Intervista a Roberto Rugi sul Consiglio di Fabbrica della Sbisà di Firenze, una fabbrica metalmeccanica che produceva strumenti oftalmici. La Sbisà ha avuto la sua massima espansione negli anni del boom economico (1954-62), ha iniziato un lento declino alla fine degli anni 70 (dopo la morte del proprietario) e ha chiuso definitivamente nel 2004.
C’era un Consiglio di Fabbrica (CdF) alla Sbisà?
Sì c’era, pur essendo un’azienda piccola, di circa 100 operai.
Come si è formato e come funzionava?
Il CdF alla Sbisà era figlio, come quasi tutti i consigli di fabbrica, della vecchia commissione interna… strutture un po’ sclerotiche che avevano un rapporto diretto con i sindacati e spesso erano composte dagli operai più anziani che avevano un rapporto “migliore” con il padrone. Erano strutture che si muovevano poco sul piano della contrattazione e pian piano furono soppiantate, quasi naturalmente, dai consigli di fabbrica. I CdF di allora erano molto diversi dalle RSU di oggi, prima di tutto perché ogni lavoratore poteva essere eletto, non venivano presentate liste e il lavoratore esprimeva la propria preferenza (due, tre nomi) per chi era il suo punto di riferimento. Nel CdF valeva veramente il principio “uno vale uno”, nel senso che ognuno era revocabile quindi c’era una vera rappresentanza degli operai. Dopo il 1968, un grande contributo al loro sviluppo venne dall’azione dei comunisti (del PCI, ma anche extraparlamentari) e soprattutto di tanti operai non sindacalizzati. Fu una spinta forte per tutto il movimento sindacale.
Di cosa si occupava?
All’inizio si occupava della gestione delle relazioni tra gli operai e il padrone in fabbrica, principalmente dei salari. Però in quegli anni ci fu una presa di coscienza sul modo di produrre, si cominciò a fare attenzione a una serie di problematiche, soprattutto la sicurezza sul lavoro. I CdF fecero un grosso lavoro in merito, in quanto fino ad allora il padrone “monetizzava il rischio”: chi faceva un lavoro pericoloso veniva pagato di più e si capisce bene che leva potente fosse in particolare sui più poveri…
Iniziò quindi ad esserci una maggiore sensibilità, si cominciò a dire che il salario non doveva essere legato al rischio: non ci doveva essere il rischio, punto. Altro problema affrontato fu il cottimo, un sistema ingiusto, massacrante e pericoloso che però garantiva fino a un terzo di uno stipendio appena decente: la battaglia contro il cottimo fu fatta e vinta.
Nel frattempo (1964-1968), esauritosi il boom economico, le fabbriche cominciarono ad andare in crisi e la soluzione padronale era la solita: chiuderle. Per cui l’unica alternativa era l’assemblea permanente, dato che il sistema degli ammortizzatori sociali allora era quasi inesistente, prese piede in maniera consistente negli anni ’70. Gli operai di fatto non permettevano che l’azienda chiudesse, qualcuno continuava a produrre nonostante i distacchi degli allacci; pian piano fu individuato che il problema non era il singolo imprenditore incapace: le aziende venivano chiuse una dietro l’altra, c’era un problema di sistema.
Com’erano i rapporti con il sindacato e con il PCI?
Con i sindacati andava meglio che con il PCI, perché il sindacato era in qualche modo interno al CdF e quindi doveva quasi per forza aderire alla sua linea e alle sue iniziative. Invece il PCI aveva un atteggiamento più “ortodosso”, ragionava di massimi sistemi anche quando i risultati si ottenevano. Basti pensare all’introduzione delle mense, dopo il 1969: sembra un piccolo risultato, ma prima si mangiava con la gavetta. Poi le mense diventarono aperte agli esterni e questo fu il grande punto di forza dei CdF, perché gli operai iniziarono a capire che tutti i problemi non si possono risolvere in fabbrica, quindi iniziarono a guardare alla società: non era difficile all’epoca trovare picchetti operai a difesa degli sfratti, venivano trattati i problemi delle scuole… si cominciò a capire che la battaglia era unica e collegava tutte le lotte, era all’origine di ognuna di esse.
Si crearono grossi legami tra i CdF e i movimenti studenteschi, un legame importantissimo fu quello dell’antifascismo: molti erano i presidi o le azioni dei CdF contro i movimenti fascisti e le loro manovre nei quartieri. C’era una vigilanza antifascista di fatto e il tragico episodio della bomba in piazza della Loggia (nel 1974) fu per colpire un presidio sindacale di protesta contro un assalto dei fascisti a Brescia.
La strage di piazza Fontana nel 1969 fece da spartiacque e cambiò la storia pure dei CdF e del cosiddetto antifascismo militante: a quel punto in massa gli operai capirono che lo Stato non era affatto neutrale nello scontro fra le classi, ma aveva una posizione ben precisa in funzione antioperaia e si serviva dei fascisti per le sue operazioni.
Cosa ci puoi dire per quanto riguarda invece il coordinamento dei CdF come quello chiamato “Statale 67”?
Il nome viene dalla Statale 67, che attraversa Scandicci (grosso paese limitrofo a Firenze) e la sua zona industriale. Il coordinamento era trainato dai CdF delle aziende più grandi (Matec, Superpila, Zanussi poi diventata Electrolux e chiusa), ma c’erano anche le aziende piccole, da 40-50 operai, che avevano anch’esse il loro CdF. Il coordinamento nacque dalle iniziative comuni che i CdF facevano contro particolari provvedimenti antipopolari adottati dai vari governi degli anni ’70 (Rumor, Andreotti Malagodi), per “dare struttura” a quello che si era già sviluppato spontaneamente. Volevamo creare un organismo in grado di coordinare le azioni, tanto più che vari CdF si occupavano non solo di problemi generali e delle fabbriche, ma anche del quartiere: trasporto pubblico locale e la viabilità, le mense, l’ordinamento urbano.
Per la verità questa idea ebbe un po’ le gambe corte per colpa di una sovrabbondanza di strutture: c’era il sindacato, il Partito, le cellule di fabbrica, il direttivo provinciale e di zona… c’era tutta una serie di strutture che volevano mantenere un certo controllo della situazione.
Inoltre non è mai facile coordinare persone che hanno orari diversi e vivono in zone diverse, data anche la mancanza di mezzi di comunicazione come quelli moderni… l’unica modalità era il passaparola nelle Case del Popolo e nelle sezioni di partito.
Spesso “dall’alto” ci veniva detto che come CdF e coordinamento facevamo azioni giuste, ma eravamo avventuristi perché non sapevamo dove volevamo andare a parare. Noi invece lo avevamo chiaro, eccome! L’obiettivo era il cambiamento della società, imporre un governo che andava al di là dei partiti e partitini e dei loro accrocchi. Avevamo in mente un’altra struttura di Stato, che poi doveva usare qualsiasi mezzo disponibile per rimanere al potere.
Quindi i CdF, oltre a occuparsi dei problemi di fabbrica e del territorio, volevano cambiare la società?
Certo, anche se non sempre era chiaro che sistemi usare di volta in volta. Per esempio: una volta che abbiamo occupato contro la chiusura tre, quattro, cinque fabbriche, qual è il passo successivo? O si ricomincia a produrre o diventa un problema. Ci appoggiavamo ai partiti storici della sinistra che erano gli unici che potevano intervenire, e intervenivano, ma sempre secondo le regole e rispettando i limiti imposti dalla società capitalista. Su questo non si riusciva a sfondare, è stato uno dei principali nodi.
Inizialmente (dal 1966) la repressione era forte, lo Stato cercava di stroncare sul nascere i CdF, ci picchiavano pesantemente cercando di non farci neanche arrivare nelle piazze, la polizia stava quasi sempre davanti alle fabbriche.
Poi i padroni cambiarono strategia, ci lasciarono fare le grandi manifestazioni e lo Stato cominciò a mio avviso ad agire su altri livelli: non che la repressione scomparve, ma venne spostata sui gruppetti (anarchici, extraparlamentari, studenti). Era difficile che la polizia attaccasse una manifestazione operaia, poi se partivano gli scontri non ci si tirava indietro…
Poi le cose cambiarono a partire da dopo la metà degli anni ’70, ci fu un declino rapido del ruolo del CdF e del movimento operaio in genere e lego in parte questo alla comparsa delle organizzazioni combattenti e della lotta armata. Le organizzazioni comuniste combattenti godevano di una certa simpatia – soprattutto nella fase iniziale – in particolare nelle fabbriche più grandi, anche se però nessuno diceva apertamente di sostenerle. Quando venivano colpiti capetti e dirigenti con azioni dimostrative come i “sequestri volanti” e le auto incendiate, gli operai dicevano che per non meritare simili trattamenti forse capetti e dirigenti non avrebbero dovuto fare le spie, avrebbero dovuto essere “meno merda”…
Approfondiamo: quali sono state secondo te le cause dell’esaurimento dell’esperienza dei CdF?
Per prima cosa, come già detto, la mancanza di un programma ben delineato e una strategia e soprattutto dell’appoggio di un partito comunista che spingesse in avanti… il vecchio PCI tendeva più a contenerli. Poi c’è stata la presa di posizione ostile dei sindacati a cui i CdF avevano rotto i coglioni. Poi ci furono delle modifiche come quelle introdotte nello Statuto dei Lavoratori come le liste sbarrate e l’iscrizione obbligatoria a un sindacato, a cui mi opposi nelle assemblee… la cosa fu superata con la FLM (sindacato unitario di FIM, FIOM, UILM), a cui si poteva aderire senza essere iscritti a uno di questi sindacati confederali.
La spontaneità si incanalò via via in rivoli più controllati. E poi la crisi economica, le bombe e il terrorismo hanno contribuito al declino che è stato un processo comunque lungo: fino al 1985 i CdF fecero lotte che oggi sembrano rivoluzionarie, ma ormai avevano perso lo slancio rivoluzionario.
In quegli anni (1985) ci fu poi la sconfitta epocale sulla scala mobile e questo segnò il destino dei CdF, ma è una sconfitta che viene da lontano, almeno dalla metà degli anni ’70 agli anni ’80, guarda caso anni che coincidono con l’esplosione elettorale e l’apice del PCI… su questo però ci vorrebbe una ulteriore riflessione. Lì cominciò il declino del movimento operaio, da allora le piattaforme rivendicative diventarono di tipo solo contenitivo (“manteniamo quello che abbiamo”), venne abbandonata l’idea di cambiare la società partendo dal movimento spontaneo della classe operaia e dei lavoratori. Il PCI diceva che ormai bisognava affidarsi alle elezioni per cambiare lo stato delle cose, altrimenti si subivano bombe, licenziamenti di massa e repressione.
Come consiglieresti, ad un operaio di oggi, di agire per formare un nuovo CdF e come legarlo alla società?
Non è facile, quello per noi fu un passaggio naturale per le condizioni che c’erano – il movimento comunista, Cuba e Che Guevara, la guerra in Vietnam… – oggi per un giovane richiede uno sforzo di immaginazione. Però un collettivo di operai sarà sempre più forte di qualunque RSU. I CdF devono essere posti dove la gente può esprimersi, chi lavora sa benissimo quali sono i problemi del suo lavoro, come si fa a produrre e anche a fermare la produzione: più idee ci sono meglio è.
Visto che nessuno si salva da solo, né in fabbrica né fuori, ci vuole un movimento che sappia allargarsi partendo da quelli a noi più vicini, ad esempio i tanti giovani mobilitati sul tema ambientale, un movimento dove ci sono slogan apertamente anticapitalisti. In qualche modo le nuove generazioni hanno capito che è l’attuale sistema di produzione che non permette di salvaguardare l’ambiente. Questo deve essere un cavallo di battaglia dei nuovi collettivi operai.
Quando gli studenti protestano per le loro cose che sono ovviamente circoscritte al loro interesse, va capito che la cultura è invece interesse di tutti e gli operai devono sostenere le rivendicazioni degli studenti, prendere parte alle loro mobilitazioni, rendendosi conto che difendere la cultura, gli studenti di oggi è difendere i lavoratori di domani.
Quindi un collettivo di fabbrica dovrebbe andare, ad esempio, in un istituto superiore a tenere delle assemblee?
Assolutamente sì, anche se non è facile entrare nelle scuole (un tempo era più facile)! È fondamentale e indispensabile per la costruzione del legame fra operai e studenti, un legame che va costruito prima. I giovani vanno avvicinati a queste tematiche prima che diventino lavoratori, anche per ovviare alla frammentazione del mondo del lavoro (pensiamo ai riders, ai lavoratori della logistica, al telelavoro) e della società… e la scuola è un ottimo posto dove incontrarne molti. Il legame infatti deve nascere alla base, uno studente che andrà a fare il rider deve prendere contatto con le lotte operaie prima di diventare rider perché una volta al lavoro sarà più complicato avvicinarsi.
È vero che adesso con i social si può avere un contatto con altre persone un tempo inimmaginabile, ma l’agire concreto e il rapporto personale valgono sempre molto di più.
In conclusione, hai parlato di diversi limiti e fatti storici che hanno portato all’esaurimento dei CdF: come li riporteresti a un collettivo di oggi per andare a fondo del cambiamento della società? Come far tesoro dell’esperienza e degli errori del passato?
Adesso i CdF dove ci sono non sono riconosciuti dal padrone o da Confindustria. Ma noi dobbiamo fare le cose a prescindere da loro! Se riesci a portare mille operai a scioperare ti riconoscono obbligatoriamente, è una questione di rapporti di forza. Chi punta a costituire organizzazioni di questo tipo deve perseverare e soprattutto deve uscire dal cancello della fabbrica, deve farsi vedere di più. Altrimenti si possono migliorare le condizioni di una fabbrica ma non si esporta il modello, si possono fare eccellenze sindacali, ma diventa una nicchia: il problema è estendere a tutti i diritti, come ad esempio la mensa: noi andavamo a fare i picchetti nelle fabbriche dove mancava perché non avevano la forza…. Insisto sulle mense perché sono un luogo di socialità e confronto, pensiamo alle grandi aziende e alla distanza fra i reparti: per questo le vogliono togliere usando il grimaldello del welfare aziendale e dei buoni pasto. In mensa è più facile trattare di questioni (come ad esempio il Kurdistan) di cui altrimenti non si ragionerebbe.
Se si estende il modello, chi cambia fabbrica a causa della chiusura di quella in cui lavorava, trova ancora buone condizioni e si evita di partire da zero ogni volta. La solidarietà è un aspetto fondamentale dei CdF.