[Italia] Intervista a Karim Bekkal del SI Cobas

Il 26 ottobre scorso, giornata nazionale di sciopero generale (promosso da varie sigle di base), a margine del corteo organizzato dal SI Cobas che ha visto la presenza di circa 250 tra facchini della logistica e non solo a Castelnuovo Ragnone (MO), centro delle lotte che negli ultimi anni hanno coinvolto il settore delle carni e che hanno visto denunce, cariche e arresti (come quello di Aldo Milani, loro coordinatore nazionale, il 26 gennaio 2017), abbiamo intervistato Karim Bekkal, dirigente del SI Cobas in Emilia Romagna. L’intervista è utile perché, oltre ad offrire uno spaccato reale sull’attività e i metodi di lotta del SI Cobas, mette al centro con forza la questione dell’appartenenza di classe anche e soprattutto in settori dove i lavoratori immigrati sono la maggioranza.

Infatti, il lavoro politico e sindacale che il SI Cobas promuove consente di analizzare l’immigrazione (il razzismo e la guerra tra poveri) con “lenti di classe”: è così che bisogna trattare la materia in quanto, nella società capitalista, questa questione può essere soltanto o strumento in mano ad una parte della classe dominante per alimentare la guerra fra poveri oppure giro di affari per quella parte di classe dominante che regola e organizza “l’accoglienza”. Stanti gli effetti della fase terminale della crisi generale del capitalismo si sviluppa maggiormente la prima strada, benché per una parte della classe dominante continua ad esistere anche la seconda. In sunto, il legame di classe fra il proletariato autoctono e quello immigrato è uno degli aspetti decisivi da comprendere per non scadere né, da una parte, nel pietismo né, dall’altra, nella contrapposizioni tra settori delle masse popolari o, addirittura, tra sigle sindacali. In questo senso, aspetto positivo che troviamo nell’intervista è la tensione, nella pratica di questa organizzazione sindacale, ad “uscire dall’azienda”, ovvero a non rimanere nel seminato della singola vertenza sindacale ma ad unirsi con il resto del movimento in lotta (come l’esperienza qui riportata della Granarolo mette bene in luce), insegnamento questo valido in ogni campo della mobilitazione delle masse popolari.

Infatti, il tema centrale che attraversa l’intervista tutta è proprio la lotta per il lavoro, che sia utile e dignitoso per tutti diciamo noi, e che la solidarietà di classe diventa una bussola nelle lotte che coinvolgono autoctoni e immigrati: lo sfruttamento promosso dalla borghesia ha sì ricadute specifiche sugli immigrati ma in definitiva poggia sulle necessità oggettive del capitalismo, ovvero la valorizzazione del capitale, la difesa della proprietà privata della minoranza e il suo controllo sulla maggioranza.

L’intervista è però interessante anche per i ragionamenti raccolti in materia di dialettica tra il ruolo del Partito (comunista), il sindacato e la classe operaia e di come la questione del governo del paese è effettivamente il nodo di fase e di prospettiva per chiunque si pone l’obiettivo di “trasformare la realtà”, o anche solo “migliorarla”.

Infatti, come Carovana del (nuovo) Partito Comunista Italiano, lavoriamo per la costituzione di organizzazioni operaie e popolari, il loro rafforzamento e l’espansione della loro attività, nelle aziende e fuori, perché risulta essere il fattore decisivo 1. per mettere realmente al centro gli interessi di classe, dove il sindacato ha un ruolo importante in prospettiva (oltre la lotta rivendicativa di per sé) e 2. per allargare la breccia frutto della resistenza spontanea, al procedere della crisi, delle masse popolari che si è anche espressa tramite la formazione del governo M5S-Lega. Solo con il protagonismo delle masse popolari organizzate, alla cui testa vi è la classe operaia (a prescindere dal numero degli operai, dai contratti e dalla nazionalità resta in ogni caso la classe rivoluzionaria), si può andare oltre la singola vertenza, la quale si deve trasformare in un’ulteriore tappa del percorso che punta alla creazione di superiori condizioni per la costituzione di un governo d’emergenza diretta emanazione delle organizzazioni operaie e popolari. Questo governo ha in esse i suoi principali organismi locali, che agiscono come nuove autorità pubbliche o come controllori e garanti della lealtà degli organismi statali e pubblici. In tutto ciò il Partito comunista, quindi, si deve organizzare e deve agire come classe dirigente delle masse popolari, andando oltre quello che loro spontaneamente (senza guida del Partito Comunista) non fanno inserendo la loro azione nel preciso solco della costruzione della rivoluzione socialista (1).

L’unica soluzione per farla finita con sfruttamento, razzismo e morte è l’instaurazione del socialismo: in esso nessuna donna o uomo, autoctono o immigrato, è un esubero!

Questi alcuni spunti che si possono trarre dall’intervista.

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In primo luogo vorremmo raccogliere la vostra esperienza. La lotta della Granarolo è tra le più significative nella storia della costruzione del vostro percorso. Ti chiedo di raccontare quell’esperienza e gli insegnamenti che ne avete tratto (2). 

Alla Granarolo c’erano cinquanta lavoratori che lavoravano nei magazzini dell’azienda dodici, tredici ore al giorno per poco più di mille euro al mese. Il CCNL non era rispettato. Con questi pochi soldi di salario la cooperativa che aveva in gestione il servizio da Granarolo si inventò uno stato di crisi. Volevano tagliare il salario, che era già fame, del trentacinque per cento per arrivare a otto o novecento euro. Ma i ritmi di lavoro erano massacranti, come poteva esserci crisi?! I lavoratori andarono dai sindacati confederali per accorgersi che erano stati proprio loro a firmare l’accordo, con la scusa della crisi. A quel tempo, siamo nel 2013, il SI Cobas aveva già iniziato a lottare nella logistica. I lavoratori si iscrissero con noi ma, appena aderirono, vennero licenziati in tronco. Il giorno dopo, davanti ai cancelli, i padroni della cooperativa gli impedirono l’ingresso. C’erano già altri cinquanta lavoratori assunti, anche loro stranieri (la maggioranza erano rumeni, pakistani e marocchini). A quel punto iniziarono gli scioperi del SI Cobas.

Lì abbiamo visto come, immediatamente, anche i lavoratori immigrati con una coscienza politica meno avanzata, quelli che pensavano che lo Stato fosse lì per difendere i loro diritti e che si sentivano tutelati, iniziarono a non sentirsi più sicuri. Capirono che la Polizia e lo Stato, in realtà, difendono il padrone. Alle prime lotte sono partite denunce, manganelli, lacrimogeni. Avevamo tutti contro: la Prefettura, la Questura. Invece di spaventarli, questo rese i lavoratori combattivi al punto da maturare la determinazione di andare avanti fino in fondo. Non avevano più niente da perdere. Anche il salario di disoccupazione era praticamente nullo, perché il vecchio contratto non rispecchiava le ore effettive di lavoro. Poi tante volte sono venuti dall’ufficio dell’immigrazione della Questura di Bologna a dire che avrebbero revocato i permessi di soggiorno. I lavoratori dicevano che a loro non interessava il permesso se dovevano vivere in questo paese senza dignità, spaccandosi la schiena per nulla. Abbiamo indetto delle assemblee in altri magazzini per spiegare il motivo per cui questi lavoratori erano stati licenziati. Tutti provavano rabbia e capivano che era giusto lottare, anche perché era il periodo della discussione del Jobs Act e se passava quella legge, la legge che il padrone quando vuole licenzia, il giorno dopo poteva toccare a tutti. In generale capivano le problematiche perché anche loro subivano le stesse cose. Quindi è arrivata la solidarietà di tantissimi altri lavoratori da altri magazzini della logistica. I delegati avevano il permesso sindacale e quindi almeno una volta o due al mese partecipavano alle lotte della Granarolo. Tanti altri hanno consumato tutte le ferie e i permessi, anche non retribuiti, per gli scioperi della Granarolo.

Dopo 16 mesi di blocchi e scioperi, la Prefettura ci ha convocato per un incontro con le parti. Come SI Cobas abbiamo firmato un accordo che prevedeva che la maggioranza dei lavoratori rientrasse a lavorare. Una piccola parte avrebbe potuto negoziare su base volontaria un accordo economico di buona uscita. Ci offrivano questo a condizione di un mese di tregua. Noi accettammo la proposta.

Ma non ci fidammo delle promesse. Quello che incide è tenere il rapporto di forza dalla nostra e l’animo della lotta alto. Per questo, durante questa tregua noi abbiamo fatto tantissime assemblee con altre realtà, come occupanti di case, studenti e altri partiti di lotta. Abbiamo allargato la rete di solidarietà. Così se loro non avessero mantenuto le loro promesse noi avremmo avuto la forza di far loro fronte. È qui che è partito il progetto di occupare le case per la maggioranza di questi lavoratori. Senza reddito, avevano perso anche la casa. Il Social Log di Bologna organizzò queste occupazioni in Via Mario de Maria e all’ex Telecom. In quello stesso periodo, il presidente di Granarolo [Luciano Sita, ex direttore generale della Conad e membro del CDA di Hera S.pA.] diventa presidente di Legacoop Agroalimentare e il presidente di Legacoop, Poletti, diventa Ministro del lavoro. A questo punto, il Prefetto che aveva firmato l’accordo con noi fu revocato e ne fu nominato uno nuovo, uno di Padova, quello che aveva costruito il famoso muro [Ennio Sodano]. Lui ci convocò e ci disse che l’accordo precedente non era più valido perché il Prefetto che l’aveva firmato era cambiato. Per di più il governo, con una nuova commissione di garanzia, aveva nel frattempo inserito il latte nella lista dei servizi pubblici essenziali e quindi al quel punto bloccare il magazzino della Granarolo voleva dire prendere una multa di 8000 euro a testa, la revoca del permesso di soggiorno e l’arresto. Noi eravamo incazzatissimi contro questa risposta e abbiamo subito ricominciato a fare blocchi.

Il primo blocco dopo la tregua l’abbiamo fatto con tutti i delegati d Bologna che all’epoca erano quasi 150 e hanno arrestato due nostri compagni. Allora abbiamo proclamato lo sciopero nazionale del SI Cobas e abbiamo portato davanti alla Granarolo tutti i lavoratori del SI Cobas, da tutta Italia. Portavamo al picchetto anche chi si era unito alle occupazioni delle case e gli studenti. E quindi c’erano tante masse davanti a questi picchetti e a questi scioperi. A fronte delle minacce di bloccare i permessi di soggiorno siamo andati in tanti con una fotocopia del permesso sotto le questure a dire che a noi non ce ne fregava nulla del loro ricatto e abbiamo strappato le fotocopie. Sono partite tantissime denunce. Io credo di averne collezionate una decina. Alla fine la Prefettura ci ha richiamato e hanno fatto rispettare l’accordo che era stato preso precedentemente, cioè il reintegro di tutti i lavoratori.

Per noi quella lotta è stata una vittoria e un esempio per tutti i lavoratori. Ci ha insegnato che con la determinazione si può vincere anche se siamo in pochi. Se quei pochi continuano a resistere troveranno prima o poi la solidarietà di altri lavoratori. Il caso della Granarolo è diventato un precedente in tutta l’area. Credo che se i lavoratori lottano con questa determinazione davanti alle fabbriche avranno i diritti e la dignità che spetta loro.

Voi dite che il Decreto sicurezza è una risposta diretta a queste lotte, perché prende di mira le pratiche che vi hanno portato a strappare delle conquiste e cerca di creare guerra tra poveri, facendo in modo che i lavoratori italiani non seguano l’esempio di quelli immigrati.

Gran parte del Decreto sicurezza è stato scritto da CONFETRA, una delle organizzazioni padronali della logistica contro la quale lottiamo tutti i giorni. Credo che questo decreto voglia colpire chi è in prima linea nelle lotte, quindi le lotte della logistica del SI Cobas e le occupazioni di case. I lavoratori oggi in Italia in tutti gli altri settori subiscono questa crisi fasulla. Subiscono tagli sui salari e la perdita delle conquiste a causa delle politiche di tutti i governi precedenti. Penso al Jobs Act del PD o agli accordi infami che hanno firmato i sindacati confederali e anche alcuni sindacati di base sul testo unico sulla rappresentanza, che limita il diritto di sciopero. In tutte le aziende dove siamo presenti, noi siamo stati in grado, con tutte le organizzazioni padronali nel nostro settore, di non far applicare il Jobs Act. Semplicemente non lo abbiamo accettato e sugli accordi abbiamo scritto che i lavoratori abbiano la tutela dell’articolo 18.

Dobbiamo capire che le leggi non le scrive il governo. Il governo le applica, ma sono proposte padronali. Le aziende vorrebbero meno lavoratori con meno salario possibile, vorrebbero mandare milioni di lavoratori in disoccupazione e in cassa integrazione. I padroni hanno a che fare con i lavoratori nelle aziende. Sanno che altri lavoratori non vedono speranza, subiscono la crisi e i tagli del salario, vengono licenziati. È passato il PD, e il M5S ha fallito perché non ha mantenuto nemmeno una delle promesse che aveva fatto. Quindi i lavoratori non hanno sfogo e cominciano a guardare alle nostre lotte e prendere esempio da noi. È questo che fa paura ai padroni e al governo. Non vogliono questa unità. Quindi stanno spendendo grandi quantità di soldi per ingannare gli italiani e dire loro che la colpa della crisi sono gli immigrati. Vogliono fare guerra tra poveri e far scaricare la rabbia dei lavoratori italiani sui loro compagni immigrati. In parte ci stanno riuscendo ma noi stiamo lavorando per dire ai lavoratori italiani che noi non siamo loro nemici. Siamo stati noi immigrati a elevare le condizioni lavorative nel nostro settore. Prima nella logistica non c’era un solo italiano. Oggi si vedono anche italiani perché i ritmi di lavoro sono più umani e il salario è degno. Prima non venivano perché c’era uno sfruttamento selvaggio, tante ore di lavoro e un salario da miseria. Oggi vengono a lavorare in massa in questo settore e sono contenti di lottare insieme a noi. Noi vogliamo che questo si allarghi, che gli italiani lottino insieme a noi per conquistare più diritti e dignità. I soldi ci sono, solo che sono nelle tasche sbagliate e per averli bisogna lottare insieme.   

Il magazzino dove lavoravi, però, ha chiuso. Non credi che oggi ci siano le condizioni per prendersela in mano l’azienda?

Anche al magazzino dove lavoravo eravamo esternalizzati, come alla Granarolo, e questo creava una fila di capi e capetti e divisioni tra i lavoratori. Quando abbiamo scioperato abbiamo tolto tutti questi capi e capetti e la gestione del lavoro è diventata quasi tutta autonoma. Prima, per esempio, il responsabile dava le casse più facili a quelli che non creavano problemi. Noi abbiamo eliminato tutto questo: quando arriva la cassa va quello che è libero. Lavoriamo senza responsabili, ci aiutiamo tra di noi. Prima avevamo paura anche solo di chiedere aiuto. In questo modo, di fatto, ci sono tantissimi lavoratori della logistica che gestiscono i magazzini e il magazzino funziona meglio. Ma al padrone costa di più.

 

Ma gli operai non possono prendere la direzione della fabbrica? Cioè senza fare padrone? Tutta la prima ondata della rivoluzione socialista dimostra che questo è possibile. Te lo chiedo perché ho notato che i tuoi video finiscono sempre con canti di lotta comunisti.

Non lo so. Se anche il direttore del magazzino, che fa ha sotto controllo la gestione delle partenze e degli arrivi, si iscrive alla lotta e sciopera insieme ai lavoratori e se la ricchezza viene redistribuita equamente, allora si può. I lavoratori possono fare delle cooperative da soli, anzi questo è il concetto originario delle cooperative. Prima erano in mano agli operai che gestivano la redistribuzione della ricchezza in modo equo, a parità di salario. Ma oggi sono in mano a poche persone che fanno sparire i soldi o ne dichiarano pochi e lasciano ai lavoratori solo briciole. Se tra i lavoratori si diffondesse un vero concetto di cooperativa, secondo me sarebbe l’idea perfetta per gestire la ricchezza in un modo più giusto per tutti. Anche se vediamo adesso tante cooperative che fanno fatica a far tornare i conti, perché non guadagnano più quello che guadagnavano prima.

Oggi il contesto è quello della crisi generale del capitalismo.

Non credo che nel settore della logistica ci sia crisi. È molto diverso dal resto dei settori. Guarda, la lotta della logistica serve più agli italiani che agli stranieri. Prima il prezzo della logistica era troppo basso e quindi tutte le fabbriche delocalizzavano perché costava poco far circolare i prodotti. Questo produceva disoccupazione fra i lavoratori italiani. Con la nostra lotta abbiamo alzato il prezzo della logistica e quindi non conviene più delocalizzare per molte fabbriche. Strappando nella logistica ritmi di lavoro dignitosi e salari più alti, abbiamo creato non solo posti di lavoro per italiani ma abbiamo anche garantito che altre fabbriche italiane non delocalizzino. Noi siamo contrari alle nazionalizzazioni ma vogliamo che questa lotta si allarghi a livello internazionale per costruire quella società che tutti vogliamo.

La questione dell’immigrazione è un terreno su cui la classe dominante fa leva per promuovere la mobilitazione reazionaria. Quale è la vostra idea sull’accoglienza degli immigrati in Italia? Che cosa pensate che si dovrebbe fare?

Quello che si dovrebbe fare è elevare la coscienza delle persone. Il nemico numero uno è l’ignoranza. Le masse si fidano di quello che gli viene detto. Per secoli si sono affidate a partiti su partiti, delegando l’iniziativa politica. La più grande bugia è quando si dice che l’immigrazione è una scelta. Abbiamo scritto un nostro documento su questo [Documento contro il razzismo di stato]. Questi immigrati che arrivano oggi in Europa sono stati costretti a emigrare da guerre presenti e passate, da fame e miserie prodotti dal colonialismo europeo. Le potenze europee hanno saccheggiato il mondo e massacravano chi si ribellava a questo saccheggio. La ricchezza dei nostri paesi ancora oggi viene portata in Europa e non sono le masse europee a beneficiare di questo, ma un pugno di ricchi. Noi dobbiamo quindi unire le lotte. Però ancora non riusciamo a comunicare bene con i comitati di immigrati nei centri di accoglienza perché siamo molto focalizzati sulla pratica della lotta. Il livello di repressione che subiamo è molto alto e non abbiamo il tempo di pensare, scrivere e quindi comunicare bene. L’unico modo finora è stato il sito e i social con i video.

Una soluzione definitiva al problema del razzismo in Italia sarà la piena occupazione. Il lavoro c’è per tutti e i soldi, come hai detto anche tu, ci sono. Ma un governo che applica una misura del genere non può essere il governo dei padroni. Non credi che per risolvere davvero i problemi dobbiamo, quindi, porci il problema di come arrivare al potere?   

Per cambiare tutto il sistema ci vuole una rivoluzione. Questo è sicuro. Ma non volgiamo che le masse si fidino più delle votazioni. Tutto gira intorno a chi finanzia le campagne elettorali. È necessario che le masse realizzino che per cambiare sistema ci vuole la lotta e non le elezioni.

E per costruire questa rivoluzione che differenza c’è tra il ruolo di un sindacato e il ruolo di un partito? L’esperienza storica ci insegna che la rivoluzione, se ha successo, è costruita da un Partito comunista.

Io credo che il sindacato faccia anche il partito. Non si chiama partito ma è anche un partito. È un partito di lotta a cui, infatti, aderiscono non solo lavoratori. Di un sindacato tradizionalmente inteso possono far parte solo lavoratori. Nel nostro caso è diverso. Chiunque può far parte di questa lotta, tutto il popolo. Quindi di fatto stiamo superando il concetto di sindacato. Siamo un sindacato che sta andando nella direzione di diventare anche un partito di lotta. Questo perché il sindacato tramite le lotte e la comunicazione fa crescere la coscienza politica delle masse. Grazie all’esempio facciamo capire quali sono i metodi di lotta per cambiare le condizioni materiali, come nei magazzini così nella società. Il magazzino è un piccolo regime. Lo Stato è il grande regime. La lotta si può vincere e ribaltare il sistema dei padroni.

Poi dobbiamo governare.

Dovrebbe nascere uno Stato come il piccolo stato che nasce all’interno di queste aziende occupate. Un governo dove tutti lavorano per contribuire alla società, non per arricchire se stessi o i loro amici. Un governo dove chi governa difende i lavoratori e lotta per promuovere la solidarietà. Se questa cosa è successa nei Paesi socialisti, è successo per piccoli periodi, poi tutto è stato corrotto. Forse questo dipende dal fatto che l’organizzazione che c’era non era ancora perfetta. Dobbiamo studiare bene queste esperienze per capire come evitare di avvicinarci ancora una volta al risultato per poi lasciare tutto in mano a qualcun altro e far degenerare le cose. È come nella Primavera araba.

NOTE

  1. In materia, rimandiamo all’articolo “I comunisti devono diventare la nuova classe dirigente delle masse popolari” contenuto in La Voce 56 del (nuovo) Partito Comunista Italiano e all’articolo “Mobilitare gli operai avanzati a fare la rivoluzione socialista” in La Voce 58;
  2. Per approfondimenti e dettagli, rimandiamo al testo “Carne da macello” a cura del SI Cobas, edito da Red Star Press e al video con le riprese fatte coi telefoni [https://www.youtube.com/watch?v=Sz61ze3Kxjk]. Il video è girato in tutta Italia. Tante iniziative di lotta sono state costruite su questo video e sull’esempio della Granarolo ed è stato diffuso in tanti altri paesi, oltre a ricevere inviti a presentare il video a Berlino, in Spagna, in Francia, in Brasile e anche in Cina.

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