Editoriale. Il vecchio mondo muore e il nuovo è ancora in germe

Tutti i paesi europei sono attraversati da grandi mobilitazioni delle masse popolari, ma le forme della mobilitazione sono diverse da paese a paese.

Il caso più clamoroso è la Francia. In tutto il paese, in particolare a Parigi, dal 17 novembre si susseguono quotidianamente manifestazioni, blocchi stradali, occupazioni di piazze e di edifici, violenti scontri con la polizia e barricate: è il movimento dei Gilet gialli (Gilets jaunes). Nato come protesta contro l’aumento del prezzo della benzina e del diesel deciso dal governo con la scusa della protezione dell’ambiente dall’emissione di anidride carbonica, a fronte della repressione poliziesca e del distaccato disprezzo del presidente della repubblica (Emmanuel Macron, eletto nel maggio 2017) e del suo governo, il movimento si è rapidamente trasformato in un’onda di iniziative quotidiane che combina rivendicazioni varie, in particolare contro la riduzione del potere d’acquisto, con la parola d’ordine “Macron démission”. Tutti i sabati a Parigi e in molte altre città vi sono episodi di guerriglia urbana. Vi partecipano tutte le categorie delle masse popolari che già si erano mobilitate nel recente passato contro la Loi Travail (l’equivalente del Jobs Act di Renzi) e altri provvedimenti simili a quelli presi in Italia dai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni: operai, studenti, abitanti delle periferie, lavoratori autonomi, lavoratori del pubblico impiego, donne, giovani e pensionati. Da settimane le immagini di decine di migliaia di persone che si scontrano con la polizia sventolando il tricolore, cantando l’inno nazionale, Bella ciao e l’Internazionale hanno spiazzato giornalisti, commentatori e imbonitori di tutte le parrocchie della classe dominante, compresi quelli della “sinistra radicale”. “Sono fascisti”, “sono manovrati dalla Le Pen” (la candidata alla presidenza per conto del Fronte Nazionale, oggi Rassemblement National, l’alleato francese della Lega di Salvini), “sono padroncini incattiviti dalla crisi”, “sono individualisti e menefreghisti che si ribellano alla tassa contro l’inquinamento” e via dicendo. Fino ad evocare “lo zampino della Russia di Putin” o, in alternativa, “la mano di Trump” a sobillare la rivolta. In piazza, i Gilet gialli attaccano i monumenti del potere, della finanza e del consumismo (supermercati e negozi di lusso).

In Gran Bretagna sono le manovre per “riparare” al referendum sulla Brexit che scaldano le piazze. Il governo di Teresa May cerca un accordo per aggirare la rottura con l’Unione Europea decisa dal referendum del 23 giugno 2016 o limitarne le conseguenze, ma nelle strade le masse popolari gridano “morte ai traditori”.

Ognuna di queste forme di mobilitazione è inclassificabile per chi si basa sulle categorie della cultura oggi prevalente (la cultura delle classe dominante), cioè sulla tradizionale distinzione fra destra e sinistra, due categorie nate con la rivoluzione francese del 1789. Questa distinzione è oramai del tutto inadeguata a definire i sommovimenti popolari, dopo che per circa quattro decenni, quelli successivi all’esaurimento della prima ondata mondiale della rivoluzione proletaria (grossomodo 1917-1976), in ogni paese europeo partiti di destra e partiti di sinistra, alleati o alternandosi al governo, attuano lo stesso programma comune della borghesia imperialista.

Ogni mobilitazione popolare porta in sé qualcosa del vecchio mondo che muore (la lotta contro una parte delle masse popolari che un’altra parte individua come responsabile della sparizione di questa o quella conquista di cui il crollo del vecchio mondo la spoglia) e qualcosa del mondo futuro (la spinta a mobilitarsi contro le autorità borghesi, a organizzarsi, a prendere in mano il proprio destino, la volontà di vivere in una società basata sull’uguaglianza, su una vita dignitosa per tutti, sull’istruzione, sull’assistenza sanitaria e sul lavoro utile e dignitoso). Proprio per questo, ognuna delle mobilitazioni può essere usata sia dai fautori della conservazione del vecchio mondo morente (mobilitazione reazionaria di una parte delle masse popolari contro un’altra dello stesso paese o straniera), sia al servizio della costruzione del nuovo mondo (mobilitazione rivoluzionaria). È un travaglio, le cui convulsioni non cesseranno, se non temporaneamente e superficialmente proprio come le doglie di un parto, finché il nuovo mondo non si sarà imposto sulle rovine del vecchio, finché la rivoluzione socialista non avrà trionfato e instaurato un ordine superiore al capitalismo.

Stalin “viene in soccorso” di chi ignora il marxismo e di chi lo usa come orpello intellettuale anziché come concezione per comprendere il mondo e per trasformarlo, con queste parole (tratte da “Materialismo dialettico e materialismo storico” – Storia del PC(b) dell’URSS, Edizioni Rapporti Sociali – gennaio 2018, pagg. 139-140), illuminanti anche se risalgono al 1938 e non tengono quindi conto né dello sviluppo che la scienza marxista ha avuto da allora ad oggi (in particolare dell’applicazione dell’analisi marxista della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale) né delle condizioni che distinguono il nostro periodo, successivo alla prima ondata della rivoluzione proletaria, da quelli che lo hanno preceduto.

“Sotto il regime capitalista la base dei rapporti di produzione è costituita dalla proprietà capitalista sui mezzi di produzione, (…) avendo sviluppato le forze produttive in proporzioni gigantesche, il capitalismo è caduto in un groviglio di contraddizioni che esso non può risolvere. Producendo quantità sempre maggiori di merci e diminuendone i prezzi, il capitalismo accentua la concorrenza, rovina la massa dei piccoli e medi proprietari privati, li converte in proletari e diminuisce la loro capacità d’acquisto. In conseguenza di questo lo smercio dei prodotti diventa impossibile. Allargando la produzione e raggruppando in immense fabbriche e officine milioni di operai [riferendoci alle condizioni di oggi diremmo: connettendo milioni di operai tra loro in un’unica rete mondiale di aziende che producono e scambiano merci sotto la direzione di pochi gruppi finanziari multinazionali – ndr], il capitalismo imprime al processo della produzione un carattere sociale e mina, per questo fatto stesso, la propria base, poiché il carattere sociale del processo produttivo esige la proprietà sociale dei mezzi di produzione. Ma nella società borghese la proprietà dei mezzi di produzione rimane una proprietà privata, dei capitalisti, incompatibile col carattere sociale del processo della produzione.

Queste contraddizioni inconciliabili tra il carattere delle forze produttive e i rapporti di produzione si manifestano nelle crisi periodiche di sovrapproduzione, quando i capitalisti, non trovando compratori solvibili a causa della rovina delle masse, di cui essi stessi sono i responsabili, sono costretti a bruciare le derrate, a distruggere le merci, ad arrestare la produzione, a distruggere le forze produttive, mentre milioni di uomini sono costretti alla disoccupazione e alla fame, non perché manchino le merci ma perché ne sono state prodotte troppe.

Ciò significa che i rapporti capitalisti di produzione hanno cessato di corrispondere allo stato delle forze produttive della società e sono entrati con esse in contraddizione insanabile.

Ciò significa che il capitalismo è gravido di una rivoluzione, chiamata a sostituire l’attuale proprietà capitalista dei mezzi di produzione con la proprietà socialista.

Ciò significa che un’acutissima lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori è il tratto caratteristico essenziale del regime capitalista. (…) I cambiamenti e lo sviluppo delle forze produttive conducono, presto o tardi, a un cambiamento e a uno sviluppo corrispondenti dei rapporti di produzione”.

Stante la crisi generale del capitalismo, in tutti i paesi imperialisti è inevitabile che la classe dominante cerchi di smantellare i diritti e le conquiste che i lavoratori e le masse popolari con dure lotte hanno strappato nei decenni passati, nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria, quando il movimento comunista era forte. Stante la crisi generale, in tutti i paesi “civili e democratici” il degrado sociale, morale, culturale e materiale della società intera è inevitabile. A tutto ciò le ampie masse oppongono spontaneamente (cioè senza avere precisa coscienza delle cause dei mali e della terapia, senza avere un preciso obiettivo, senza una strategia) una resistenza capillare e diffusa le cui forme e il cui contenuto derivano dal senso comune. Ai comunisti il compito di valorizzare questa resistenza spontanea, di orientarla, sostenerla e trasformarla in lotta politica rivoluzionaria. Chi si limita a giudicarne le forme, i modi e le contraddizioni è fuori strada.

La mobilitazione delle ampie masse è l’unica forza in grado di porre fine al corso disastroso delle cose che la borghesia imperialista ha imposto nel mondo intero. È l’unica forza che può sbarrare la strada all’attuazione del programma comune della borghesia imperialista (che porta alla mobilitazione reazionaria) e costruire il nuovo mondo di cui il capitalismo ha creato le condizioni, il socialismo.

Stante il senso comune corrente nella società capitalista, la classe operaia e le masse popolari si organizzano e si mobilitano per chiedere (o imporre) migliori condizioni di vita e di lavoro. Invece la coscienza necessaria per instaurare il socialismo viene loro portata “dall’esterno” delle condizioni in cui la borghesia le fa vivere: gliela porta il partito comunista (vedi Lenin – Che fare?, 1902).

Il partito comunista, dunque, non è la più grande e combattiva organizzazione di lotta rivendicativa e tanto meno è l’organizzazione che dà voce alla classe operaia nelle assemblee elettive della classe dominante (la “sponda politica” delle lotte rivendicative nei parlamenti, nei consigli comunali o regionali). Esso è prima di tutto lo stato maggiore della guerra rivoluzionaria che la classe operaia conduce contro la borghesia imperialista per conquistare il potere. Una guerra che si combatte su vari campi, il principale dei quali è la costruzione del nuovo potere, cioè la costruzione della rete di organizzazioni operaie e organizzazioni popolari (quelle che in Russia si chiamavano soviet) legate strettamente al partito comunista.

“La conquista della maggioranza del proletariato da parte nostra è il compito principale. La conquista della maggioranza non è certamente intesa da noi in modo formale come la intendono i paladini della “democrazia” perbenista (…) Tale conquista è possibile anche quando la maggioranza del proletariato formalmente segue ancora i capi della borghesia o i capi che fanno una politica borghese o quando la maggioranza del proletariato tentenna” (Lenin – “Lettera ai comunisti tedeschi” 14 agosto 1921, Opere Complete vol. 32 pubblicata su La Voce n. 60, pag. 16).

Il vecchio mondo sta morendo e il nuovo mondo non cade dal cielo. Che nasca quanto prima dipende dall’opera dei comunisti e da quanto essi sanno efficacemente assumere il ruolo di direzione della mobilitazione delle masse popolari. La rivoluzione socialista è l’opera cosciente del partito comunista che la conduce e contemporaneamente è il processo collettivo e unitario della classe operaia e delle masse popolari, milioni di individui, che vi contribuiscono e la combattono anch’essi, imparando a diventare nuova classe dirigente della società. Questa è la situazione in cui siamo immersi, combattere questa lotta è ciò che chiamiamo gli operai, i lavoratori, le masse popolari tutte a fare.

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