A febbraio la mobilitazione dei pastori sardi contro l’abbassamento del prezzo del latte è salita alla ribalta delle cronache grazie alle forme di lotta adottate, alla solidarietà raccolta in Sardegna e in altre zone d’Italia, alla spinta all’emulazione che ha suscitato fra allevatori e agricoltori, in particolare delle regioni del sud. Nel momento in cui scriviamo – fine febbraio – i tavoli di trattativa non hanno portato ad alcun risultato, decine di pastori sono stati denunciati in ossequio al Decreto Salvini, le mobilitazioni di piazza si sono in parte ridimensionate e quelle che persistono si sono radicalizzate (assalti armati alle cisterne del latte che nonostante il blocco del conferimento riforniscono i caseifici). I pastori sardi, benché la trattativa sul prezzo del latte non è conclusa, hanno raggiunto alcuni importanti risultati:
- hanno posto in maniera chiara e dirompente i problemi e le contraddizioni di un intero settore che, lungi dall’essere una “questione regionale”, per decenni è stato trattato come ambito di manovra, costruzione del consenso elettorale e corruzione, con l’accompagnamento della farsesca propaganda di regime sul “ritorno alle origini come soluzione per fare fronte alla crisi” (vedi “i giovani che tornano all’agricoltura”);
- hanno alimentato la mobilitazione delle masse popolari in tutto il paese, hanno riaffermato l’importanza e il valore della solidarietà di classe, contribuendo a infrangere le narrazioni sulla “mutata composizione di classe” del nostro paese: altro che “la classe operaia non esiste più”! La verità è che il crescente divario fra ricchi e poveri, fra speculatori e lavoratori, ha alimentato la proletarizzazione di tutta la società;
- ha posto all’ordine del giorno la questione delle misure concrete per fare fronte agli effetti della crisi, la questione della sovranità nazionale e quella del controllo popolare sul funzionamento dell’economia e della società.
Abbiamo da subito espresso solidarietà ai pastori sardi e indicato ai lavoratori avanzati e agli elementi avanzati delle masse popolari la via del sostegno e quella della lotta (vedi su www.carc.it). In questo articolo affrontiamo il movimento economico che causa i problemi dei pastori, poiché è quello il campo in cui, come nascono i problemi, sorgono anche le soluzioni (ben consapevoli che l’argomento non si esaurisce qui e lo trattiamo solo parzialmente).
L’emergenza in Sardegna si presenta con la forma di crisi per sovrapproduzione di merci e su questa base nascono tutte le ipotesi di soluzione (eliminare le eccedenze, stabilire un prezzo fisso per il latte, patti fra produttori, industriali e distributori, patti governativi e comunitari). Ma non serve avere la sfera di cristallo per prevedere con certezza che misure di questo tipo sono un palliativo: sembrano valide oggi, ma saranno inutili domani. Indipendentemente da quale governo borghese sarà in carica, da quale partito borghese sarà al governo, da quale sarà il politicante che si propone e promette di “risolvere la situazione”. Questo perché il problema dei pastori sardi (ma più in generale di tutto il settore agro-alimentare) non nasce dalla sovrapproduzione di merce, né dalla concorrenza “sleale” dei produttori stranieri, né dalle importazioni a basso costo: queste sono tutte conseguenze – effetti – della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale. Nella società capitalista ogni attività produttiva tende allo sviluppo delle forze produttive (tende continuamente e irrimediabilmente all’aumento della produttività del lavoro, legata alla continua e irrimediabile crescita del capitale da valorizzare); giunto a un certo grado di sviluppo non solo il mercato si satura (sovrapproduzione di merce), ma soprattutto “i pastori sono troppi”, “gli animali da latte sono troppi”, “i caseifici sono troppi”, è troppo il formaggio prodotto, sono troppi i magazzini di stoccaggio, è troppo sviluppata la rete di distribuzione commerciale… tutto è “troppo” per garantire ai capitalisti la valorizzazione dei loro investimenti e, ultima ruota del carro in un mondo che funziona al contrario, tutto è “troppo” per pagare ai produttori di latte, ai pastori, un prezzo adeguato alla produzione e riproduzione delle condizioni della loro esistenza. A poco valgono, in questo senso, le analisi caserecce sul fatto che “i pastori non sono operai”: nella società capitalista tutta l’attività economica e produttiva è sottomessa ai rapporti di produzione dominanti. Infatti a decidere il prezzo del latte non sono i pastori, ma gli industriali, i capitalisti.
Affrontare la situazione con accordi, quote, listini, griglie è una strada che nel medio periodo non ha alcun effetto positivo e, anzi, nel lungo periodo porta all’unica soluzione che i capitalisti possono imporre: eliminare merce, distruggere forze produttive, distruggere produttori e distruggere capitale. Nella fase acuta e terminale della crisi del capitalismo, il “mercato che regola la produzione” è distruzione. Ne sanno qualcosa gli allevatori padani che dopo le lotte contro le quote latte, cavalcate dalla Lega Nord, e i sussidi per pagare con i soldi pubblici le multe comminate dalla UE all’Italia, oggi sono in crisi come e quanto 20 anni fa, le aziende chiudono, gli allevatori sono pieni di debiti e in molti si sono già suicidati.
Chi oggi critica i pastori perché per protesta versano migliaia di litri di latte, li “danno ai maiali anziché agli industriali”, incanala la sua indignazione nel verso sbagliato. E’ il mercato che su ampia scala costringe i produttori a distruggere enormi quantità di merci: vale per i pastori sardi come per gli agricoltori di tutta Italia. Eppure, certo, distruggere beni e servizi già prodotti che potrebbero essere distribuiti a “chi ne ha bisogno” è immorale. Ma i pastori non ne hanno responsabilità: per il sostentamento loro e delle loro famiglie sono obbligati a non produrre meno di quanto producono! Questa è la legge oggettiva del capitalismo.
La soluzione è “il semplice difficile a farsi”, come Brecht definiva il comunismo.
I pastori, come gli agricoltori e come, in modo diverso, tutti i lavoratori che producono beni e servizi utili alla popolazione, svolgono un lavoro essenziale. Il loro sostentamento, le loro condizioni di lavoro e di vita non sono più questioni che dipendono da loro (da come producono, da quanto producono), ma sono già, di fatto, una responsabilità sociale, collettiva. Lasciare le loro condizioni di vita e di lavoro e il loro sostentamento in balia del mercato e delle speculazioni è un modo primitivo di concepire l’economia: in quanto produttori di beni essenziali devono ricevere in cambio dalla società – dallo Stato – quanto serve per vivere e lavorare dignitosamente.
La filiera della produzione deve essere sottratta ai capitalisti e alle “leggi del mercato” e deve invece essere gestita in modo democratico, trasparente e pubblico.
La pratica concreta del lavoro dei pastori e degli agricoltori in generale li porta a essere direttamente responsabili della cura del territorio contro degrado e abbandono (altro che “i pastori sono troppi”, in questo senso sono invece troppo pochi, a fronte del disastro ambientale in corso); questo ruolo, che già svolgono senza che sia loro riconosciuto, combinato con quello di produttori, deve essere valorizzato nell’individuazione delle problematiche e nella mobilitazione per risolverle, attraverso apposite istituzioni popolari (nel caso della Sardegna si pensi al disastro dei poligoni di tiro e delle servitù militari…).
La soluzione dei problemi dei pastori sardi, come dei problemi di tutto il settore agro-alimentare, è possibile solo se da subito i pastori continuano la mobilitazione per imporre (e attuare in prima persona) le misure necessarie a porre un freno ai peggiori effetti della crisi, se da subito si mobilitano per costruire un nuovo modello di gestione e governo della società, dell’economia e del territorio della Sardegna: in via definitiva però la soluzione ci sarà solo con l’instaurazione del socialismo. Il resto sono chiacchiere da chiacchieroni o imbrogli da speculatori.