisogna però che siano disposti a “sporcarsi le mani”, a farlo con intelligenza, con coraggio e con spregiudicatezza.

Abbiamo già trattato (vedi Resistenza n. 4/2019 l’articolo sugli Arditi del popolo) del settarismo che caratterizzava il movimento comunista del nostro paese proprio nel periodo in cui servivano invece fermezza strategica e flessibilità tattica. Aggiungiamo qui un ulteriore pezzo al ragionamento.

 

Anzitutto, il contesto.

Gli sconvolgimenti, le distruzioni e il macello della Prima Guerra Mondiale non avevano posto fine alla prima crisi generale del capitalismo e alla connessa situazione rivoluzionaria in sviluppo; anzi le cose si erano persino aggravate.

L’Italia era allo sbando con un altissimo debito di guerra, un alto tasso di disoccupazione, un crescente e incontrollato carovita. Come altri paesi fu scossa da ampie mobilitazioni popolari per tutto il periodo che è passato alla storia come il Biennio Rosso. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia animava la voglia di riscatto e la ribellione della classe lavoratrice che si dispiegò prima nel movimento contro il carovita nelle città, poi nelle mobilitazioni contadine e infine dilagò nelle fabbriche. I limiti del PSI si manifestarono in mille occasioni e altrettanti episodi, a riassumerli citiamo l’incapacità di legare fra loro le numerose ribellioni in un’unica mobilitazione politica, ma anche l’incapacità di approfittare delle contraddizioni in campo nemico. Vasti reparti dell’esercito, infatti, non solo si rifiutavano di reprimere le masse popolari, ma in molte occasioni si unirono ad esse e, in certi casi (le rivolte di Ancona, Trieste e Brindisi, nel 1920), si ammutinarono, cercando nel PSI e nel movimento anarchico la direzione politica.

In un clima di crescente tensione e contrapposizione di classe le masse popolari volevano “fare come la Russia” e serpeggiavano la paura fra i possidenti e i capitalisti, la frustrazione fra gli ufficiali dell’esercito e un fervente nazionalismo, alimentato dalla retorica della “vittoria mutilata”, si apriva la strada.

 

“Fiume o morte”

La città di Fiume era rimasta fuori dai confini tracciati con il Patto di Londra (1915) siglato dall’Italia con le forze della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia zarista) ed era presidiata da contingenti alleati, in particolare francesi. A causa delle tensioni nazionaliste e degli scontri fra contingenti militari, la Commissione Interalleata d’inchiesta decise di ridurre il contingente italiano. Un gruppo di ufficiali, arditi e soldati al grido di “Fiume o morte!” si pronunciò per la liberazione di Fiume e investì Gabriele D’Annunzio, che da tempo si era fatto portavoce delle posizioni favorevoli all’indipendenza della città, capo della missione per occupare Fiume e annetterla all’Italia. Cosa che avvenne a opera di un migliaio di uomini il 12 settembre 1919.

Quella che per parole d’ordine (basate sul nazionalismo), composizione (ufficiali dell’esercito e “avventurieri”) e direzione (un improbabile “poeta guerriero”) appare superficialmente a tutti gli effetti come un’operazione reazionaria, fu invece l’ennesima dimostrazione della debolezza della borghesia italiana, delle sue istituzioni e delle sue autorità che solo l’immobilismo dei comunisti dell’epoca ha “regalato” alla mobilitazione reazionaria.

D’Annunzio si avvalse del sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris per stilare la Carta del Carnaro, la Costituzione della Reggenza Italiana che riconosceva diritti e conquiste sconosciute fino ad allora nei paesi imperialisti: l’abolizione delle differenze “di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione” e la garanzia “a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, dell’istruzione primaria, del lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, dell’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, della pensione per la vecchiaia”.

L’evidente contraddizione fra la Carta del Carnaro e l’ambizione di annettere Fiume all’Italia alimentò il progetto di fare di Fiume la base per la rivoluzione “sovietica” in Italia, progetto che D’Annunzio propose al PSI (in ultimo e palesemente il 13 aprile del 1920 con la proposta di costituire la repubblica sovietica in tutto il Venezia Giulia) tramite i molti canali esistenti fra “i legionari” e i socialisti. Lo stesso Lenin, interessato dal fatto che la Reggenza del Carnaro fosse stata l’unica autorità internazionale (benchè atipica) a riconoscere la Russia sovietica, intervenne sul PSI affermando “bisogna sfruttare la situazione creata dall’impresa dannunziana per volgerla ai fini della rivoluzione proletaria italiana, le proposte fatte al partito devono esser ascoltate e discusse accuratamente” (Citato anche in Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, 1962).

 

Invece, il PSI…

Il PSI vide dell’Impresa di Fiume esclusivamente la componente retriva (che di certo esisteva) e lo sbocco reazionario e nazionalista; rimase in attesa degli eventi, rifiutando ogni contatto con D’Annunzio e i suoi. Anche i comunisti (in particolare il gruppo de L’Ordine Nuovo di Gramsci) non diedero battaglia al settarismo e si limitarono a riconoscere le potenzialità rivoluzionarie senza elaborare e attuare una linea per valorizzarle.

In un comunicato del settembre del 1919 la Direzione del PSI dichiarò: “[i legionari – ndr] E’ la stessa minoranza faziosa la quale quattro anni fa, complice il Governo, trascinò il Paese nelle calamità della guerra: ma essa ora trova la classe lavoratrice italiana preparata e agguerrita per approfittare degli inevitabili conflitti che potranno determinarsi tra le classi dirigenti e la casta militare”. Pochi giorni dopo l’appello di D’Annunzio, nel 1920 l’Avanti scrisse: “Noi socialisti non possiamo parteggiare né per l’una né per l’altra delle parti contendenti. Noi assistiamo vigili a questo crollo che si prepara”.

 

Non limitarsi a giudicare “da fuori”

Ecco ben evidente la concezione che portò ieri il PSI a regalare l’Impresa di Fiume alla reazione e a consegnare la classe operaia e le masse popolari che diedero vita al Biennio Rosso nelle mani del fascismo. E’ la stessa concezione di chi oggi pontifica sui movimenti popolari: cosa è giusto, è puro, è positivo ed è rivoluzionario e scomunica quello che “non è abbastanza di sinistra”. Quante ne avete sentite, solo un anno fa, di scomuniche al movimento dei Gilet Gialli in Francia perché “è un movimento ambiguo”? E prima ancora contro i Forconi in Italia? E in questi giorni contro le Sardine?

Ogni spazio che il movimento comunista cosciente e organizzato non occupa ai fini della rivoluzione socialista è un campo che sarà occupato dalla classe dominante per le sue manovre. E l’Impresa di Fiume è solo uno dei tanti esempi.

 

Oggi i promotori della mobilitazione reazionaria delle masse popolari, della guerra fra poveri e della guerra contro i poveri, non sono le organizzazioni fasciste, ma i vertici della Repubblica Pontificia, cioè i poteri forti che governano il paese, ininterrottamente, dal 1945. Per promuovere la mobilitazione reazionaria essi usano anche le organizzazioni fasciste: come manovalanza per i lavori più sporchi, per aggregare la parte più abbrutita e arretrata delle masse popolari, per alimentare contraddizioni nel campo delle masse popolari. La guerra fra poveri che mette dipendenti pubblici contro dipendenti del privato, che alimenta la concorrenza per una visita medica, per un posto all’asilo, è opera di chi governa dal 1945 questo paese.

L’unico antifascismo efficace è quello che promuove la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari per farla finita con i vertici della Repubblica Pontifica e per instaurare il socialismo. Quanto più terreno le masse popolari tolgono ai vertici della Repubblica Pontificia, tanta più tolgono ai gruppi fascisti e razzisti l’acqua in cui nuotare e avanzano nella costruzione della rivoluzione socialista, l’unica vera alternativa alla mobilitazione reazionaria.

 A ogni compagno e ogni compagna che si pone la questione di come fare per avanzare su questa via il P.CARC si propone con serietà e lungimiranza, con il patrimonio di scienza e di elaborazione della Carovana del (nuovo)PCI, con l’esperienza di lotta e di resistenza contro la repressione, con la prospettiva di passare da subito dal campo del CONTRO al campo del PER.

Contro la borghesia imperialista, per il socialismo.

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