8 Marzo – Non c’è emancipazione della donna senza lotta per il socialismo

Il genere accomuna, la classe contrappone

Man mano che la crisi generale del capitalismo avanza e i suoi effetti si abbattono sulle masse popolari, si fanno strada due orientamenti diversi rispetto alla mobilitazione e organizzazione delle masse popolari e le loro differenze diventano più evidenti e comprensibili alla luce della pratica. Da una parte la concezione della sinistra borghese che, in sintesi, si caratterizza per l’obiettivo di rendere meno ingiusta e infame la società capitalista attraverso riforme, procedimenti e leggi ispirate dal buon senso e dalla “giustizia sociale”; dall’altra la concezione comunista del mondo che si caratterizza per l’obiettivo di trasformare tutte le relazioni sociali in modo conforme alla trasformazione dei rapporti di produzione derivanti dalla rivoluzione socialista e dall’instaurazione della dittatura del proletariato. La concezione della sinistra borghese promuove un approccio a ogni questione come se ogni questione fosse “a sé”, avesse causa propria (culturale, storica, morale, politica) e una sua propria soluzione possibile nell’alveo delle riforme della società capitalista.

La concezione comunista del mondo promuove l’approccio materialista dialettico a ogni questione: ogni fenomeno ha origine nel modo di produzione e da esso dipende, ogni fenomeno, compresa ogni relazione sociale, la politica, la cultura e la morale discendono dai rapporti di produzione vigenti.

Consapevoli della differenza sostanziale fra la concezione della sinistra borghese e la concezione comunista del mondo è possibile individuare in ogni ambito i due orientamenti. Ci soffermiamo qui sulla mobilitazione per l’emancipazione delle donne.

La sinistra borghese promuove la lotta di genere e nega la lotta di classe; si concentra sugli aspetti politici, culturali, morali ed etici (sovrastruttura della società) come se essi fossero la causa dell’oppressione delle donne, delle discriminazioni e della violenza di genere e, pure con la velleità di alimentare la mobilitazione, finisce invece per togliere ogni prospettiva positiva poiché alimenta la contrapposizione fra settori delle masse popolari stesse anziché la lotta di classe (donne contro uomini anziché donne delle masse popolari contro borghesia imperialista).

Noi comunisti sosteniamo che le donne delle masse popolari sono soggiogate da due forme di oppressione distinte e combinate: l’oppressione di classe (che è la principale) e quella di genere (che è la secondaria: un’operaia della FCA non ha NIENTE in comune con Elsa Fornero) e, stante la situazione economica e politica, anche da una terza forma di oppressione legata “alla razza” e alla religione. Per risolvere l’oppressione “di razza” e religiosa e per risolvere quella di genere è necessario affrontare quella di classe. Con questa lente le tante, tantissime “sfortunate sorelle di sventura” diventano potenziali compagne di lotta: contro il capitalismo che sta alla base di ogni oppressione e per il socialismo, che è la condizione di ogni emancipazione.

Per preparare le mobilitazioni dell’8 marzo abbiamo raccolto alcune interviste che pubblichiamo integralmente su www.carc.it e di cui di seguito riportiamo alcuni stralci per arrivare, alla luce del discorso fatto, a una conclusione.

Incontrando un gruppo di lavoratrici delle pulizie alberghiere (tutte immigrate, in maggioranza rumene) che si sono organizzate a seguito delle ritorsioni (per molte di loro anche il licenziamento) perché si ribellavano ad arbitri, angherie e violenze del padrone abbiamo avuto modo di avere uno spaccato di cosa significa essere donna, lavoratrice e immigrata:

“Alcune di noi non ricevono lo stipendio da mesi e nessun aspetto del contratto è rispettato (mensa, premi, pagamento degli straordinari), di fatto lavoriamo a cottimo, senza alcuna tutela in termini di sicurezza e anzi continuamente sottoposte a trattamenti degradanti e violenti. I padroni o dei loro preposti lasciano nelle camere oggetti di valore per metterci alla prova, se siamo ladre, in altri casi passano a sporcare la stanza appena pulita e di fronte al rifiuto di fermarsi ulteriormente al lavoro inviano continue lettere di contestazione. Alcune di noi ne hanno decine e decine. Ci sono stati casi, non isolati, di minacce di essere buttate dalla finestra se “rompiamo le palle” o se pretendiamo il rispetto dell’orario di lavoro. Una di noi, che si rifiutava di firmare la lettera di dimissioni forzate è stata picchiata. Nel gennaio scorso, con il giochetto del cambio di appalto, in molte siamo state licenziate. (…) Mi chiedi se essere donne e immigrate influisce su questi comportamenti? Certo! Normalmente veniamo insultate per questo: “sei straniera e devi andare al tuo paese a chiedere i diritti”, oppure “sono gli stranieri che devono pulire la merda dai bagni”. E poi le costanti minacce fisiche… anche i facchini sono sfruttati, ma non vengono umiliati in questo modo di continuo”.

Incontrando un’operaia di un’azienda metalmeccanica di Brescia che impiega principalmente donne, abbiamo raccolto molti elementi di riflessione sulla relazione fra solidarietà di classe e solidarietà di genere:

“In questi anni l’azienda ha avuto uno sviluppo, ma il padrone non ha promosso un’adeguata riorganizzazione del lavoro, per cui siamo costrette a fare straordinari. Potrebbe essere vantaggioso per chi vuole arrotondare lo stipendio, se non fosse in verità diventato un obbligo, uno strumento di ricatto e uno strumento di discriminazione: in fabbrica vige un regime che ha ricadute pratiche e anche psicologiche sulle lavoratrici. Il padrone impone il suo paternalismo, si spaccia da buon samaritano, fa prestiti alle dipendenti che hanno bisogno di soldi per mutui, auto o permessi di soggiorno. Così le operaie si sentono pure in debito e non si ribellano ai soprusi quotidiani, alla grave mancanza di sicurezza sul posto di lavoro, alle condizioni insalubri e di scarsa igiene: gli infortuni sono frequenti e sempre più spesso anche gravi. (… ) Noi non ci arrendiamo e anche se praticamente organizzarsi nel sindacato è proibito, tra noi operaie abbiamo formato vari tipi di “gruppi”: uno, quello delle più ribelli e d’avanguardia, di cui faccio parte, cerca di sostenere anche sindacalmente chiunque ne ha bisogno; un altro, composto da operaie diciamo “più moderate”, è necessario a far circolare le informazioni fra i reparti e a creare quel minimo di clima favorevole all’azione del primo. Poi credo che ne esista pure uno che fa il servizio opposto, che si ritrova per ottenere informazioni su ciò che succede fra noi operaie e passare le informazioni al padrone…

Abbiamo difficoltà a creare legami con altre aziende e a tenere con continuità le riunioni dei gruppi fuori dall’azienda a causa degli orari di lavoro: per gli uomini la giornata normale dura dalle 12 alle 16 ore, compresi sabato e domenica, per le donne in genere dura le tradizionali 8, ma poi mettici che oltre a quelle si devono occupare di famiglie e figli, della casa, ecc… è difficile creare la possibilità di socializzare fuori dall’orario di lavoro o fare riunioni, incontri, ecc. (…) Le donne, certo, oggi sono discriminate. Lo vedo proprio bene anche da me in azienda. Anzi, forse più discriminate che in passato perché l’uomo, o meglio, mi correggo, il capitalista ha da perdere il suo unico potere di fronte alla massa femminile, ribelle e autodeterminata. Quindi è necessario per lui piegare ogni singola donna e cancellarne l’autostima, usando ogni mezzo, anche la violenza psicologica. Ad esempio cerca costantemente di impormi la sua violenza dicendomi continuamente che ho “un’intelligenza pari a zero”. Ma non ci riesce: se ho un’intelligenza pari a zero, bene! Quello sarà il mio punto di partenza!”.

Abbiamo intervistato delle operaie, nonostante le cronache quotidiane raccontino che le vittime della violenza e dell’oppressione non abbiano “classe”, ma solo o soprattutto “genere”. E lo abbiamo fatto perché è principalmente dall’organizzazione e dalla mobilitazione delle operaie che è possibile incendiare la prateria della lotta per la completa emancipazione delle donne. Perché essa è parte della rivoluzione socialista e la classe operaia ne è la sua protagonista.

Abbiamo intervistato delle operaie perché la loro esperienza parla di come l’oppressione di genere (come quella “razziale”) si tratta in modo avanzato già nella lotta rivendicativa, quella lotta di cui le intervistate sono promotrici e protagoniste. Tuttavia “rivendicare” presuppone che la controparte sia disposta o costretta a concedere. La lotta politica rivoluzionaria, invece, è finalizzata ad abolire la controparte come classe sociale e il suo sistema, i suoi privilegi, il suo ruolo dominante, il suo potere ricattatorio e coercitivo. In questa lotta uomini e donne delle masse popolari sono sulla stessa barricata, combattono lo stesso nemico, perseguono la stessa vittoria. Sono di pari valore, legati indissolubilmente gli uni alle altre, nel destino della loro classe, della società che devono costruire e dell’umanità tutta.

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