[Italia] Intervista a Davide Falcioni, giornalista condannato per aver raccontato la mobilitazione in Val Susa

“La Val Susa è una zona diversa dal resto del paese, in cui i giornalisti devono scrivere quello che viene loro detto di scrivere, possono attingere dalle veline della Questura, ma è vietato fare inchiesta, raccogliere testimonianze ed esperienze, raccontare le cose che succedono”

Lo scorso febbraio è stata confermata in appello la condanna per Davide Falcioni a 4 mesi per aver partecipato, secondo l’accusa, all’irruzione in un’azienda coinvolta nel progetto TAV a Torino, nel 2012. La questione dimostra bene due aspetti: la repressione dispiegata verso il movimento NO TAV (non ci fu nessun “assalto”, ma l’esposizione di uno striscione da un balcone), poiché 19 attivisti furono condannati in primo grado per quella iniziativa; la repressione selettiva contro coloro che possono avere un ruolo nel “raccontare” la verità della Val Susa (l’imputazione di Davide è stata una grave violazione del diritto di cronaca). Abbiamo intervistato Davide Falcioni e ricostruito con lui i tratti salienti di questa vicenda perché essa, lungi dall’essere un caso isolato e sporadico, rientra nel discorso sollevato da Rosalba Romano con la sua dichiarazione dell’11 aprile: “Se vince chi ci accusa il diritto di cercare la verità, dire la verità e far conoscere la verità diventerà a tutti gli effetti un reato. Lo diventerà nella pratica, al di là di quello che c’è scritto nella Costituzione, nel codice penale e in quello civile. (…) Che paese stiamo diventando? Che paese è quello in cui un cittadino comune deve temere di dire la verità, ciò che “tutti sanno”, ma “nessuno dice”? Quel paese in cui un Tribunale condanna, trasgredendo le stesse leggi che pretende di incarnare e applicare?”

Vuoi brevemente spiegare il caso di repressione giudiziaria che ti riguarda?

Nel 2012 lavoravo a Parigi per Agoravox. Con la Redazione decidemmo di seguire da vicino e “per bene” le mobilitazioni in Val Susa. Erano mesi densi di iniziative: c’era stato l’incidente in cui è rimasto ferito Luca Abbà, l’occupazione delle autostrade, il campeggio estivo. Da inviato seguivo tutto, in assemblea fu decisa una campagna di sensibilizzazione sull’inutilità del TAV, “C’è lavoro e lavoro”, e in quel contesto fu deciso anche l’esposizione di uno striscione dal balcone della sede di un’azienda, la Geostudio di Torino. Quella iniziativa, nonostante si fosse svolta senza alcuna tensione e alcun incidente e in modo del tutto pacifico, divenne il pretesto per uno dei tanti processi contro gli attivisti NO TAV e nel 2014 fui chiamato a testimoniare dall’avvocato difensore di un imputato. Nella mia deposizione ho detto quello che dico ora, alla domanda di quale fosse il clima in cui si è svolta l’iniziativa ho risposto “il clima era sereno”. Appigliandosi a questa risposta, il giudice ha dedotto che io fossi presente – cosa che, ci tengo a precisare, ho sempre sostenuto in tutti gli articoli che ho scritto nei 2 anni precedenti e che fino a a quel momento erano stati ignorati – quindi sono entrato in Tribunale da testimone della difesa e vi sono uscito da accusato degli stessi reati degli altri imputati per un “assalto” che non c’è mai stato.

Il processo di primo grado, nell’aprile 2018, si è concluso con la mia condanna a quattro mesi per “concorso in violazione di domicilio”. La tesi dell’accusa è che avrei dovuto chiedere alla Polizia quello che stava succedendo, anziché documentare quello che stava avvenendo sotto i miei occhi. Il processo di appello, nel febbraio 2019, si è concluso con la conferma della mia condanna, nonostante anche l’accusa avesse chiesto l’assoluzione, poiché tutti gli elementi oggettivi indirizzavano verso quella direzione.

E’ stata una condanna ”esemplare”? In che modo pensi influisca sul diritto di cronaca e sulla libertà di espressione?

Permettimi una premessa. Dopo la condanna di primo grado ho sempre rifiutato di pensare che si trattasse di una macchinazione, di una rappresaglia, di una manovra politica, ho sempre evitato di alimentare il “vittimismo” e di credere e affermare che fosse stato colpito il diritto di cronaca e la libertà di espressione. Ho mantenuto il profilo di chi era convinto che si trattasse di un errore. Parliamoci chiaro, avevo in mente di non essere un “personaggio”, di non avere la possibilità di spostare niente in particolare con i miei articoli e il mio lavoro. Dopo la sentenza di secondo grado ho cambiato opinione: continuo a credere che la sentenza non sia un attacco a me, personale, ma in effetti credo  sia un messaggio ai giornalisti e il messaggio dice che la Val Susa è una zona diversa dal resto del paese, in cui i giornalisti devono scrivere quello che viene loro detto di scrivere, possono attingere dalle veline della Questura, ma è vietato fare inchiesta, raccogliere testimonianze ed esperienze, raccontare le cose che succedono.

Che tipo di reazioni ha suscitato la tua condanna?

C’è stata un’ampia ondata di solidarietà nei miei confronti. Una vasta rete di partiti di sinistra, movimenti e associazioni, fino al Consiglio Europeo, passando per Amnesty, la Federazione Nazionale della Stampa, Ossigeno, l’osservatorio dell’ordine dei giornalisti contro intimidazioni e minacce dei giornalisti, Articolo 21…

Conosci episodi simili a tuo accaduti ad altri giornalisti?

Si, restando nell’ambito della mobilitazione NO TAV ci fu il caso di Flavia Mosca, condannata nel 2016 per “essersi introdotta in una manifestazione NO TAV alla ricerca si informazioni che avrebbe potuto reperire in altro modo”. Poi ci sono stati casi di maggiore risalto mediatico, come quello di Fabrizio Gatti che nel 2005 si fece passare per immigrato per poter entrare nel Centro Immigrati di Lampedusa, inaccessibile ai giornalisti. Il procedimento si è concluso velocemente con la sua assoluzione, ma rimane il fatto che è partito… E poi il caso dei miei colleghi di testata, Fanpage, Francesco Piccinini, che ne è il Direttore, e Sasha Biazzo che per l’inchiesta giornalistica “Bloody Money” sono stati denunciati e rischiano 12 anni di carcere….

Quali forme di tutela pensi sia possibile prendere per prevenire situazioni simili?

Guarda… la verità è che non ci sono forme di tutela che possano offrire qualche garanzia. Al potere dà fastidio che esista un certo tipo di giornalisti… C’è una forma basilare ed elementare di tutela a cui mi attengo sistematicamente: il codice deontologico e anche nel caso che poi ha portato alla mia condanna mi ci sono affidato… però c’è da fare un discorso più ampio: attiene al fatto che i giornalisti devono essere inquadrati con un contratto di lavoro, devono essere pagati il giusto, non devono essere precari, ricattabili, isolabili. Insomma, la miglior tutela è creare le condizioni per non incorrere nell’autocensura, nella paura di ciò che si dovrebbe e vorrebbe scrivere… Quindi, per essere chiari, non mi trovo a chiedere leggi particolari per i giornalisti, ma l’applicazione di quelle esistenti per ogni lavoratore.

La tua condanna ha avuto conseguenze a livello professionale o a livello politico?

No. A livello professionale ho avuto la fortuna e la possibilità di incontrare Fanpage, che offre quelle tutele di cui parlavo prima, e pertanto continuo a svolgere il mio lavoro con lo stesso impegno. Dal punto di vista politico, ribadisco che il mio caso è uno fra tanti in un clima di generale aumento della repressione. C’è da dire che questo è il vero fenomeno in espansione: una qualunque forma di attivismo viene perseguita. Non solo con le botte, le denunce, i processo, ma sempre più spesso attraverso dispositivi che colpiscono sul piano economico: multe, sanzioni, decreti ingiuntivi: è uno dei lati più odiosi, ma anche attuali, della repressione nel nostro paese.

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