LA VIA DI ANGELO E CHIARA

Nel mese di gennaio il P. CARC ha salutato con gioia la scelta, annunciata pubblicamente, di due suoi dirigenti nazionali, Angelo D’Arcangeli e Chiara De Marchis, di dimettersi dai propri ruoli per entrare in clandestinità e rafforzare il Centro del (n)PCI.

La scelta fatta dai due compagni, che in questo periodo è oggetto di discussione sia tra i membri del P. CARC sia all’esterno del Partito, suscita dubbi e domande e non è immediatamente comprensibile da tutti. E’ frutto di una concezione della rivoluzione del tutto nuova rispetto alla storia del movimento comunista del nostro paese, infatti, e di un approccio altrettanto nuovo rispetto alla repressione e agli attacchi del nemico.

Del resto, la storia del primo movimento comunista ha dimostrato che la rivoluzione socialista non è una rivolta popolare che scoppia in virtù di un susseguirsi di eventi non determinati dal Partito comunista, né una sollevazione spontanea durante la quale il partito comunista si mette alla testa delle masse e le guida ad assaltare il “Palazzo d’inverno” ma è una guerra promossa dal partito comunista per costruire un nuovo potere fondato sulle organizzazioni operaie e popolari in grado di ribaltare i rapporti di forza, scalzare il potere della borghesia, instaurare il socialismo.

Per promuovere e dirigere questa guerra il partito comunista deve essere clandestino, non per difendersi dagli attacchi del nemico o per rispondere alla sua messa fuori legge, ma per essere libero di pensare e di agire autonomamente dalla borghesia.

E’ su questa base che vent’anni fa si è costituita nella clandestinità la Commissione Preparatoria del primo congresso del (n)PCI ed è su questa base che oggi due dirigenti provenienti dal P. CARC scelgono, giocando d’attacco e andando controcorrente, di entrare in clandestinità per rafforzare il Centro del (n)PCI contribuendo a dare al partito e dandosi essi stessi i mezzi per far fronte ad una situazione politica inedita, come quella che abbiamo davanti, che con la breccia apertasi a seguito del voto del 4 marzo, della costituzione del governo M5S – Lega e delle contraddizioni che questo governo sta alimentando, crea condizioni decisamente più favorevoli per lo sviluppo della rivoluzione socialista.

Molti compagni, in questo periodo ci hanno chiesto e continuano a chiederci come mai il (n)PCI ha scelto di rendere pubblica la scelta dei suoi compagni e se questo non sia in contraddizione con il suo carattere clandestino. Non l’avessero fatto, solo gli apparati polizieschi che ci spiano ogni giorno l’avrebbero saputo, non vedendoli scrivere, telefonare, comparire nei luoghi usuali. Così invece tutti lo sappiamo, e tutti ne parliamo, come facciamo per questa serie di scritti che sono celebrazione degli anniversari della vita di Gramsci.

L’”anniversario di febbraio” scelto dalla Commissione Gramsci è l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato il primo febbraio di novantadue anni fa a due settimane dall’arresto di Gramsci.

Siamo nel 1927 e il fascismo è al potere da circa cinque anni e a seguito della crisi politica determinata dall’omicidio Matteotti con le “leggi fascistissime” compie un netto salto di qualità nella soppressione delle libertà democratiche borghesi e nell’instaurazione di un regime apertamente terroristico.

Tra queste leggi c’è quella istitutiva del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, tramite il quale il regime può perseguitare e incarcerare gli oppositori politici e in particolare i comunisti tra i quali Gramsci e Terracini.

Il primo PCI fu colto di sorpresa dall’avvento del fascismo e ancora di più dalla svolta repressiva del ’26. Dunque, adottò la clandestinità come strumento difensivo, fu costretto ad adottarla perché messo fuori legge dai fascisti.

Gramsci tentò, su incarico dell’Internazionale, di procedere alla trasformazione del Partito Comunista per renderlo capace di portare la classe operaia alla vittoria e fare dell’Italia un paese socialista. Il suo contributo rimane ancora oggi quello di gran lunga più rilevante tra i dirigenti comunisti dei paesi imperialisti, in particolare per due aspetti:

– anzitutto aveva capito che la rivoluzione non scoppia, ma si costruisce e si sviluppa come una “guerra di posizione”, cioè come una Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata in cui il Partito comunista campagna dopo campagna e battaglia dopo battaglia raccoglie forze intorno a sé, le organizza, le conduce a prendere il potere;

– inoltre aveva compreso che i comunisti per essere all’altezza dei propri compiti dovevano affrontare un processo di trasformazione, di Riforma Intellettuale e Morale.

Dovevano, in sintesi, imparare a pensare e ad agire con una concezione autonoma da quella della borghesia, con una teoria rivoluzionaria che è tale, dice Gramsci, quando è “un vertice inaccessibile al campo avversario” (Quaderno 11, Nota 27, Quaderni dal carcere, Torino, 1975, ed. Einaudi).

Gramsci stesso però non riuscì a procedere oltre determinati limiti nella sua propria riforma intellettuale e morale. La sua condotta durante il processo che lo condannò al carcere e la sua condotta durante tutto il periodo della prigionia fino alla morte furono contraddittori. Nel libroLo scambio – come Gramsci non fu liberato[1]è ricostruita la strategia che Gramsci tentò di mettere in piedi per la sua liberazione, affidandosi in Italia a soggetti come il Vaticano e mai contando sulla lotta e sulla solidarietà contro la repressione da parte delle masse popolari, cose che, a suo giudizio, avrebbero fatto irrigidire il regime e il suo capo Mussolini. Già a partire dal processo volle nascondere la sua identità di massimo dirigente del Partito Comunista.

Gramsci fu eroico nella resistenza alla repressione, ma non volle che contro la repressione si sviluppassero la lotta e la solidarietà. A questo modo di fare seguirono il suo progressivo isolamento e la morte lenta a cui il regime lo condannò, negandogli le cure necessarie. Gramsci nell’ultimo periodo della sua detenzione e della sua vita si abbandonò ad una sostanziale rassegnazione, testimoniata dalle parole scritte in una lettera a Tatiana Schucht del 29 maggio 1933, in cui riconosce che l’individuo, la sua volontà, la sua resistenza non bastano: “Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l’intelligenza e ottimista con la volontà. (…) Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze da esplicare.”

Questa vicenda ci fa riflettere: Gramsci per la propria liberazione contò su soggetti come il Vaticano e altri, come il presidente della Corte Costituzionale, parente di Piero Sraffa, un intellettuale sincero democratico che sostenne Gramsci per tutto il periodo della prigionia, e a fronte del regime non rivendicò i propri diritti, nemmeno quello alla salute. Noi diciamo che i comunisti per la propria liberazione non devono contare principalmente su eventuali appoggi che hanno in campo nemico, e che non trovano principalmente in sé stessi le forze per resistere alla repressione.

I comunisti traggono la loro forza e la loro legittimità dal legame che stabiliscono con le masse popolari nel corso della guerra rivoluzionaria, e per essere in grado di farlo devono trasformare la propria concezione, la propria mentalità e la propria personalità, essere dirigenti, essere Stato Maggiore della classe operaia che lotta per la conquista del potere.

Questa trasformazione può essere affrontata solo nel Partito Comunista e, in particolare, in un partito comunista che nasce e si sviluppa liberamente, cioè clandestinamente ed educa alla libertà trasformando anche gli individui che ne fanno parte e liberando il loro slancio, come emerge dalla lettera aperta scritta da Chiara De Marchis prima della sua partenza, in cui la compagna descrive come la scelta della clandestinità ha contribuito a trasformare le sue relazioni sociali, il suo ruolo nella coppia, il suo ruolo di donna: “La maturazione di questa mia scelta, che condivido con Angelo D’Arcangeli, mio compagno di vita e di lotta, è stata lunga e affatto semplice, perché essa implica una trasformazione radicale della mia vita, delle mie relazioni e del mio ruolo sociale. Ho dovuto fare una seria riflessione sul senso della mia vita e sulla mia “scelta di campo”. Ho dovuto misurarmi con le cose che studio, che conosco e che scopro. Ho dovuto interrogarmi seriamente sulla mia fiducia nella possibilità di costruire la rivoluzione socialista, mi sono chiesta fino in fondo “a cosa sono disposta” per la causa del socialismo, fin dove sono disposta ad arrivare. Ho affrontato la questione con serietà e questo mi ha portato a dare un senso nuovo, più profondo e cosciente al “dipende da noi””.

La scelta di Angelo D’Arcangeli e Chiara De Marchis è d’esempio a tutti coloro che vogliono liberarsi dalle catene e dai vincoli con cui la borghesia cerca di soffocare le loro migliori aspirazioni. Lo possono fare nel nuovo PCI, il partito che loro stessi insieme ad altre centinaia di compagni e compagne nel corso dei decenni hanno contribuito a costruire, un partito costruito nella clandestinità, perché abbiamo capito che un partito che vuole guidare la costruzione della rivoluzione socialista e abbattere il potere della borghesia imperialista deve essere clandestino, e lo abbiamo capito grazie all’esperienza del primo PCI e al martirio di Gramsci.

Non pensiamo, però, alla clandestinità solo come una misura per difendersi da un nemico feroce e infame, come il modo per sfuggire al destino che è stato riservato a tanti comunisti che ci hanno preceduto. Uno sente dire “clandestinità” e pensa a un agire nell’ombra, e poi c’è pure la condizione degli immigrati che a questa condizione sono obbligati. Nell’un caso e nell’altro, o per scelta o per obbligo il significato è non agire alla luce del sole. Ma possiamo veramente pensare alla luce del sole quando si fa politica nei termini e nel campo consentiti nella società borghese, dove anche l’aspirazione a una società socialista è soffocata, dove chi pensa al cambiamento rivoluzionario è portato a credere, in buona fede, che chissà quando ci sarà e se ci sarà, e dove lo spettacolo che i politici danno è così miserabile? Se si vuole parlare di luce del sole questo vale più per chi sta al di là di tutto questo, per chi opera nel nuovo PCI, libero di agire, di pensare, di discutere, di pianificare con cura il cammino. È il sole dell’avvenire, quello che ancora e sempre splende.

[1]Giorgio Fabre, Lo scambio, ed. Sellerio, Palermo, 2015.

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