Il quotidiano on line che seguiva da vicino il processo per l’omicidio di Riccardo Magherini diffidato dai Carabinieri
Il 30 marzo 2018 Rosalba Romano è stata condannata dal Tribunale di Milano a seguito della denuncia di Vladimiro Rulli, agente del VII Reparto Mobile di Bologna che si è sentito “diffamato” da un articolo in sostegno a Paolo Scaroni (ultras del Brescia reso invalido a vita dal pestaggio immotivato di celerini andati assolti – per ora – solo in virtù della mancanza del numero identificativo e dei depistaggi delle indagini) pubblicato sul sito Vigilanza Democratica. Il processo doveva stabilire se fosse stata Rosalba a pubblicare l’articolo sul sito (questo era il capo originario di imputazione, quello per cui Rosalba ha potuto difendersi), ma a fronte di un dossier vuoto, qualcosa doveva essere escogitato per “impartire una lezione”: non importa se Rosalba abbia scritto o meno quell’articolo, lo abbia o meno pubblicato, si sia avvalsa o meno dell’aiuto di altri redattori, sapesse o meno della pubblicazione di quell’articolo sul sito, Rosalba ha diffamato l’agente Vladimiro Rulli, in un modo o in un altro, e per questo è stata condannata. L’attacco dei Carabinieri contro il sito “La città invisibile” è molto similare all’attacco subito dal sito Vigilanza Democratica e da Rosalba Romano portato avanti dall’ex agente del VII Reparto mobile di Bologna Vladimiro Rulli: sono diverse le circostanze specifiche della denuncia di diffamazione, sono gli stessi sia il tentativo di procedere a censura una scomoda fonte di informazione e analisi, sia il tentativo di consolidare il muro di gomma attorno a corpi, reparti e singoli agenti che operano abusi e soprusi. Alla Redazione di “La città invisibile” la solidarietà del P.CARC.
Ornella, vi siete occupati negli anni scorsi della morte per mano dei carabinieri di Riccardo Magherini, culminata con l’assoluzione da parte della Cassazione. C’è stato però un “colpo di coda” nei vostri confronti, ce lo puoi raccontare?
Abbiamo ricevuto di recente da uno Studio legale di Roma, per conto di due carabinieri coinvolti nel caso di Riccardo Magherini, una diffida a rimuovere due articoli pubblicati sulla nostra Rivista a firma di Luca Benci. Nel primo di questi articoli: “Processo Magherini: quale giustizia senza il reato di tortura”, pubblicato il 9 febbraio 2015, commentavamo il rinvio a giudizio e l’imminente celebrazione del processo di primo grado lamentando le difficoltà di istruire un processo per omicidio colposo: e i fatti ci hanno dato ragione. Auspicavamo l’introduzione, anche in Italia, del reato di tortura – approvato due anni e mezzo dopo con l’articolo 613 bis del codice penale – che, sin da allora, avrebbe consentito di sanzionare alcuni comportamenti delittuosi (i calci in faccia a persona immobilizzata e privata della libertà personale) indipendentemente dalla consapevolezza degli agenti delle conseguenze dannose che essi possono provocare ed hanno provocato (cioè l’elemento psicologico del reato ed il nesso causale). Il Tribunale, prima e la Corte di Appello di Firenze, dopo, hanno comunque condannato per omicidio colposo i carabinieri, riconoscendo che il loro comportamento – la trascuranza delle conseguenze della protrazione dell’immobilizzazione di Riccardo Magherini – è stato una delle concause della sua morte. La Corte di Cassazione, invece, ha assolto i carabinieri, ritenendo che fosse mancato l’elemento psicologico del reato. Ma, al contrario di quanto viene affermato nella diffida dello Studio legale di Roma, la Cassazione non ha “escluso la responsabilità degli Agenti”, visto che ha precisato che la sentenza di condanna della Corte di Appello di Firenze non presentava “vizi di legittimità in relazione al percorso motivazionale relativo alla sussistenza del nesso di causalità tra il protrarsi della posizione supina in cui il Magherini è stato tenuto e l’evento successivamente realizzato (la morte ndr), quanto meno in termini di accresciuta difficoltà di un successivo intervento terapeutico salvifico” (pag. 51). Quello che la Cassazione ha invece accertato è che sarebbe mancato “l’elemento psicologico del reato”, cioè la colpa, sul presupposto che i carabinieri non avrebbero potuto essere in grado di valutare che la protrazione della immobilizzazione da loro operata potesse portare alla morte nonostante quella persona avesse smesso di urlare e agitarsi già da qualche minuto. Più semplicemente: i giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto che i carabinieri avessero la competenza per accorgersi di quanto stava accadendo (cioè che Riccardo Magherini stesse morendo); i giudici di legittimità invece no. Hanno ritenuto, cioè, che solo all’esito di uno specifico corso di formazione (che è stato introdotto nei mesi successivi) avrebbero potuto avere contezza delle possibili conseguenze del loro operato. Noi abbiamo dato conto di questo percorso motivazionale criticandolo, come nostro diritto, in quanto riteniamo che la professionalità delle forze dell’ordine – a cui lo Stato demanda l’uso legittimo della forza fisica – doverosamente impedisca loro di utilizzare la forza in danno ai cittadini fino a essere causa – e, in questo caso, concausa – della morte. Ecco allora il nostro titolo: Magherini è morto nel mese sbagliato, articolo del 3 dicembre 2018. Perché, a seguire il ragionamento della Cassazione, dopo aver frequentato il corso di formazione di “postuma” introduzione, ai carabinieri sarebbe stata contestata la sussistenza dell’elemento psicologico del reato. L’unico elemento che abbiamo stigmatizzato – e lo ribadiamo – è la nostra preoccupazione su certa “cultura” che talvolta è presente nelle forze dell’ordine. Sui social, uno dei carabinieri coinvolti, si presentava come “pistolero”, pubblicando foto inneggianti a Mussolini e rilanciando post del movimento neofascista di Forza Nuova (immagini a tutt’oggi reperibili in Rete). Lo Studio legale di Roma, per conto di due dei carabinieri coinvolti, ci chiede di rettificare e/o rimuovere i due articoli che hanno, a loro dire, contenuto diffamatorio senza però indicare quali siano i contenuti stessi. Ci diffidano inoltre dal “proseguire” nell’attività diffamatoria, anche in questo caso senza specificare altro. Qui trovate la loro diffida, fatevi una vostra opinione leggendola. Abbiamo dato conto dei fatti e non abbiamo nei nostri articoli diffamato alcuno. Per questo riteniamo inaccettabile un intervento un intervento censorio nei confronti della nostra Rivista che non possiamo che respingere.
Ti chiedo una riflessione sulla teoria delle cosiddette “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine e dei carabinieri in particolare, dato che a Firenze si sono distinti – oltre al caso in questione – per lo stupro delle due studentesse americane e la bandiera neonazista esposta alla caserma Baldissera: è un problema di singoli elementi isolati o ci sono seri problemi nella catena di direzione e nello “spirito” di questo corpo?
L’11 marzo dell’anno scorso siamo stati al Cantiere Sociale Camilo Cienfuegos di Campi Bisenzio a parlare di carcere con Salvatore Ricciardi, che presentava il suo libro Cos’è il carcere, pubblicato da Derive Approdi. Militante delle Brigate Rosse arrestato nel 1980, che di carcere e di forze dell’ordine ne sa molto, interrogato in merito ha detto chiaramente che il problema “non sono le mele marce, ma il fruttarolo”. E’ evidente che le forze dell’ordine operano come uno strumento repressivo che si nutre in buona parte di machismo, superomismo, oltre che di violenza e sopraffazione. Vogliamo ricordare Genova? Oltre ai tanti episodi di abusi in divisa? Questo strumento si riversa contro singoli specialmente se marginali o fragili, e contro movimenti sociali che operano per un cambiamento dell’esistente.
Anche l’episodio della bandiera neonazista esposta nella caserma Baldissera è significativo: nel corso dell’indagine sulla vicenda lo stesso procuratore De Paolis ebbe a dire che per legge la norma secondo cui è reato esporre una bandiera che evoca il nazismo vale per i civili e non per i militari.
Sono emersi negli ultimi anni molti casi di abusi in divisa, oltre a quello di Riccardo citiamo gli episodi di Cucchi, Aldrovandi, Uva, Scaroni e tanti altri meno “famosi” ma portati comunque all’attenzione pubblica da organizzazioni come ACAD, giornali e giornalisti indipendenti come la vostra testata, parenti e amici che non si sono arresi a laconici comunicati o telefonate nella notte con cui si annunciava la morte di un proprio caro: quali sono le prospettive che vedi per allargare questo fronte di lotta? Quali strumenti sono necessari per legare la lotta alla repressione e contro gli abusi in divisa a quella per la trasparenza della catena di comando e responsabilità e il diritto all’informazione sancito dall’articolo 21 della Costituzione?
Fondamentale nella denuncia e nella lotta contro gli abusi in divisa è il protagonismo sociale, sia di soggetti organizzati, anche partiti e sindacati, che devono svolgere vigilanza e controinformazione, sia di soggetti meno strutturati, gruppi di attivisti che esercitano vigilanza e controllo popolare. Tutto questo andrebbe sostenuto da chi ha competenze e strumenti adeguati. Non si può lasciare all’iter giudiziario, che pure va perseguito con determinazione come ha dimostrato il caso Cucchi, una difesa di diritti che deve essere patrimonio dei movimenti e dei militanti che si battono contro una repressione che sta mostrando un volto sempre più nero. In questo contesto, fondamentale è il ruolo attivo dei parenti delle vittime degli abusi, che vivono sulla propria pelle le violenze di un sistema che colpisce e reprime chi non si adegua a norme sempre più liberticide, come il decreto sicurezza e le zone rosse dimostrano.