[Figline Valdarno] Intervista ai lavoratori Bekaert

Abbiamo incontrato la scorsa settimana gli operai della Bekaert di Figline Valdarno, che con la loro mobilitazione hanno costretto sindacati e istituzioni locali, regionali e nazionali a intervenire contro il tentativo della multinazionale belga di chiudere la fabbrica per delocalizzare in Romania, demolendo di fatto una parte del Jobs Act che aboliva gli ammortizzatori sociali per le aziende in chiusura. Nella discussione abbiamo fatto il punto sulla reindustrializzazione del sito, lo “stato d’animo” dell’organizzazione operaia e abbiamo raccolto le loro valutazioni sulla situazione politica: particolarmente interessante quelle sull’unità dei comunisti, che sicuramente riprenderemo insieme a loro e ai compagni che avranno intenzione di farlo.

 Fateci un breve riepilogo della storia del vostro stabilimento, del tipo di produzione e dei “guai” sopravvenuti nell’ultimo periodo.

Circa sessanta anni fa la Pirelli avviò lo stabilimento di Figline dove si produceva la cosiddetta steelcord (cordicella metallica). La società vantava 5 stabilimenti in tutto il mondo e il nostro era quello centrale dove, fintanto che la proprietà è rimasta di Pirelli, facevamo ricerca e sviluppo ammortizzando i costi con gli altri stabilimenti. Successivamente, per attribuire 5 milioni di deficit all’azienda, sono stati fatti gravare in capo ad essa anche costi relativi agli altri stabilimenti.

Negli ultimi 4 anni di Bekaert abbiamo sviluppato un prodotto altamente tecnologico che in 13 anni l’azienda aveva provato a creare senza risultati. Noi ci siamo invece riusciti in un anno e mezzo ma, oltre al risultato sono stati prodotti anche diversi costi tra cui scarti, inefficienze, tempo, che ci è stato fatto pesare come debito anziché come investimento.

Oggi solo la Bekaert produce la steelcord, Pirelli ha esternalizzato. Pensavano di fare come fanno in tante fabbriche in Belgio e come è previsto di fare per tutte le fabbriche dell’occidente per delocalizzarle. Noi gli abbiamo rotto il gioco, perché non abbiamo fatto passare il principio per cui pagando potevano chiudere lo stabilimento ed andarsene. Oggi loro se vogliono andare via devono innanzi tutto regalare lo stabilimento, perché per chi verrà a reindustrializzare ci saranno 40 mila euro a persona scontati dal prezzo del capannone. Quindi se assumono 300 persone, sono 12 milioni di euro. Per ora il processo di reindustrializzazione sta andando.

Come va la reindustrializzazione? E voi come state partecipando?

Noi siamo in appoggio all’RSU come un esecutivo del comitato degli iscritti che periodicamente si riunisce insieme alle strutture e ai delegati per fare il punto della situazione e seguire la reindustrializzazione (è previsto un monitoraggio trimestrale). Qui a Figline Valdarno è stato istituito presso il Comune un ufficio regionale che si occuperà di seguire da vicino il processo di reindustrializzazione. Ad oggi ci sono già almeno 3 soggetti importanti presi in considerazione.

Anche a Figline l’anno prossimo ci saranno le elezioni (in Toscana ci saranno in oltre 180 Comuni, tra cui Firenze, Prato, Livorno e Piombino, ndr) ma secondo me stanno facendo di tutto per far fallire la nostra reindustrializzazione per non far vincere il M5S. Infatti i movimenti che ruotano attorno alla nostra reindustrializzazione non fanno ben sperare. Come Di Maio è venuto nel nostro piazzale per ottenere visibilità e mettersi la medaglia, anche il PD locale sta cercando di tirare acqua al proprio mulino. Infatti se fallisse la reindustrializzazione avrebbero un appiglio per criticare l’operato del M5S, sostanzialmente a fallire non sarebbe la reindustrializzazione ma sarebbe il M5S.

Noi siamo per il “lavoro di cittadinanza”, è necessario creare lavoro per risolvere i problemi, siamo riusciti a prendere altri 15 mesi di tempo e Calosi (segretario provinciale della FIOM, ndr) ha scritto il decreto, che è stato poi ripreso da Di Maio.

Il vostro è un caso concreto di vittoria contro le delocalizzazioni, un problema che tiene banco orami quotidianamente nel paese (vedi l’ultimo caso della Pernigotti) e rappresenta una vera e propria emergenza; quali provvedimenti e quali mezzi dovrebbe assumere secondo voi un governo che si dice determinato nella difesa della sovranità nazionale, e quale deve essere il ruolo dei lavoratori verso di esso?

“Prima gli italiani” vuol dire mantenere le aziende sul territorio. Il governo dovrebbe promuovere un intervento a livello europeo per trattare con l’Europa. Non è giusto che un paese come l’Italia abbia una pressione fiscale di circa il 70% e in un paese come la Romania si aprono aziende gratis senza cura per le norme di sicurezza e ambiente. Se l’Europa è unita tutti i paesi dovrebbero avere gli stessi diritti, altrimenti non saremo mai competitivi sul mercato del lavoro a livello mondiale. Assisteremo al processo di globalizzazione inverso: quando toccheremo il fondo le aziende verranno rilocalizzate a condizioni peggiori. Serve fare politiche a livello europeo per estendere uguali diritti a tutti i paesi. È necessario limitare la possibilità di saltare da un paese ad un altro, di spostare soldi. (Una delle prossime crisi sarà a Brescello, dove la Immergas produce caldaiette murali e sta costruendo uno stabilimento in Romania, ndr).

Il nostro gruppo si è occupato anche di altre vertenze, siamo andati alla Signorini dandogli visibilità e portandoli con noi alle manifestazioni. Lo stesso abbiamo fatto per i lavoratori dell’indotto della Bekaert, infatti stiamo cercando di far ottenere gli ammortizzatori sociali anche a loro. Ciò che abbiamo cercato di fare è di non disperdere ciò che di buono questa vertenza ci ha portato. Abbiamo riacquistato spirito di gruppo e la solidarietà, questa vertenza ci ha portato ad avere grande solidarietà da parte di tutto il territorio. Sulla partecipazione il gruppo nostro, ma anche altri, tipo altri ragazzi che non si sono mai messi in gioco, hanno partecipato. È stata una scuola per riscoprirsi. Quando eravamo al presidio abbiamo passato nottate a parlare anche di problemi di vita quotidiana senza guardare il cellulare a giornata intera, stavamo insieme ed eravamo uniti.

L’operaio che stiamo intervistando ci chiede quali sono le differenze tra il PCI, il PC, PRC, PaP, eccetera, chiede perché non c’è un’unica bandiera comunista:

“Secondo me è l’assenza delle forze che rappresentano i lavoratori in parlamento ad averci portato ad un tracollo pazzesco, inizialmente si pensava che alcune forze potessero dare appoggio ai lavoratori ma, come si è visto, questo fine si è perso. Dalla scissione del vecchio PCI nacque PRC e da lì in poi è stato tutto un frammentarsi e conseguentemente le forze rappresentative dei lavoratori sono sparite dal parlamento: sono state fatte politiche sempre più a favore delle imprese piuttosto che degli operai…. Secondo me è necessario mettersi insieme per cercare di arrivare in parlamento, anziché frazionarsi e perdere credibilità. Dico questo perché secondo me non c’è differenza di intenti tra tutti questi partiti sul Lavoro, la sanità pubblica, la scuola… ciò che non ci fa avere forza è la mancanza di credibilità perché ci si fraziona sugli stessi argomenti. È difficile ricreare un movimento, a meno che non si voglia fare la rivoluzione ma io la vedo complessa.”

Abbiamo risposto al compagno che è proprio la via della rivoluzione socialista quella che perseguiamo, e nella fase attuale siamo concentrati sulla costruzione del Governo di Blocco Popolare; un governo di emergenza che vada a fondo dei nodi che ha indicato: il blocco delle delocalizzazioni attraverso la requisizione delle aziende dandole in gestione alle organizzazioni di fabbrica come la loro, che limiti la libertà di scorreria dei capitalisti, vada a fondo della rottura con i gruppi imperialisti UE, USA e sionisti.

Per quanto riguarda l’unità dei comunisti, le aspirazioni dei compagni sono più che giuste e corrispondono a quelle di migliaia di altri proletari che aspirano a fare dell’Italia un nuovo paese socialista; come P.CARC abbiamo sempre promosso il dibattito sul tema, mettendo al centro i seguenti, imprescindibili punti:

  1. perché i comunisti non hanno instaurato il socialismo nei paesi imperialisti nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria, nel secolo scorso?
  2. perché nei primi paesi socialisti sono prevalsi i revisionisti moderni, è stata avviata la restaurazione del capitalismo, numerosi di essi sono crollati e gli altri hanno “cambiato colore”?
  3. qual è la natura della crisi in corso (andando oltre il generico accenno fatto da alcuni durante l’iniziativa alla “crisi per sovrapproduzione”, senza entrare nel merito se si tratta di crisi per sovrapproduzione di merci, di capitale o di altro e di quali sono le sue implicazioni economiche, politiche e sociali innanzitutto nei paesi imperialisti e nel particolare del nostro paese)?
  4. qual è nei paesi imperialisti la via da seguire oggi per arrivare a instaurare il socialismo?

Rispondere a queste domande è necessario per avanzare nella costruzione del processo rivoluzionario, a costo di scontri ideologici anche aspri che hanno caratterizzato da sempre il movimento comunista e il suo sviluppo; senza dispiegare la lotta ideologica non si arriva a unità superiori che non siano basate sui “minimi comuni denominatori” (unità senza lotta) oppure a cartelli elettorali messi insieme per le (sempre più rare) tornate elettorali, con i risultati che abbiamo ben visto in particolare negli ultimi anni.

Quindi raccogliamo volentieri “l’invito” degli operai Bekaert a promuovere il dibattito ideologico sull’unità dei comunisti e faremo altrettanto per la politica da fronte in solidarietà alla classe operaia e alle masse popolari che resistono alla crisi.

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