Un compagno, poco prima delle elezioni europee, ci ha inviato le sue considerazioni (che riportiamo in appendice) in merito all’articolo [Italia] Sull’Europa, le europee, la sovranità e il socialismo pubblicato il 7 maggio scorso. Intendiamo cogliere la sua attitudine al dibattito e alla riflessione per rispondere nel merito di alcune questioni che il compagno solleva, che riteniamo utili ai fini della comprensione del corso delle cose e del “che fare”. Strutturiamo, quindi, il nostro contributo a questa discussione partendo dalle principali questioni contenute nel commento, certi che questo scambio non sarà utile solamente al compagno in questione ma a tutti quelli che oggi si chiedono come va il mondo e quali siano le soluzioni da praticare per uscire dal marasma in cui siamo inseriti.
Nel suo commento, Vittorio, parla del primo articolo della Costituzione italiana e al riferimento alla “sovranità che appartiene al popolo” in esso citata. Il compagno si riferisce a una delle parti progressiste della Costituzione frutto della Resistenza al nazifascismo promulgata nel 1948. A questa si aggiungono tanti altri importanti passaggi e diritti quali il diritto al lavoro, alla libertà di espressione, di organizzazione, di stampa ecc. Si tratta di norme conquistate dalle masse popolari sotto la guida del movimento comunista durante la Resistenza, in un contesto mondiale in cui le enormi conquiste di cui godevano le masse popolari dell’Unione Sovietica costringevano i paesi imperialisti a rincorrere sul terreno dei diritti politici, sociali e civili. Ovviamente tali diritti all’interno del sistema borghese non hanno potuto essere che transitori, declamati e inattuati: prova ne sia che la Costituzione italiana, sin dalla sua promulgazione, non sia mai stata veramente attuata. Questo perché è impossibile far coincidere gli interessi degli imperialisti, dei padroni e delle altre classi di sfruttatori con quelli degli operai, dei lavoratori e delle altre classi popolari: gli interessi dei primi si poggiano sullo sfruttamento dei secondi, gli interessi dei secondi si fondano sulla liberazione dallo sfruttamento dei primi.
Il discorso appena fatto è valido soprattutto quando parliamo di “sovranità” e di “sovranità che appartiene al popolo”. Nel caso della “sovranità” vediamo come nel nostro paese questa sia sempre stata limitata e azzoppata. Basta guardare al fatto che l’Italia è disseminata di basi militari, di installazioni e agenzie USA e israeliane, che le sue istituzioni sono infiltrate di consiglieri e controllori americani, inglesi, sionisti, tedeschi, che il governo copre con il segreto politico e militare cause, autori e obiettivi di attività, crimini e avvenimenti di enorme importanza, che la Corte Pontificia esercita di fatto da sempre un ruolo sovrano (in termini politici, economici e culturali). Nel caso, invece, della “sovranità che appartiene al popolo” vediamo come a fronte dei mille ambiti di partecipazione alla vita sociale del regime borghese le decisioni, quelle vere, passino sempre sopra la testa delle masse popolari, nelle stanze dei bottoni, dietro le quinte del teatrino della politica borghese. In entrambi i casi dobbiamo far valere un principio importante: la sovranità in sé non esiste, essa è legata all’esercizio di un potere di una classe.
La sovranità dei borghesi si fonda sul contrasto di interessi tra stati, sulla competizione economica dei capitalisti per la valorizzazione del proprio capitale, sull’oppressione dei paesi imperialisti sui paesi oppressi, sullo sfruttamento dei capitalisti verso le masse popolari. Questo è l’esercizio del potere e della sovranità per i capitalisti al quale si contrappone l’esercizio del potere e della sovranità delle masse popolari, che si fondano sulla liberazione della produzione di beni e servizi dalla speculazione dei padroni, sul diritto al lavoro, alla casa, alla sanità, alla cultura e alla partecipazione universali, sulla gestione sociale collettiva e organizzata dalle masse popolari per le masse popolari. Si tratta di due mondi e di due campi completamente differenti e inconciliabili.
Quanto Vittorio dice che i media e i partiti di regime «continuano ad associare al termine “sovranismo” i più estremi nazionalismi, i nazi fascisti, i razzisti e gli xenofobi, dimostrando la grave deriva di quello che un tempo doveva essere un partito di sinistra», coglie un aspetto importante. La tendenza a organizzarsi per conquistare la sovranità è presente nel campo delle masse popolari, proprio perché è uno degli ambiti in cui esse, sulla base della propria esperienza pratica intuiscono un campo di contraddizione del sistema borghese che abbiamo appena evidenziato.
Il punto è che anziché sbracciarsi a vedere quanto gli operai, i lavoratori e le masse popolari che partecipano, sostengono o votano chi promuove questi temi siano razzisti, fascisti o xenofobi (alla maniera della sinistra borghese che così facendo finisce per reggere la coda del PD e dei poteri forti del nostro paese), bisogna valorizzare questa spinta e incanalarla verso il tipo di sovranità che occorre alle masse popolari, che tutela gli interessi popolari e non quelli dei capitalisti. Questa sovranità, se la leghiamo alla lotta di classe in corso, significa innanzitutto: 1. tenere aperte le aziende che chiudono e delocalizzano (contro lo smantellamento del tessuto produttivo e il saccheggio dello stesso da parte dei capitalisti stranieri), lottare affinché vengano nazionalizzati i settori strategici in crisi e non venga ceduto alcun posto di lavoro; lottare affinché si creino nuovi posti di lavoro; 2. respingere i tentativi dell’UE di decidere delle politiche economiche del nostro paese, rompere con le leggi in campo economico imposte dalla UE e contrastare i suoi ricatti economici (debito pubblico, spread ecc.); 3. contrastare l’ingerenza della NATO nel nostro paese (missioni “umanitarie”, basi NATO a uso e consumo straniero, privilegi agli USA e ai loro sodali, partecipazione alle sanzioni ad altri paesi ecc.); 4. contrastare il ruolo del Vaticano attraverso una lotta per abolire i suoi privilegi (patti lateranensi) e influenza.
Per noi comunisti è decisivo che le masse popolari del nostro paese, a partire dagli elementi più avanzati tra di esse, si mobilitino sempre di più su questi punti, a prescindere da quali siano le loro idee politiche o concezioni di partenza. La mobilitazione e l’organizzazione collettiva che dovranno mettere in campo su questi ambiti, grazie alla guida e al sostegno dei comunisti, rappresenteranno una scuola pratica in cui eleveranno anche la loro coscienza, la loro capacità di organizzazione e la loro visione del mondo. Per questo facciamo valere il principio che i comunisti devono essere ovunque ci siano le masse popolari per contenderne mente e cuore al nemico di classe. Più che denigrare gli operai, i lavoratori e le masse popolari “sovraniste”, quindi, bisogna puntare organizzarle!
Nel suo commento, inoltre, Vittorio coglie un aspetto decisivo per analizzare la fase attuale. Nel procedere della seconda crisi generale del sistema capitalista il distacco tra le condizioni materiali e di vita delle masse popolari e quelle dei capitalisti aumenta sempre di più.
Questa tendenza è una tendenza oggettiva del capitalismo che dobbiamo leggere su due assi: da un lato il fatto che il sistema capitalista per sua natura non può fare altro che alimentare il carattere collettivo delle forze produttive (per produrre qualsiasi bene e servizio è necessaria l’opera comune di sempre più individui, sempre più operai e lavoratori da sfruttare per valorizzare il capitale); dall’altro il fatto che le diseguaglianze sono intrinseche al sistema capitalista e sono irriformabili, l’unico modo per liberare le forze produttive è liberare la società dagli sfruttatori, dai capitalisti.
Altro spunto importante riguarda la denuncia che fa Vittorio della propaganda dei media di regime quando giustificano il il ritiro delle conquiste e dei diritti delle masse popolari (Fiscal compact, jobs act, austerity ecc.) con il fatto che i lavoratori e il resto delle classi oppresse godano di troppi diritti. Questa cosa per i capitalisti è vera, nella misura in cui questi diritti e conquiste già li hanno dovuti ingoiare grazie alla forza del movimento comunista nel secolo scorso e che, a fronte della crisi generale del sistema capitalista, rappresentano un intralcio alla valorizzazione del capitale e allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo su cui essa si poggia. È falsa invece per gli operai e i lavoratori: perché il problema dell’incompatibilità dei loro diritti e di una loro vita utile e dignitosa, sta nell’incompatibilità di interessi tra le masse popolari e il sistema capitalista. Il problema non sono i diritti di cui godono, perché se li sono conquistati con dure lotte e sacrifici, le masse popolari, il problema è il capitalismo, il sistema sociale oggi vigente che va abbattuto.
Alla luce di questo invitiamo, invece, il compagno a ragionare sul passaggio in cui dice che “per uscire dalla crisi servissero come minimo politiche keynesiane tipo Roosevelt con il Newdeal dopo la grande recessione”. Le politiche keynesiane sono un tentativo da parte della borghesia di mettere una toppa agli squarci del sistema capitalista. Ma una toppa è una toppa, non è la soluzione. Nel corso della prima crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale del secolo scorso, la ripresa economica per i capitalisti non avvenne attraverso le politiche keynesiane, avvenne per mezzo di due guerre mondiali che distrussero gran parte del capitale sovraprodotto favorendo l’avvio di una nuova fase di accumulazione. Le politiche keynesiane e più in generale le leggi e riforme dello stato sociale, erano piuttosto misure e norme che i capitalisti dovevano darsi per fronteggiare la forza del movimento comunista a livello internazionale e la fiducia e lo spirito di ribellione che questo stimolava alle masse popolari di tutto il mondo. Si trattava, quindi, di una toppa messa dai capitalisti per fronteggiare l’avanzata della prima ondata della rivoluzione proletaria. Il fatto che oggi ci troviamo immersi nella seconda crisi generale del capitalismo e che i capitalisti sempre più tentino di farvi fronte con il ritiro delle conquiste delle masse popolari, con le guerre di sterminio e saccheggio dei paesi oppressi e con la tendenza crescente alla guerra tra gruppi imperialisti stessi, è la prova che una toppa (keynesismo, stato sociale ecc.) non è una soluzione. Una toppa è una toppa.
Le condizioni oggettive in cui siamo immersi mostrano chiaramente che l’unica soluzione di prospettiva per le masse popolari del nostro paese è rompere con la catena dei gruppi imperialisti e fare dell’Italia un paese socialista. Esperienze come Cuba, Venezuela, Corea del nord e altre ci mostrano che è possibile fare fronte agli attacchi degli imperialisti senza dover chinare la testa. Le esperienze della prima ondata della rivoluzione proletaria ci mostrano invece che il primo paese che rompe le catene dell’imperialismo apre la strada a tutti gli altri e che sta ai comunisti di ogni paese riuscire nell’impresa di costruire la rivoluzione socialista.
Oggi in Italia costruire la rivoluzione socialista significa sfruttare la fase politica straordinaria che consiste nella breccia che le masse popolari hanno aperto il 4 marzo 2018 con il voto alle politiche, confermata dal grande fermento di lotte, mobilitazioni e iniziative dell’ultimo anno, confermata, inoltre, dal voto alle elezioni europee del 26 maggio scorso. Approfittare di questa situazione significa alimentare sempre più la parte offensiva della resistenza spontanea delle masse popolari, imporre al governo M5S-Lega il rispetto delle misure favorevoli alle masse popolari che ha promesso di realizzare e contrastare le misure antipopolari. Sarà questa una scuola pratica in cui imparare a organizzarsi di più e meglio, una scuola con cui le masse popolari comprenderanno per esperienza diretta qual è il governo che serve a far fronte agli interessi popolari, un Governo di Blocco Popolare.
Il Governo di Blocco Popolare sarà l’altra grande scuola in cui i lavoratori e le masse popolari del nostro paese impareranno non solo a far fronte agli effetti più gravi della crisi, ma ad andare fino in fondo nella lotta di classe contro i padroni. Si prenderanno il potere, facendo dell’Italia un nuovo paese socialista.
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La sovranità: a seguito degli sviluppi politici ultimi si sente spesso tirare in ballo questo termine, ma più per questioni di facciata che per un reale desiderio di applicare il primo articolo della costituzione italiana da parte delle forze politiche. D’altro canto i partiti che si definiscono europeisti, capeggiati dal PD e dalla sua opposizione priva di proposte e ricca soltanto di retorica e vuoti concetti senza alcun prospetto di realizzazione pratica, continuano ad associare al termine “sovranismo” i più estremi nazionalismi, i nazi fascisti, i razzisti e gli xenofobi, dimostrando la grave deriva di quello che un tempo doveva essere un partito di sinistra. Sovranità è quindi in realtà un principio da far valere perché consiste nella applicazione, democratica, di quella che è la volontà della popolazione. Ultimamente le politiche di austerity e di privatizzazioni dell’ Unione Europea mi hanno fatto sembrare questa organizzazione sovranazionale come anti sovranista e antidemocratica, più in generale un estremo meccanismo del neo liberismo per proseguire la completa proletarizzazione del ceto medio in determinati paesi, azzerando i suoi diritti sociali, e dando realtà ad un’ altra previsione marxiana: la creazione bipolare e dialettica di 2 sole classi sociali, pochissimi super ricchi e moltissimi poveri sempre più poveri. D’altronde l’economia capitalistica che si sostituisce alla politica porta a questo. Tutte queste politiche di tagli alla spesa pubblica, fiscal compact, patto di stabilità ecc. sono giustificate dai media e dai servi del capitale in nome del cosiddetto “debito pubblico”. Viene continuamente ripetuto alla popolazione inerme ai bombardamenti mediatici che ha vissuto troppo al di sopra delle sue possibilità, troppi diritti, gente in pensione troppo presto… E che quindi TINA, “there is no alternative”. Con questo dogma Thatcheriano ne approfitto per tornare agli anni 70, periodo di origine del famigerato debito pubblico, pur ricordando che la spesa pubblica da quegli anni (dal 1974 fino al 2000 circa) è passata solamente dal 42.2% al 42.9% e non è quindi da ascrivere a ciò l’aumento continuo del debito. A seguito della guerra in Kippur del 73 ha origine per le forze occidentali, filo israeliane, la grande crisi petrolifera del 74, a cui farà seguito quella del 79. Si scatena quindi l’inflazione, la quale ha il suo picco nel 74-75 per poi scendere e tornare a salire nel 79 per poi scendere nuovamente in Italia come in tutti i paesi europei per la fine della crisi petrolifera. Nel 75 viene introdotta, tramite un accordo fra sindacato e Confindustria la scala mobile, provvedimento necessario per dare i mezzi alle classi più umili di sopravvivere all’aumento dei costi dei beni. Il debito pubblico passa dal 40% al 60% in circa 10 anni visto che i risparmiatori, colpiti dalla inflazione, chiedono tassi di interesse più alti; visto il basso numero di obbligazioni di stato vendute ( il 50% nel 75) Tesoro e Banca d’Italia si accordano affinché la banca acquisti i titoli invenduti, finanziando di fatto la spesa pubblica con nuova moneta creata dal nulla (poteva finanziare la spesa solo fino al 14% se non sbaglio) e non creando inflazione perché se si investe nuova moneta in settori produttivi non c’è inflazione. Nel 1981, dopo l’entrata nello SME, anche per sottostare ai loro canoni, Andreatta e Ciampi compiono il divorzio e cambiando i meccanismi d’asta, dove non è più il Tesoro a decidere i tassi di interesse ma il mercato, spianano la via agli speculatori e gli spropositati tassi di interesse fanno raddoppiare il debito, arrivando al 120%. Da lì abbiamo iniziato a perdere diritti sociali e sovranità, schiavi di speculatori esteri, tolta la scala sociale, aumentata l’iva e ridotti gli scaglioni fiscali da 32 ad 8 nell’83 (fino ai 5 di ora), quando è finita la crisi petrolifera, questi provvedimenti liberisti sono passati per i veri salvatori dalla inflazione. E ora con la BCE che per statuto non è prestatrice di ultima istanza e che si adopera per mantenere l’inflazione sotto il 2% a costo di una disoccupazione italiana sopra il 10% la situazione è certamente peggiorata. Non serve essere comunisti per capire che un parlamento europeo che conta meno della Commissione Europea è una pagliacciata, e che per uscire dalla crisi servissero come minimo politiche keynesiane tipo Roosevelt con il Newdeal dopo la grande recessione, come minimo… E non la austerity e l’obbligo di non sforare il 3%. Appare quindi necessario abbandonare questa UE, ma la svalutazione della lira creerebbe problemi con le importazioni di materie prime di cui siamo sprovvisti e la debolezza del paese, colonia USA piena zeppa di basi NATO, fanno dubitare che si sia in grado di una scelta tanto forte quanto giusta (anche se paesi ricchi di risorse come la Russia avrebbero solo da guadagnarci da un indebolimento UE).
Vittorio.