L’insegnamento che traiamo dall’esperienza di Gramsci per vincere la lotta contro la repressione (versione corretta)

Ripubblichiamo l’articolo posto su questo sito il 21 giugno con correzioni. La versione pubblicata infatti conteneva i seguenti errori , che segnalo.

  • Nella prima versione citiamo impropriamente  il V Congresso dell’IC, che fu convocato nell’aprile 1924 e si svolse nel luglio 1924 – L’autore confonde il V con il IV congresso (5 novembre-5 dicembre 1922) – vedi Note di un pubblicista febbraio 1922 vol. 33 pag. 188-190 e Relazione al IV Congresso 13 novembre 1922 vol. 33 pag. 396-397]. Il riferimento all’IC in questa versione è tolto.
  • Nella prima versione diciamo che Gramsci “confidò nella benevolenza di Mussolini”. L’affermazione è sbagliata. Gramsci, come è noto, non si piegò mai di fronte al regime né pensò di fare leva su sentimenti di benevolenza o misericordia di chi lo condusse a morte. Ciò che fece secondo quanto scritto da Fabre, fu di pensare che Mussolini a un certo momento poteva essere spinto a liberarlo per volontà che il regime mantenesse una facciata democratica a livello internazionale. La questione richiede quindi un approfondimento ulteriore, e quindi qui è tolta.
  • La data del processo nella prima versione è indicata nel giugno 1926. In realtà si tratta del giugno 1928. Gramsci infatti nel 1926 (a novembre) fu arrestato, e processato due anni dopo.

Il 19 giugno rivoluzionari e comunisti in ogni parte del mondo celebrano la Giornata Internazionale del Rivoluzionario Prigioniero (GIRP) per ricordare la rivolta dei prigionieri politici peruviani soffocata nel sangue dal governo socialdemocratico di Alan Garcia il 19 giugno del 1986.

Quel giorno l’Esercito e la Marina Militare uccisero con veri e propri bombardamenti ed esecuzioni sommarie circa trecento compagni e compagne del Partito Comunista Peruviano. Il massacro si consumò nelle carceri di El Fronton, Lurigancho ed El Callao, negli stessi giorni in cui era ospitato nel paese il Congresso dell’Internazionale Socialista. Da quel momento la data del 19 giugno è stata assunta dal Movimento Comunista Internazionale come simbolo della lotta alla repressione e della solidarietà proletaria.

La Carovana del (n)PCI di cui il P.CARC è componente fino dalla fine degli anni ’80 dello scorso secolo non si limita a celebrare la ricorrenza, a esaltare l’eroismo dei martiri e a denunciare i loro assassini. Trae dai fatti insegnamenti e li diffonde.  Definisce le linee di sviluppo sulla lotta alla repressione, elemento fondamentale della rivoluzione socialista in corso nel nostro Paese, primo fronte del Piano Generale di Lavoro nella guerra contro il nemico secondo quanto stabilito dal (nuovo)Partito comunista italiano. In particolare quest’anno la GIRP coincide con l’avvio della costruzione di un nuovo settore di lavoro del P. CARC, quello della lotta contro la repressione, così come deciso dal V Congresso del Partito (gennaio 2019)

Coincide anche con l’ottantunesimo anniversario della condanna di Antonio Gramsci da parte del regime fascista, avvenuta il 4 giugno 1928. La Commissione Gramsci del P.CARC in questo anniversario, porta il suo contributo allo sviluppo del nuovo settore che il Partito costruisce tirando un bilancio dell’esperienza del processo a Gramsci e della condotta con cui affrontò il processo e che non gli evitò di essere schiacciato dalla repressione e di venire, di fatto, condannato a morte nelle carceri fasciste.

Questa vicenda viene ricostruita molto in dettaglio nel libro di Giorgio Fabre Lo scambio(Ed. Sellerio – Palermo, settembre 2015), in cui viene parzialmente sbrogliata l’ingarbugliata matassa di fatti che condussero, alla fine, a “come Gramsci non fu liberato”. Il merito e la novità del libro di Fabre consiste nel concentrare l’attenzione sui limiti della strategia messa in campo dai comunisti italiani e da Gramsci stesso che, dal carcere, provò ad attivarsi in prima persona per la sua liberazione.

I tentativi di ottenere la liberazione di Gramsci dal carcere, tramite complesse operazioni di trattativa e mediazione, furono essenzialmente tre.

Il primo fu quello collegato ad una mediazione del Vaticano tra il governo fascista e quello sovietico. Prevedeva lo scambio tra Gramsci e alcuni vescovi prigionieri in URSS e si rivelò inconsistente e inefficace.

Il secondo fu quello che Gramsci definì il “tentativo grande” . Approfittando di un momento relativamente positivo delle relazioni Italia – URSS (Patto di Amicizia del settembre del 1933) e facendo leva anche sulla buona condotta del detenuto (in quel periodo c’era stata un’amnistia per il decennale della marcia su Roma ed erano state modificate in senso meno restrittivo alcune norme del codice penale) Gramsci pensò si potesse attivare nuovamente la triangolazione tra  URSS, Vaticano e governo fascista. La cosa si risolse solo nel riconoscimento di una “libertà condizionale” che presto si rivelò essere uno strumento per stringere ulteriormente le maglie del controllo da parte del governo.

Il terzo ultimo e disperato tentativo di un Gramsci ormai quasi del tutto sfiduciato consistette nel chiedere che gli fosse concesso l’espatrio in Russia per ricongiungersi alla famiglia anche in virtù delle sue gravi condizioni di salute che lo portarono alla morte nel 1937.

Durante tutta la sua vicenda processuale e carceraria Gramsci fu assolutamente fermo nell’opporsi a qualsiasi campagna politica per la sua liberazione. La linea definita prevedeva di non presentarsi pubblicamente come massimo dirigente del Partito Comunista, tanto che ad una lettera scritta da Ruggero Grieco nel 1928 e indirizzata a lui, a Scoccimarro e a Terracini, in cui esplicitava il suo ruolo di dirigente del Partito, Gramsci reagì molto bruscamente.

Questa linea politica è frutto di limiti che caratterizzavano il gruppo dirigente del partito nel suo complesso. L’arresto di Gramsci, infatti, non solo privò il Partito Comunista Italiano del suo più importante dirigente, ma interruppe il processo di bolscevizzazione[1]che aveva avviato e impedì dunque di affrontare e risolvere quei limiti di assimilazione della concezione del mondo che si portava dietro dalla sua costituzione (il PCI era nato come scissione di una costola del vecchio PSI) . Erano limiti attinenti alla comprensione della natura e della causa della crisi,[2]  della forma e strategia della rivoluzione socialista, della natura del Partito comunista, in virtù dei quali  il PCI fu preso di sorpresa dall’avvento del fascismo e dall’inasprimento del carattere reazionario del suo regime, si diede un’organizzazione clandestina solo quando fu costretto dagli eventi a farlo e rimase sostanzialmente il partito organizzatore delle lotte rivendicative e della rappresentanza della classe operaia nelle istituzioni della borghesia. Non riuscì, in sintesi, a sviluppare autonomia ideologica, politica e organizzativa dalla borghesia e non riuscì a darsi i mezzi per costruire la rivoluzione socialista nelle condizioni particolari che caratterizzavano l’Italia.

Questi limiti si rifletterono nella condotta del partito e dello stesso Gramsci nel corso del “processone” e della vicenda della detenzione di Gramsci e del gruppo di testa del partito. In particolare, Gramsci confidò di potere ottenere la liberazione grazie a soggetti come il Vaticano, o tramite Mariano d’Amelio, dal 1923 primo presidente della Corte di Cassazione (e quindi carica più alta nella magistratura italiana), zio di Piero Sraffa. l’economista borghese che fu amico di Gramsci e mantenne relazioni con lui durante tutto il periodo carcerario. Non fece leva sulla mobilitazione e l’organizzazione delle masse popolari, facendo della lotta contro la repressione, della resistenza alla repressione e della solidarietà proletaria un terreno della promozione della guerra rivoluzionaria che i comunisti devono condurre e vincere in Italia.

Cedette, infine, nonostante la fermezza della sua volontà e il supporto dell’Unione Sovietica, che  lo sostenne con ogni mezzo, con continuità e attenzione quotidiana tramite Tatiana Schucht, la cognata di Gramsci, che dedicò la sua esistenza a seguirlo durante tutto il periodo della prigionia.

L’eroica resistenza di Gramsci e del gruppo dirigente comunista, e la stessa comprensione da parte di Gramsci della forma della rivoluzione socialista (guerra di posizione come guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata), della natura del Partito Comunista (quello che chiamò Il Moderno Principe) e della trasformazione particolare cui devono sottoporsi i comunisti dei paesi imperialisti[3]non bastarono. Non furono sufficienti per elaborare una strategia adeguata per arrivare alla liberazione di Gramsci e degli altri dirigenti del PC arrestati nel “processone” del giugno 1928.

La carovana del (n)PCI è erede e continuatrice del primo movimento comunista italiano e dell’opera di Gramsci e del primo PCI per fare dell’Italia un nuovo paese socialista e da quell’esperienza ha tratto bilancio per superarne i limiti che ci hanno impedito di vincere. Sin dall’inizio della sua storia è controllata e perseguitata dalla repressione e, dunque, ha potuto accumulare una lunga esperienza nella lotta contro di essa.

In particolare ha tratto i seguenti insegnamenti:

– Il Partito Comunista deve necessariamente costituirsi e svilupparsi nella clandestinità, non principalmente per sfuggire alla repressione o per difendersi da essa, ma per essere libero di tessere la tela del Nuovo Potere delle masse popolari organizzate indipendentemente dalle manovre e dalle operazioni più o meno sporche che le Forze dell’Ordine della borghesia possono mettere in pratica per contrastare la mobilitazione rivoluzionaria.

– Per resistere e lottare efficacemente contro la  repressione l’aspetto principale non è costituito principalmente dalla ricerca di appigli legali o dalla spinta a intervenire imposta a esponenti della borghesia (tantomeno dalla ricerca della loro “benevolenza”), ma dalla mobilitazione delle masse popolari a ribaltare la repressione contro chi la alimenta, passando da accusati ad accusatori, alimentando la solidarietà e sfruttando le contraddizioni in campo nemico spingendo a prendere posizione i sinceri democratici, gli esponenti della sinistra borghese e sindacale (“metterne dieci contro uno”).

– Il Partito comunista può rovesciare l’arma della repressione della borghesia nei suoi confronti, rovesciargliela contro e così rafforzarsi. Così ad esempio oggi la borghesia imperialista può esitare nel reprimere i comunisti con la ferocia che vorrebbe, perché ciò incrementerebbe tra le masse popolari l’odio nei suoi confronti e indurrebbe molti ad andare a ingrossare le file del partito clandestino.

Il settore delle lotta contro la repressione in via di ricostruzione fa tesoro della campagna di solidarietà che il Partito sta conducendo per Rosalba Romano, compagna del P. CARC, “colpevole” di aver denunciato gli abusi delle forze dell’ordine e per questo condannata per diffamazione. Una campagna che mette al centro la mobilitazione delle masse popolari e lo sviluppo del loro legame con i comunisti che è l’unica fonte da cui traiamo la nostra forza e la nostra legittimità, l’unica fonte da cui sgorga il Nuovo Potere che sostituisce quello della borghesia e le sue Forze dell’Ordine.

Chiamiamo pertanto tutti i comunisti, i sinceri democratici, coloro che sono interessati a cambiare il corso delle cose ad esprimere solidarietà a Rosalba, a schierarsi, a metterci la faccia, a farsi sentire. Come?

– attraverso dichiarazioni pubbliche (testi, video);
– attraverso fotografie;
– portando il caso nelle istituzioni;
– partecipando alla raccolta di fondi per sostenere le ingenti spese a cui è stata
condannata

Partito dei CARC, Commissione Gramsci

21 giugno 2019

[1]La “bolscevizzazione” era il processo tramite cui i partiti comunisti dei vari paesi e quelli dei paesi imperialisti in primis si trasformavano secondo i criteri che avevano consentito ai bolscevichi in Russia di conquistare il potere, e lasciando alle spalle o abolendo tutti i criteri e metodi dei vecchi partiti socialdemocratici, tra i quali il Partito Socialista Italiano, che avevano fallito nel compito di portare il proletariato alla vittoria e anzi lo avevano consegnato nelle mani della borghesia che ne aveva fatto strage nella Prima Guerra Mondiale.

[2]Nemmeno Gramsci superò questo limite. Mantenne una concezione sbagliata della crisi anche nell’ultima parte della sua vita, in prigionia. Vedi Gramsci e la crisi generale del capitalismo, in http://www.nuovopci.it/voce/supplementi/Gramsci_Crisi/Gramsci_e_la_crisi.html

[3]I comunisti dei paesi imperialisti per diventare capaci di costruire la rivoluzione socialista nei loro paesi devono portare a termine un percorso di riforma intellettuale e morale che è processo di critica, autocritica e trasformazione. Comunisti si diventa, e bisogna pure passare esami pratici e teorici. L’idea di essere comunisti per autocertificazione, perché “desideriamo il comunismo” o perché non ci va bene lo stato di cose esistente è uguale all’idea di essere produttore di cibo e cuoco perché desideriamo mangiare e non ci sta bene morire di fame.

 

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