E’ uscito il numero 61 de La Voce del (nuovo)PCI

La Voce 61 – Vai all’Indice

Per presentarlo e introdurlo abbiamo scelto uno stralcio dell’articolo “Le origini e la natura della crisi generale del capitalismo” poiché è una dimostrazione dell’uso della concezione comunista del mondo come strumento per l’analisi della realtà e perché afferma una tesi decisiva per la comprensione del ruolo dei comunisti in questa fase.

“La comprensione dell’origine e della natura della prima crisi generale del capitalismo è determinante per capire la storia politica e culturale del secolo scorso e trarne insegnamenti per far fronte oggi con successo alla seconda crisi generale in corso, in cui siamo coinvolti da circa quarant’anni a questa parte, farne il terreno in cui si sviluppa la rivoluzione socialista e porre fine alla crisi con l’instaurazione del socialismo. Oggi sia la destra che la sinistra borghesi di fronte alla crisi persistente elaborano, propagandano e mettono in opera cure che non tengono conto della fonte e della natura della crisi. Sia le cure basate sulla teoria dell’offerta (il governo deve prendere misure che aumentano i profitti ai capitalisti che impiegano proletari nella produzione di merci), sia quelle basate sulla teoria della domanda (il governo deve elargire soldi ai proletari e agli altri lavoratori in modo che aumentino il loro consumo e quindi comprino più merci) confermano il carattere collettivo assunto dall’economia. Ma né le une né le altre hanno posto né porranno fine alla crisi perché, dopo l’esaurimento della prima ondata mondiale della rivoluzione proletaria, l’iniziativa in campo economico è di nuovo nelle mani dei capitalisti e il motore dell’economia capitalista (ciò che spinge un capitalista a impiegare proletari) non è la produzione di merci ma la produzione di profitti: l’intoppo sta proprio nel fatto che oltre certi limiti l’aumento della produzione di merci non determinerebbe aumento bensì diminuzione della massa dei profitti e nessun capitalista assume più operai per avere meno profitto. La competizione e la corsa a essere più competitivi spostano la crisi da un paese a un altro, ma non vi pongono fine.

Oggi la produzione di merci è un’appendice del capitale finanziario e speculativo, quindi la ricchezza della società borghese si presenta sempre meno come “un’immane raccolta di merci” (valori d’uso, beni o attività ognuno dei quali soddisfa un bisogno ma viene prodotto in quanto portatore di valore di scambio, in pratica come prodotto vendibile) e si presenta invece sempre più come “un’immane raccolta di denaro”. E, siccome per sua natura il denaro può aumentare di quantità oltre ogni limite, mentre la quantità di merci non lo può, questo altera anche la natura delle merci. Esse sono infatti sempre meno intese a soddisfare bisogni creati dallo sviluppo generale della società umana (lo sviluppo della civiltà rese bisogni da soddisfare la produzione di utensili, armi, carta, costruzioni, ecc.) e sempre più intese a creare nuovi bisogni nella popolazione che ha potere d’acquisto, per aumentare la massa di denaro che la loro vendita accumula nelle mani di ogni singolo capitalista. Le grandi opere inutili e dannose (TAV, TAP, Ponte sullo Stretto di Messina, ecc.), i beni rapidamente obsoleti o comunque deperibili, l’imballaggio (con l’enorme uso di materie plastiche) e la pubblicità, la presentazione della merce che prevale sulla sua qualità con tutto quello che ne consegue: queste e altre simili sono le leggi che determinano quantità e qualità delle merci prodotte. La borghesia non si limita a soddisfare i bisogni creati dallo sviluppo generale dell’umanità, ma nei limiti consentiti dalla divisione della società in classi di oppressi e oppressori plasma il sistema di relazioni sociali e di condotte individuali su misura delle merci di cui, per valorizzare il suo capitale, di sua iniziativa ogni capitalista riesce a imporre l’uso, con il risultato che “tutti” deprecano. Tutto ciò aggrava la crisi morale e intellettuale delle masse popolari dei paesi imperialisti. Per vendere, infatti, la borghesia non soddisfa solo bisogni, ma crea sempre nuovi bisogni scollegati dalle attività necessarie per vivere e progredire: introduce la tecnologia 5G (trasmissione potenziata di dati ai cellulari) mentre anche nei paesi imperialisti aumentano le persone che non possono accedere alle cure mediche. È come un produttore di cibo che per vendere di più, in mille modi induce le persone a spendere i soldi che hanno per ingozzarsi, incurante della loro salute e della loro vita.

Il modo di produzione capitalista è sorto e ha soppiantato gli altri modi di produzione (anch’essi basati sulla divisione dell’umanità in classi di sfruttati e di sfruttatori, di oppressi e di oppressori), come modo di produzione atto ad aumentare la produttività del lavoro, cioè ad aumentare la quantità di beni che gli uomini producevano in un dato tempo di lavoro e quindi atto a rendere gli uomini complessivamente più liberi dalla natura e più ricchi in termini di tempo e di mezzi per esercitare attività umane superiori (dalle quali però restava e resta esclusa la massa della popolazione). La crisi generale del capitalismo elimina questi presupposti del successo del capitalismo e rende la sua sostituzione una necessità per la sopravvivenza della specie umana.

La sovrapproduzione assoluta di capitale genera il disastro ecologico, lo sfruttamento delle donne ridotte a strumento della pubblicità e a oggetto sessuale, la deformazione psicologica, intellettuale e morale della nuova generazione e il suo maltrattamento, la criminalità gratuita (cioè senza le motivazioni che l’insufficienza della produzione dava un tempo alla guerra e alla criminalità), l’insicurezza generale e l’uso diffuso di droghe che solo demagoghi come Salvini & C. forse davvero sono convinti di curare con più poliziotti e pene maggiori, l’emigrazione che supera di gran lunga quella dell’inizio del secolo scorso (quando dalla sola Italia con una popolazione minore alla metà di quella attuale nei 60 anni successivi all’Unità emigrarono più di 15 milioni di lavoratori a un ritmo annuale che nel 1900 superò i 350 mila emigranti permanenti registrati – Del Carria Proletari senza rivoluzione, vol. 1 Ed. Oriente 1966, pagg. 251-252).

Ma le trasformazioni indotte dalla crisi a loro volta fanno crescere la resistenza spontanea delle masse popolari al corso delle cose e aumentano i potenziali alleati del proletariato nella rivoluzione socialista. L’oppressione suscita una resistenza spontanea, allarga il divario tra le masse popolari e la classe dominante. Le masse popolari imparano dalla loro esperienza: non sono “manipolabili all’infinito”, come pensa la sinistra borghese e come teorizzano gli intellettuali del “controllo sociale totale” (Renato Curcio & C.).

Questa resistenza spontanea che, a causa della sua crisi, la borghesia non può cessare di alimentare, è il terreno che ha bisogno dell’opera di noi comunisti per diventare una marea montante e spazzare via il sistema capitalista”.

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