Nel solco del processo di Appello (la cui udienza è stata rinviata al 25 settembre prossimo) a Rosalba Romano e a Vigilanza Democratica ci siamo impegnati a diffondere la conoscenza di altre lotte per la “verità e la giustizia” che permeano il nostro Paese, ponendo al centro la solidarietà e il sostegno a tutti coloro che hanno vissuto in prima persona abusi di polizia, alle loro famiglie e chi, come la compagna Rosalba o il giornalista Davide Falcioni (qui l’intervista), viene colpito della repressione per il solo fatto di aver difeso e applicato le libertà d’espressione e di critica e applicando l’articolo 21 della Costituzione.
Per queste ragioni, con la campagna nazionale per la Vigilanza Democratica, ci poniamo l’obiettivo dell’assoluzione di Rosalba ma ciò è strettamente legato non solo all’espansione della lotta per la difesa dei valori costituzionali (riassunti ad esempio nel già citato art. 21 o nell’art. 52), ma anche alla promozione della trasparenza nelle catene di comando delle Forze dell’Ordine. Infatti, casi nazionali come il processo per la morte di Stefano Cucchi o quello per il pestaggio dell’ultras del Brescia, Paolo Scaroni sono terreni di scontro aperti perché le contraddizioni insanabili nel campo delle Forze dell’Ordine emergono con forza, mettendo a nudo il re (per approfondire rimandiamo a [Italia] Solidarietà ai compagni condannati a Bologna per la manifestazione sotto Bankitalia del 2011! e all’inchiesta contenuta nell’opuscolo Copwatching 2.0).
Alle coperture ad alti livelli nella politica, nelle Procure e nelle aule di Tribunale dobbiamo rispondere anzitutto con una vasta campagna di solidarietà e sostegno, che è la prima linea di demarcazione da porre: “Con la campagna di denuncia e raccolta di solidarietà che ho avviato, ho ricevuto molto calore e molta disponibilità da parte di tanti. Ho raccolto molti attestati di solidarietà, in forma personale e riservata anche da giuristi, professori, avvocati magistrati ed ex magistrati. Ma ho raccolto, fra questi ultimi, moltissimi “mi spiace, non posso metterci la faccia”, “ con certa gente devo lavorarci”, “abbi fiducia e tutto si sistemerà”” ha scritto Rosalba agli organizzatori del convegno “Giustizia è libertà” appena conclusosi a Fabriano. Facciamo nostro questo appello anche perché, nel proseguo di questo saluto, si mette al centro l’analisi della natura dello Stato Italiano, dimostrando l’inconcludenza di tesi alla “mela marcia” o “servizi segreti deviati”.
Molti i sommovimenti e le esperienze d’avanguardia in questo campo: tra questi, abbiamo incontrato e intervistato l’avvocato Fabio Anselmo che da anni si occupa di processi (F. Aldrovandi, G. Uva, R. Rasman fino a Stefano Cucchi) dove gli abusi di polizia hanno causato la morte di “normali” cittadini.
L’intervista è utile perché da un lato conferma l’esistenza di uno Stato di diritto minato da interessi che si discostano del principio “La legge è uguale per tutti”, dall’altro dimostra che i diritti non vanno dati per scontati, vanno difesi e conquistati con una dura lotta, come nel caso delle famiglie delle vittime di abusi di Polizia o dell’applicazione della Costituzione.
Come è arrivato ad essere il principale avvocato dei processi contro gli abusi di polizia?
Grazie per “principale”. Ci sono arrivato per caso: mi ritrovai in una situazione personale molto difficile tanti anni fa a Ferrara dove più che avvocato ero vittima di un reato grave che aveva stravolto la mia famiglia. Da questa vicenda nacque un mini processo mediatico locale che ha avuto esiti, diciamo, favorevoli, con il riconoscimento di una grave responsabilità medica in occasione della nascita del mio secondogenito.
Quando morì Federico Aldrovani, il 25 settembre 2005, l’Ispettore della Polizia di Stato di Ferrara, N. Solito mandò da me la madre di Federico, Patrizia Moretti: secondo me l’Ispettore Solito aveva capito che già a partire dalla mia situazione personale pregressa mi ero trovato in forte contraddizione dialettica con la Procura di Ferrara e con l’Istituto di Medicina Legale perché il tema fu proprio medico legale e anche nel caso di Federico questo fu aspetto saliente, proprio per la gestione della Procura: un tema a questo punto molto delicato e così Patrizia Moretti e il padre Lino Aldrovandi vennero mandati da me.
Da qui iniziò la mia esperienza in questo campo, da persona che nulla sapeva di questi temi e il fatto che agenti della Polizia di Stato potessero aver fatto a Federico Aldrovandi quello che hanno fatto non era proprio nelle mie corde, non era una cosa che io potevo immaginare o potevo prefigurarmi. Decisi però di condurre questo processo per la morte di Federico come un “processo mediatico” e la giustezza di questa linea è stata confermata dai Giudici. Infatti, nelle sentenze, sostennero che altrimenti la morte di Federico sarebbe stato un caso di “negata giustizia”.
Il processo per Federico andò a sentenza di primo grado nel luglio 2009 e già nell’ottobre mi contattò Ilaria Cucchi: ci fu anche Lucia Uva, il cui fratello Giuseppe morì a Varese il 14 giugno 2008 a seguito di un fermo da parte dei Carabinieri, ma ci misi molto ad accettare il caso e lo portai avanti solo alcuni mesi perché ero impegnato con i processi per Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. Non solo, ma durante quello per Federico A. mi sono occupato anche del del primo grado del caso Rasman, il trentaquattrenne disabile psichico, ammazzato a Trieste il 27 ottobre 2006 (da tre agenti di polizia, ndr). In altre parole, si creò una catena fino ad arrivare a Stefano Cucchi: sono arrivati quasi tutti, tranne Paolo Scaroni, e la mia vita professionale è cambiata completamente.
Rispetto al caso Aldrovandi, abbiamo fatto leva sul fattore sorpresa poi man mano che si avanzava ci siamo trovati ad affrontare problemi e contromisure, non solo una contro comunicazione ma anche depistaggi. Il caso Cucchi è emblematico ma anche nel caso Aldrovandi: alcuni tra i poliziotti e gli investigatori che hanno condotto le indagini sono poi finiti indagati e in Primo Grado quanto meno condannati.
Partendo dalla sua esperienza, ritiene corretto affermare che nei processi contro gli abusi di polizia emergano quasi sistematicamente due livelli distinti e legati, il livello che attiene agli imputati e un livello che attiene ai loro superiori diretti e indiretti? Quale relazione intercorre fra i due livelli?
Capita spesso e la materia è davvero spinosa. C’è un problema di carattere culturale: in questo genere di processi è come se lo Stato avesse meno fiducia nei propri cittadini e tendesse a riconoscere un maggior livello di forza ai propri collaboratori rispetto a quello che sarebbe consentito dalla Costituzione. Anche per questo sono processi estremamente difficili e per i quali troviamo spesso una ritrosia e una certa difficoltà da parte delle stesse Procure ad instaurarli, perché chiaramente riguardano i principali, più fidati e migliori collaboratori nell’ambito dell’esecuzione dei propri compiti d’Istituto.
È un tema delicato e culturale e rispetto a “mele marce o non mele marce” non userei più queste metafore, quello che vedo è che non tutti, anzi la maggioranza degli agenti delle Forze dell’Ordine (FdO) non commettano fatti violenti come quelli analoghi di cui mi sono occupato. Non solo, la questione rispetto alle “mele marce” è che quella singola può esserlo ma il problema diventa quando e se tutte le altre “mele” non lo sono ma solidarizzano con quella marcia. Dal momento in cui nascono i problemi giudiziari, dal momento in cui nascono le denunce la cosa che riscontro invece con, diciamo, “frequenza” ed è forse un eufemismo, è una forma di solidarietà e di chiusura a riccio da parte delle Istituzioni di appartenenza, quello “spirito di corpo” di cui si parla nelle intercettazioni anche recentissime del processo bis per la morte di S. Cucchi. Questo è un tema veramente delicato perché nuoce al prestigio, all’immagine e alla credibilità della stessa Istituzione di appartenenza: non dovrebbe essere così! È come se l’ordine degli avvocati tutelasse un avvocato che truffa un cliente. Invece, la tutela della dignità e della trasparenza, del prestigio dell’Istituzione si raggiungono attraverso il perseguimento di chi sbaglia.
C’è un sistema di coperture ma al di là di ogni ragionamento politico basterebbe osservare il principio secondo cui la “legge deve essere uguale per tutti”. Se non partissimo da questo, avremmo risolto nove decimi dei problemi di abusi in materia dei diritti umani. “La legge deve essere uguale per tutti” e tutti devono essere uguali di fronte alla legge: le vediamo in tutti i tribunali ma questo però non accade sempre, anzi spesso non accade, creando un corto circuito e delle volte un sentimento di impunità rispetto a chi commette determinati fatti.
Non è semplice parlare ed esporsi (i testimoni delle stesse FdO, ndr): si veda l’esempio del carabiniere R. Casamassima nel processo Cucchi o l’Ispettore Solito che ha attraversato momenti di grave difficoltà, quanto meno psicologica e di isolamento nel processo Aldrovandi. Questa sorta di “tutela sindacale”, non solo di forma ma anche di sostanza, il cui contenuto e oggetto non ha nulla di sindacale perché la posizione di un imputato, nell’ambito di un procedimento penale, accusato di aver commesso reati non deve essere suscettibile di protezione o di solidarietà sindacale perché la sua responsabilità è personale ed è chiamato a difendersi come qualsiasi altro normale cittadino.
A conferma, ho assistito più di una volta a prese di posizione durissime per il solo fato di essere sottoposti a processo o peggio di posizioni anche offensive verso le famiglie delle vittime: la così detta “vittimizzazione secondaria”, cosa per cui la Corte Europea ha inviato direttive rivolte anche al nostro Paese, soprattutto al nostro paese, perché appunto, qui da noi, vengono fatte oggetto di critiche feroci e addirittura di insulti e di attacchi personali le famiglie delle vittime, ree di aver chiesto solo giustizia e verità.
Il processo per l’omicidio di Stefano Cucchi, dopo una lunga battaglia processuale e molte ripercussioni in ambito politico, ha schiuso una strada che sembrava ben blindata: ha fatto emergere il coinvolgimento di interi segmenti della catena di comando dei Carabinieri, per lo meno nei depistaggi e nei tentativi di insabbiamento. Ritiene che possa essere un precedente – benché non sia ancora chiuso – per superare almeno in parte il tradizionale ostracismo dei comandi verso le indagini e i procedimenti?
Il processo Cucchi è l’abbattimento di un enorme tabù. Di episodi come questo ritengo che possano accaderne ancora, che accadono, non sono il sistema ovviamente, non sono la prassi ma siano pure una minima percentuale con la sola mia esperienza personale professionale, se li devo mettere in fila uno dietro l’altro ne risulta un numero impressionante. Siamo tutti esseri umani e possiamo tutti sbagliare, indipendentemente dal fatto che portiamo una toga, un camice o una tuta da lavoro.
Che l’abbattimento di questo tabù possa offrire una speranza io credo fermamente di sì e, al di là della tenacia nostra e della famiglia, abbiamo bisogno come il pane di magistrati seri e preparati. Una giustizia vera che possa essere giusta, a 360° gradi è l’unica scialuppa di salvataggio che ha questo paese. Al di là della tenacia di Ilaria Cucchi, in questi 10 anni di battaglie processuali e non, se non avessimo avuto i PM G. Pignatone e G. Mussarò alla fine non saremmo andati da nessuna parte perché è stata necessaria anche la loro determinazione, la loro bravura e preparazione: la capacità e voglia di fare verità fino in fondo senza guardare in faccia nessuno è la cosa fondamentale per un magistrato. Purtroppo vedo che giorno dopo giorno si tende ad arrendersi sempre più al criterio di “opportunità”, ma questo criterio l’art. 112 della Costituzione non lo prevede perché definisce invece l’”obbligatorietà dell’azione penale”. Il criterio di opportunità è sinonimo di discriminazione perché ci può rientrare qualsiasi interesse.
Si tratta quindi di processi difficili, con indagini spinose e che avvengono in un contento nell’ambito del quale le testimonianze sono problematiche, vedi con l’appuntato R. Casamassima o ciò che che è accaduto all’altro carabiniere F. Tedesco e ai suoi difensori quando ha deciso di confessare. Non è una confessione vera e propria perché lui attribuisce ad altri il pestaggio, ma comunque ha confessato di esserci e che il pestaggio è avvenuto. Non sono situazioni facili perché lo Stato Italiano tendenzialmente non ama in alcun modo processare se stesso. Quanto avvenuto al processo Cucchi è però qualcosa di nuovo, come lo è stato quello di Aldrovandi.
C’è un altro ordine di ragionamento: vorrei sottrarci alla politica dell’”odio” e dell’antagonismo. Dobbiamo sottrarcene quando parliamo di questi processi sui diritti umani e sugli abusi. È uno sforzo duro, non semplice per via delle intimidazioni, delle minacce e di tutto ciò che gira attorno a queste posizioni processuali. Come non sono facili da sopportare gli insulti alla famiglia di Stefano Cucchi dopo tutto ciò che ha vissuto e sta vivendo ma se vogliamo dare speranza e senso a questi risultati processuali dobbiamo fare due cose: 1. evitare di attribuire loro una bandiera politica in senso partitico e distintivo perché deve essere patrimonio emotivo e culturale di tutti e 2. non usarli contro ma per. C’è molto antagonismo in tutti i temi sociali e la comunicazione vincente è quella che fa violenza, che distrugge e non costruisce ed è per me una grande preoccupazione: l’assuefazione a questa violenza può poi sfociare anche in quella fisica e dobbiamo cercare di preservare la misura e la forza degli argomenti che abbiamo senza mai prestare il fianco o passare il segno perché altrimenti rischiamo di vanificare il tutto.
C’è una contro comunicazione provocatoria, come quelli che sostengono la necessità di chiedere scusa alle famiglie dei figli a cui Stefano Cucchi avrebbe spacciato droga: siamo garantisti con tutti i politici accusati di mafia però molto spesso questi politici quando si tratta di cittadini normali e torna utile a un determinato ragionamento politico ecco che il garantismo viene accantonato. Questi insulti sono faticosi perché hanno un significato indiretto, intimidatorio: lo scopo dell’attacco è far capire alle nuove famiglie il prezzo che dovranno pagare se sceglieranno la via della pubblica denuncia quando non riescono ad ottenere giustizia per le vie normali.
La battaglia per l’introduzione di un vero reato di tortura, come per l’introduzione del numero identificativo sulle divise, nel nostro paese trova tradizionalmente l’opposizione di un fronte ampio e articolato – trasversale: da FI al PD – di forze ed esponenti politici. Si è fatto un’idea sul motivo?
È un problema imbarazzante perché per decenni abbiamo avuto una resistenza silenziosa e occulta: ricordo una presa di posizione del presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella con la quale sostenne la necessità, in sede di audizione per la promulgazione della legge sulla tortura, poi ridimensionata rispetto all’originaria proposta di legge iniziale, che gli esponenti politici esprimessero il loro parare e le loro perplessità pubblicamente e non nel segreto dell’audizione privata. Cosa che di fatto non avvenne e ci fu un compromesso dall’originario progetto di Legge dell’ ex senatore PD ed ex Presidente Commissione diritti umani del Senato L. Manconi, arrivando a concepirlo come un reato comune. La qualcosa non mi indignò più di tanto purché si punissero effettivamente gli abusi, cosa che però l’attuale legge non fa.
Il punto, sempre rispetto alla definizione di questa legge, è che ci furono prese di posizione eclatanti da parte di sindacati di Polizia nell’iter alla Camera sotto il governo Renzi nel 2017, riportate a tutta pagina da giornali come La Repubblica e altri giornali nazionali della serie: “Se passa la legge contro la tortura, non riusciamo più a lavorare”. Rimasi basito perché una tale posizione in realtà significa che “si può lavorare solo torturando” e di fronte ad una presa di posizione così grave e di interferenza nell’attività parlamentare, mi aspettavo l’intervento di qualche rappresentante delle Istituzioni e/o del Presidente della Repubblica: qualcuno che si indignasse me lo sarei aspettato e invece silenzio. Queste prese di posizione sulla tortura furono reiterate nel tempo e anche oggetto per la campagna elettorale e per il consenso elettorale.
Altra questione è che così le “vittime di mala polizia”, un termine che non mi piace, vanno di pari passo con le “vittime di giustizia” e Stefano Cucchi ne è esempio primario: è la sintesi non vivente che il nostro processo penale viaggia a due velocità, forte e veloce con i deboli e lento con i forti.
Il nostro sistema giudiziario è bellissimo perché si fonda sulla dialettica processuale dove la difesa, sia della persona offesa che dell’imputato, ha a disposizione degli strumenti per raggiungere la propria verità ma il punto è che risulta essere un processo estremamente costoso. Così come l’accusa, il PM o il giudice, anche l’avvocato difensore può fare la differenza e quando sei un “ultimo”, e oggi gli “ultimi” sono diventati i normali cittadini, gli strumenti che ti offre il Codice di Procedura Penali, che sono tanti, non riesci di fatto ad esercitarli: non hai i soldi per i consulenti, non hai i soldi per gli avvocati, anche il patrocinio gratuito funziona poco. Quando invece hai le possibilità (economiche, ndr) hai accesso a tutto ed è un processo che diventa quindi ipergarantista con gli imputati che possono permetterselo e assolutamente ipogarantista con chi invece no.
Per concludere sulla trasversale opposizione, è un fatto culturale e mi aspetto che fra non molto si arrivi a dire, da parte della classe politica, che senza la corruzione non si può andare avanti. Oggi c’è il problema del migrante, del diverso, del richiedente asilo e dell’odio nei confronti di chi sta peggio di te o quanto meno come te. La sensibilità rispetto a questi temi si sta affievolendo.
Le dichiarazioni di Enrico Zucca rispetto al fatto che “i nostri torturatori stanno ai vertici della Polizia”, che in parte anche lo stesso Zucca ha chiarito sostenendo che non si trattasse in alcun modo di una volontà denigratoria a generalizzare, hanno portato a un procedimento disciplinare nei suoi confronti che non ha avuto seguito, se non con un invito a censurarsi in eventuali prossime occasioni. Nel corso delle varie campagne di solidarietà che abbiamo condotto e a cui abbiamo partecipato contro abusi di polizia e tentativi di censura per via giudiziaria, ci siamo imbattuti molte volte in avvocati, ex magistrati, ex agenti delle forze dell’ordine che ci hanno risposto “sono d’accordo con voi, ma non posso metterci la faccia”. Non crede che esista nel nostro paese un problema di libertà di espressione, di critica; un ostacolo a cercare la verità e dire la verità? E, se esiste, quanto pensa incida sul “clima generale” del paese, in particolare proprio per quanto riguarda lo spirito democratico che dovrebbe pervadere forze armate e forze di polizia?
Sì, esiste una difficoltà, questo è sicuro: esiste un problema di libertà di critica e di espressione, che facciamo fatica a considerare tale e se lo consideriamo non è prioritario. Ma esiste anche un clima “degenerato”, con argomenti tabù ed è sempre un problema di carattere culturale. In questo vedo il fallimento di una sinistra: sono stati fatti dei compromessi come sulla legge contro la tortura e in generale in materia di diritti umani, che sono “sacrificabili”. Una volta che fai un compromesso hai crepato la diga, non riesci più a fare argine e si apre a maggior sacrificio. In questo mi ha molto confortato l’invito allo scorso 27° Congresso nazionale FIOM-CGIL.
L’idea che diritti di esseri umani possano essere sacrificabili in nome di un progresso economico fasullo e di una protezione sociale fasulla, si sta diffondendo e non vedo efficace dialogo da parte di chi si dovrebbe fare carico della questione mentre la “prima linea” è tenuta da Associazioni come Antigone e simili che cercano di far valere le libertà di espressione e di critica.
Da qui anche il ragionamento con la solidarietà esterna alle famiglie delle vittime di abusi, una solidarietà questa che se la sono conquistata con il sangue, il sudore e il dolore non solo della perdita ma nella ricerca della verità. Patrizia Moretti e Ilaria Cucchi sono diventate degli “eroi”, il loro ruolo si è astratto dal caso specifico e la loro lotta ha sì aperto una strada ma sono un po’ cauto su quest’ultimo aspetto perché la strada è ancora irta. Forti rimangono lo spirito di corpo da una parte e il fatto che morti quali quelle di Aldrovandi e di Cucchi siano ancora concepite come dei danni collaterali ammissibili, che siano essere umani di “serie B” con valore umano attenuato.
Si pensi ai fatti del G8 a Genova del luglio 2001 che, grazie alla propaganda di Stato, nell’immaginario collettivo furono per molto tempo pienamente giustificabili per via dei saccheggi e delle devastazioni: ci sono voluti quasi 20 anni per capire quello che era realmente successo e in questo ritengo abbia contribuito anche la morte di Aldrovandi siccome non era spiegabile secondo stereotipi. Era un ragazzino che aveva appena compiuto 18 anni, incensurato, da solo, disarmato e figlio di un Ispettore di Polizia Municipale. Era, per i poliziotti coinvolti che ne hanno causato la morte, abbastanza difficile appigliarsi a determinati pregiudizi e stereotipi con i quali confondere le acque: ci hanno provato, visto che hanno sostenuto che “tornava dal Link”, un locale bolognese, e che fosse vestito “come i centri sociali”. La difficoltà della nostra contro comunicazione delle fonti ufficiali fu subito forte: la morte per droga fu propagandata fin da subito e fu difficile far capire ai cittadini di Ferrara cosa fosse successo. Quando però emersero i fatti di violenza, le intercettazioni tipo “l’abbiamo pestato di brutto per mezz’ora” e simili e gli altri elementi che hanno delineato la reale crudeltà della tragedia, è chiaro che l’opinione pubblica si è disorientata e anche la propaganda opposta ha accusato il colpo. Da qui si è iniziato a prendere atto che si potevano verificare altri episodi come quello di Aldrovandi, che non era impossibile che si verificassero e che tutto sommato anche appartenenti alle FdO potevano commettere comportamenti penalmente rivelanti.
Vuole mandare un messaggio di saluto a Rosalba Romano di Vigilanza Democratica, condannata dal Tribunale di Milano per aver difeso e applicato l’art. 21 della Costituzione e aver sostenuto la lotta contro gli abusi in divisa?
Mando a Rosalba non solo un saluto e un abbraccio forte ma anche un sincero auspicio che venga fatta giustizia nella sua vicenda giudiziaria.