Intervista a Claudia Pinelli: “nessuno deve essere lasciato solo perché solo la solidarietà può far trovare la forza di andare avanti”.
Abbiamo raccolto l’intervista che segue alcuni giorni prima del 25 settembre, giorno del processo di Appello a Rosalba e a Vigilanza Democratica che si è chiuso con la conferma della condanna già emessa in primo grado.
Pubblichiamo l’intervista a sentenza emessa poiché il suo contenuto esula dalla contingenza del processo e aiuta anzi a comprendere il significato politico della condanna.
Abbiamo conosciuto Claudia alcuni mesi fa, in occasione di una iniziativa contro gli abusi in divisa: anche in quella occasione era emersa limpidamente la stessa lucida determinazione che traspare dalle sue parole a seguire. Le abbiamo chiesto la disponibilità a una intervista consapevoli dell’importanza di due aspetti che si combinano: l’omicidio di Pino Pinelli è un crimine figlio del suo tempo, di quel contesto, di quel clima, di quella “guerra sporca” dello Stato contro i militanti, gli attivisti, i rivoluzionari. Ed è “storia conosciuta” ai militanti e agli attivisti di lungo corso. Ma, questo è il secondo aspetto, appare come storia lontana, appunto ancorata a uno specifico contesto storico, sconosciuta, o almeno opaca, ai giovani che si affacciano alla vita su un mondo che la stessa classe dominante che ha ucciso Pino Pinelli sta devastando sotto ogni aspetto: economico, politico, civile, culturale. Nella pur breve intervista Claudia individua e indica le differenze fra il contesto di 50 anni fa, in cui suo padre fu assassinato, e la situazione attuale: è sulla base della consapevolezza di questa differenza che la sua testimonianza, la lotta sua e della sua famiglia per la verità e la giustizia, sono di estrema attualità. Sono di spinta, tanto per gli attivisti e i militanti di lungo corso quanto per quei giovani che si affacciano al mondo con l’impellente necessità di cambiarlo.
Rosalba è stata condannata anche in secondo grado di giudizio non per ciò che ha commesso o non ha commesso, ma perché ha sottoscritto una verità dura come il marmo, riassunta nella dichiarazione spontanea da lei resa nel processo di I grado, una verità che Claudia Pinelli riassume così: “E’ il sistema che deve cambiare, non basta la condanna del singolo, la mela marcia da offrire in pasto all’opinione pubblica. Il singolo opera all’interno di un sistema”.
La notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, precipita dal quarto piano della Questura di Milano dove era in corso il suo interrogatorio a seguito della strage di Piazza Fontana, avvenuta pochi giorni prima, il 12 dicembre 1969. Dopo la sua morte come e chi vi ha aiutato a contrastare l’isolamento, la denigrazione di cui siete stati oggetto e a provare a far luce sulle vere cause e responsabilità dell’assassinio di tuo padre?
Ricostruire tutto quello che è avvenuto non è semplice cercando di condensarlo in poche righe. Vediamo. Chi ci ha aiutate? Innanzitutto la grande capacità di reazione che ebbe Licia, mia madre, che in una situazione terribile come quella riuscì a imporsi di non cedere alla disperazione. Chiamò degli amici quella notte riferendo quello che le avevano detto i giornalisti che erano appena andati via. Non erano anarchici, erano amiche e amici di Licia e Pino, assistenti e professori universitari, alcuni del mondo cattolico, impegnati nelle lotte sociali di quegli anni. Si divisero i compiti, alcuni portarono a casa loro mia sorella e me, svegliate e vestite in fretta da Licia (avevamo 8 e 9 anni), altri accompagnarono Licia all’ospedale Fatebenefratelli, dove trovarono mia nonna che quella notte aveva dormito da noi e che si era precipitata da sola in ospedale.
Erano un piccolo gruppo di amici, sei-sette persone, che ci rimasero a fianco da subito, che cercarono di capire cosa fare, che aiutarono mia madre a trovare gli avvocati e le furono accanto il giorno dei funerali, che andarono in questura a riprendere il motorino con cui Pino era arrivato…che scrissero ai giornali, all’inizio inascoltati. Poi pian piano si sono levate voci sempre più dubbiose che coinvolsero nel tempo settori sempre più ampi della società civile di allora. Questo non ha comunque permesso che si arrivasse a un riconoscimento di responsabilità in un’aula di tribunale, tutte le denunce sono finite in archiviazioni, ma è servito perché si consolidasse una verità storica su quanto avvenuto.
Lo Stato, è responsabile sia della strage di Piazza Fontana che dell’omicidio di tuo padre (anche se non esiste una verità giudiziaria che lo confermi) eppure la tua famiglia ha accettato diverse volte di relazionarsi con chi lo rappresenta. Ci puoi spiegare le ragioni che vi hanno indotto a farlo? Credi che la ricerca di verità e giustizia per tuo padre ne sia uscita rafforzata? E in che modo? Hai ancora fiducia nelle Istituzioni?
Il nostro rapporto con le Istituzioni è stato decisamente limitato. Praticamente inesistente fino al 9 maggio 2009. Precedentemente a quel momento c’era stato solo il conferimento a mia mamma da parte della Provincia di Milano di una medaglia d’oro nel 1975.
Ci sono voluti 40 anni per avere l’unico momento di riconoscimento di giustizia ufficiale tributata a Pino Pinelli con l’invito alla giornata della Memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi da parte dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha riconosciuto Giuseppe Pinelli quale diciottesima vittima innocente della strage di piazza Fontana, “vittima due volte: di infondati sospetti e di un’assurda fine”. E’ stato un momento importante, anche se non ha cambiato le nostre vite se non perché sono aumentate le richieste di testimonianza da parte di realtà diverse. Credo che la Memoria, che comporta la continua denuncia della mancanza di verità e giustizia, non possa limitarsi ad ambienti ristretti, ma che le Istituzioni debbano affrontare quello di cui si sono rese responsabili. E spero e cerco di far sì che si arriverà al momento in cui non si avrà più paura della verità. Per il momento continuiamo a essere una piccola goccia d’acqua, ma persistente.
Pino Pinelli continua a essere scomodo, ma non sono bastati 50 anni per cancellare il suo ricordo e l’indignazione per l’atrocità della sua morte.
La fiducia nelle Istituzioni? Nulla è eterno e credo che ognuno può dare il suo contributo perché le cose e le menti cambino.
Tuo padre è morto mentre era in consegna allo Stato, e depistaggi e montature hanno segnato le indagini e il processo successivi, come è avvenuto in casi molto più recenti di presunti omicidi di Stato, vedi Stefano Cucchi o Giuseppe UVA. A tuo parere c’è un legame fra omicidi che coinvolgono persone tanto diverse e che si inseriscono in periodi storici così differenti? Se sì, in cosa consiste questo legame?
Non dimentico che Pino è morto perché anarchico e attorno agli anarchici furono messe in campo strategie e nefandezze che portarono alla sua morte. Negli anni, prima e purtroppo dopo, tanti sono stati i morti, nelle piazze e nelle strade per mano di persone che indossavano divise e che hanno avuto un ruolo di repressione delle istanze di cambiamento della società.
Senza nulla togliere alle persone che hanno perso la vita durante un controllo, o nelle carceri e nelle caserme per altri motivi. Con le dovute differenze, non posso che sentire vicinanza per tutti coloro che, vittime dello Stato, attraverso i loro familiari intraprendono il difficile percorso per cercare di scalfire le omertà e le responsabilità. La verità dovrebbe essere un diritto così come il riconoscimento delle responsabilità, sappiamo che non sono le Istituzioni che intervengono ma che devono essere i familiare a impegnarsi in questo difficilissimo e oneroso compito che comporta uno stravolgimento della vita di chi resta. Nessuno deve essere lasciato solo perché solo la solidarietà può far trovare la forza di andare avanti.
I familiari delle vittime di Stato, a fronte di sentenze giudiziarie che non contribuiscono a far avanzare la verità, anzi, e che li strangolano anche economicamente, si lasciano spesso travolgere dallo scoramento, non vedono la strada da percorrere per andare avanti. Cosa occorre fare, secondo te, perché la tua e le loro esperienze, i vostri sforzi, e anche le speranze che fate sorgere in chi guarda a voi non vadano disperse?
E come si può non capirli? Anche la mia famiglia a un certo punto disse basta a fronte del continuo rimbalzare contro un “muro di gomma” di continue archiviazioni che non ci hanno permesso di entrare in un’aula di tribunale, e a una vita messa alla gogna e scandagliata, perché sono le vittime ad essere messe sul banco degli imputati cercando di attribuir loro responsabilità in un gioco che troppe volte abbiamo visto. Cerchi di stare alle “regole” e ti accorgi ben presto che Giustizia non è un concetto universale. E allora continui a esserci, “spina nel fianco” di memorie condivise e pacificazioni perché, come disse Licia “giustizia è che tutti sappiano la verità” e una democrazia che ha paura della verità è incompiuta o inesistente.
Basta la controinformazione, la memoria, la ricerca di verità e giustizia (e quindi la condanna di un responsabile materiale) perché morti come quella di tuo padre non debbano più accadere?
Morti come quelle di mio padre non debbono accadere. Punto. E’ il sistema che deve cambiare, non basta la condanna del singolo, la mela marcia da offrire in pasto all’opinione pubblica. Il singolo opera all’interno di un sistema. Con la memoria, la ricerca, la controinformazione si è cercato e si cerca di incidere su questo. La strada è lunga e impervia, noi ci siamo.