52 anni fa in Bolivia moriva in battaglia per mano imperialista il comandante Ernesto Che Guevara. Da quel momento la sua figura e la sua immagine è entrata nel cuore e nella mente di milioni di rivoluzionari di tutto il mondo. Il Che cadde nel suo tentativo di creare “due, tre, molti Vietnam”, combattendo generosamente per la causa antimperialista. Nella sua lotta Guevara ebbe il limite di generalizzare i metodi sperimentati nella rivoluzione cubana. La lotta si doveva sviluppare fuori dalle città, il partito non doveva strutturarsi come avanguardia della classe operaia. Queste teorie portarono in molti paesi dell’America Latina a strappare dalle fabbriche e dalle città i militanti delle organizzazioni rivoluzionarie al fine di concentrarli nelle campagne, persino in paesi ad alto tasso di industrializzazione come l’Uruguay o l’Argentina. Era il “fochismo”, teoria così riassunta nelle parole del Che: “non è sempre necessario aspettare che si diano tutte le condizioni per la rivoluzione; il focolaio insurrezionale può crearle.”
Il Che fu un sincero rivoluzionario e lo studio del suo pensiero e il bilancio della sua pratica, dell’esperienza “fochista”, assumono significato attuale in primo luogo in relazione alle vicende presenti e future della rivoluzione. Quella che i rivoluzionari di oggi sono chiamati a costruire, nelle specifiche condizioni dei propri specifici paesi, poste le condizioni oggettive della crisi generale del capitalismo e la fase di nuove ondate di rivoluzioni proletarie che essa apre.
Una delle lezioni della rivoluzione russa del 1917 fu che anche in un paese arretrato la classe operaia gioca un ruolo decisivo.
Il marxismo-leninismo non sottovalutò l’importanza del movimento contadino. Senza l’appoggio delle masse dei contadini, milioni dei quali impegnati al fronte, la Rivoluzione d’Ottobre non sarebbe stata possibile. Ma fu la classe operaia, pur rappresentando una chiara minoranza della società russa (poco più del 10%), a guidare il movimento rivoluzionario. È negli ambiti del lavoro salariato che, in ogni paese dove si siano instaurati rapporti capitalistici di produzione, si gioca lo scontro decisivo. Il ruolo dirigente nella lotta per il socialismo è assegnato alla classe operaia, non per diritto divino, ma per il ruolo che occupa nella produzione.
Guevara, formatosi politicamente negli anni Cinquanta e Sessanta, non considerò la classe operaia e il proletariato dei paesi capitalisti come decisivi, visto il periodo di “capitalismo dal volto umano” (lo Stato sociale) che si aprì nel dopoguerra e che avrebbe fiaccato, nella sua analisi, la spinta rivoluzionaria. Sbagliò, il Che, ad elevare una fase di riflusso delle lotte operaie, dato anche da un riformismo che, in quegli anni di riaccumulazione del capitale sembrava pagare, a teoria generale.
La storia del movimento operaio dimostra, invece, il contrario: i rivoluzionari intervengono nella lotta di classe, non la creano. Organizzano e dirigono una rivoluzione che non scoppia ma si costruisce. Le esperienze del Congo e della Bolivia dimostrano quanto appena detto: nonostante tutti gli sforzi, il periodo passato in Congo diventerà “l’anno in cui non siamo stati da nessuna parte”, secondo quanto scrivono alcuni compagni di lotta del Che.
In Bolivia Guevara si recò a creare dal nulla un movimento guerrigliero in una zona spopolata, per giunta inadatta alla guerriglia, senza praticamente alcuna base d’appoggio nelle città. La Bolivia disponeva, invece, di un forte movimento operaio, la cui avanguardia erano i minatori dello stagno. Dopo qualche anno dall’impresa che a Guevara costò la vita, il movimento delle masse, con alla testa la classe operaia, spazzò via la dittatura, nel 1970 e aprì la pur breve esperienza della “Comune” di La Paz nel ‘71. Dove si trovavano, dunque, le risorse migliori per una lotta rivoluzionaria veramente efficace?
Che Guevara pagò con la vita i suoi errori. Discutere oggi il suo lascito politico e teorico è un compito indispensabile. Ma non può essere svolto con il metodo scolastico di chi pensa di selezionare le “giuste” citazioni per accreditare alla propria corrente politica una maggiore vicinanza con la figura del Che.
Nell’attuale movimento comunista convivono due linee opposte sull’azione dei comunisti rispetto alla inevitabile mobilitazione spontanea delle masse popolari:
– coloro che attendono che la rivoluzione scoppi sostengono che questa resistenza non abbia particolare valore (o persino ne negano l’esistenza) e che il compito dei comunisti consista nell’aggregare il maggior numero possibile di operai ed elementi delle masse popolari nelle file del partito comunista in attesa “dell’ora x” (e , intanto , partecipare alle elezioni per fare propaganda e alle lotte rivendicative per fare proselitismo);
– coloro che organizzano e costruiscono la rivoluzione operano per unirsi strettamente e senza riserve alla resistenza che le masse popolari oppongono e opporranno al procedere della crisi generale del capitalismo, per comprendere e applicare le leggi secondo cui questa resistenza si sviluppa, per appoggiarla, promuoverla, organizzarla e far prevalere in essa la direzione della classe operaia fino a trasformarla in lotta per il socialismo.
La Carovana del (nuovo)PCI a cui il P.CARC appartiene è la promotrice di questa seconda linea.
Chi non vuole affrontare il problema della responsabilità dei comunisti rispetto alle masse popolari si nasconde dietro a frasi del tipo “volete fare i generali senza l’esercito che li segua”: è una tipica dimostrazione delle difficoltà a comprendere che l’esercito esiste già (sono i milioni di proletari che si mobilitano con gli strumenti, con le idee e con le capacità che hanno per resistere agli effetti della crisi): ciò che manca sono proprio i generali, i dirigenti, soggetti devoti alla causa del socialismo, formati alla concezione comunista del mondo, riconosciuti dalle masse popolari non per le loro qualità individuali, ma in quanto rappresentanti e promotori della linea del partito comunista. Abbiamo bisogno di costruire un partito che sia all’altezza di formare dirigenti simili, capaci di raccogliere le forze e gli individui migliori che la resistenza spontanea fa emergere e formarli a loro volta affinché siano dirigenti persino superiori. Solo in questo modo, quali che siano gli accidenti della guerra popolare, la scienza della rivoluzione socialista avanza con e per il proletariato, fino alla vittoria.
Celebriamo e celebreremo le grandi conquiste della prima ondata del movimento comunista che ha diretto gloriosamente la prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale e trasformato milioni di sfruttati analfabeti nei protagonisti della costruzione del futuro. Di quel patrimonio rivendichiamo tutto, anche quegli errori che consentono a noi comunisti del terzo millennio di avanzare su una base solida di esperienze e insegnamenti. Alle celebrazioni giuste e necessarie aggiungiamo un pezzo: imparare dagli insegnamenti e usarli, sperimentare, lottare per organizzare e costruire la rivoluzione socialista in un paese imperialista come il nostro. Essa è per i capitalisti un incubo che cercano di esorcizzare con divieti e messe al bando, mentre per i proletari è un sogno che dobbiamo e possiamo realizzare.
Osare sognare, osare lottare, osare vincere!