Fra il 10 e il 14 settembre 1917 Lenin scrisse l’opuscolo “La catastrofe incombente e come lottare contro di essa” [qui la versione integrale con la presentazione del (nuovo)PCI che l’ha pubblicata su La Voce n. 42], un testo di cui, nonostante le grandi differenze fra la Russia del governo Kerensky e l’Italia attuale, proponiamo ai lettori ampi stralci di questo esempio magistrale di applicazione del materialismo dialettico come strumento di analisi e guida per l’azione. Tenuto conto delle importanti differenze (la Russia era coinvolta e sconvolta nella Prima Guerra Mondiale, il governo Kerensky fu il frutto di una manovra “dall’alto” con cui lo zar e la classe dirigente dell’epoca provarono a trarsi d’impaccio – con la complicità della sinistra borghese dell’epoca – approfittando della mobilitazione “dal basso” ampia e dispiegata) e senza voler porre forzati paragoni, il testo integrale, pubblicato sul sito www.nuovopci.it nella sezione “classici del movimento comunista”, è un testo di inestimabile valore per comprendere il ruolo dei comunisti, tanto nella Russia “democratica rivoluzionaria” del 1917 quanto nell’Italia del “governo del cambiamento” del 2018, come nuova classe dirigente della società e del paese. Gli stralci che pubblichiamo sono utili tanto a chi si dice comunista e vuole avere un ruolo positivo nella situazione attuale, quanto agli operai, ai lavoratori e alle masse popolari che ambiscono al “cambiamento” promesso dal governo M5S-Lega e si renderanno conto, più di quanto già intuiscono, che esso va perseguito e non aspettato.
La catastrofe incombente e come lottare contro di essa
(…) Per un governo che si chiamasse democratico rivoluzionario non solo per scherzo, sarebbe stato sufficiente, fin dalla prima settimana della sua formazione, decretare (decidere, ordinare) l’applicazione dei principali provvedimenti di controllo, stabilire sanzioni serie – e non risibili – contro i capitalisti che avessero cercato di sottrarvisi in modo fraudolento e invitare la popolazione stessa a sorvegliare i capita listi, a vigilare affinché essi rispettassero scrupolosamente le decisioni sul controllo, e il controllo sarebbe stato da lungo tempo applicato in Russia.
Ecco i principali di questi provvedimenti:
1. Nazionalizzazione delle banche. Le banche, come è noto, sono i centri della vita economica moderna, i principali gangli nervosi di tutto il sistema capitalista dell’economia nazionale. Parlare della “regolamentazione della vita economica” ed eludere il problema della nazionalizzazione delle banche significa o dar prova della più crassa ignoranza, o ingannare “il popolino” con parole pompose e promesse magniloquenti che si (…) In che consiste dunque l’importanza della nazionalizzazione delle banche? Nel fatto che un controllo effettivo sulle singole banche e sulle loro operazioni è impossibile (anche se il segreto commerciale è abolito, ecc.), perché è impossibile seguire quei complicatissimi, imbrogliati e astuti procedimenti di cui si fa uso nello stendere i bilanci, nel formare imprese fittizie e filiali, nel far intervenire uomini di paglia e così via. Solo la fusione di tutte le banche in una sola, fusione che di per sé non porta nessun cambiamento nelle relazioni di proprietà, che non toglie, lo ripetiamo, a nessun proprietario nemmeno un centesimo, rende possibile un effettivo controllo, a condizione, naturalmente, che vengano attuati tutti i provvedimenti sopra indicati. Solo la nazionalizzazione delle banche permette di ottenere che lo Stato sappia dove e come, da che parte e in che momento, scorrono i milioni e i miliardi. E solo il controllo esercitato sulle banche – questo centro, questo fulcro e meccanismo essenziale della circolazione capitalista – permetterebbe di organizzare sul serio, e non a parole, il controllo su tutta la vita economica, sulla produzione e distribuzione dei principali prodotti, di organizzare quella “regolamentazione della vita economica” che altrimenti sarebbe inevitabilmente condannata a rimanere una frase ministeriale, destinata ad ingannare il popolino. Solo il controllo sulle operazioni di banca, a condizione che esse vengano effettuate in un’unica banca di Stato, permetterebbe di organizzare, con nuovi provvedimenti facilmente attuabili, la riscossione effettiva dell’imposta sul reddito, senza che sia possibile occultare i beni e gli introiti, poiché attualmente quest’imposta si riduce in gran parte a una finzione.
Basterebbe appunto decretare la nazionalizzazione delle banche; la realizzerebbero i direttori e gli impiegati stessi. Qui non occorre nessun apparato speciale, nessuno speciale provvedimento preparatorio da parte dello Stato: questo provvedimento può essere attuato con un solo decreto, “di colpo”, poiché la possibilità economica di un tale provvedimento è stata fornita appunto dal capitalismo che nel suo sviluppo è giunto sino alle cambiali, alle azioni, alle obbligazioni, ecc. Non resta dunque che da unificare la contabilità; e se lo Stato democratico rivoluzionario decidesse di convocare immediatamente, per telegrafo, in ogni città delle assemblee e in ogni regione e in tutto il paese dei congressi di direttori e di impiegati per la fusione immediata di tutte le banche in una sola banca di Stato, questa riforma verrebbe effettuata in qualche settimana. Proprio i direttori e gli alti funzionari, s’intende, opporrebbero resistenza, cercherebbero di ingannare lo Stato, di menare le cose per le lunghe, ecc., dato che quei signori perderebbero i loro posticini particolarmente redditizi, perderebbero la possibilità di lanciarsi in operazioni fraudolente particolarmente lucrative. Qui è il nocciolo della questione. Ma la fusione delle banche non presenta nessuna difficoltà tecnica; e se il potere statale fosse rivoluzionario non solo a parole (non temesse cioè di rompere con le vecchie concezioni e lo spirito abitudinario) e fosse democratico non solo a parole (agisse cioè nell’interesse della maggioranza del popolo e non di un pugno di ricchi), sarebbe sufficiente decretare, come misura di punizione, la confisca dei beni e l’arresto di quei direttori, membri di amministrazioni e grandi azionisti che tentassero la minima manovra dilatoria o cercassero di nascondere i documenti e i rendiconti. Basterebbe, per esempio, raggruppare a parte gli impiegati poveri e concedere dei premi a chi fra di loro scoprisse le frodi e le manovre dilatorie dei ricchi, e la nazionalizzazione delle banche avverrebbe senza urti e scosse, in un battibaleno.
(…) La nazionalizzazione delle banche renderebbe estremamente facile la nazionalizzazione simultanea delle assicurazioni, cioè la fusione di tutte le compagnie di assicurazione in una sola, la centralizzazione della loro attività, il controllo da parte dello Stato. Congressi degli impiegati delle società di assicurazioni attuerebbero anche in questo caso la fusione, immediatamente e senza nessuno sforzo, se lo Stato democratico rivoluzionario la decretasse e ordinasse ai direttori delle amministrazioni di queste società, ai grandi azionisti, di attuarla senza il minimo ritardo, sotto la stretta responsabilità di ciascuno di essi. (…).
2. La nazionalizzazione dei cartelli capitalisti. Ciò che distingue il capitalismo dai vecchi sistemi precapitalisti di economia nazionale è che esso ha stabilito una connessione e un’interdipendenza molto strette fra i vari rami dell’economia nazionale. Senza di che, sia detto tra parentesi, nessun passo verso il socialismo sarebbe tecnicamente realizzabile. Ma il capitalismo moderno, col dominio delle banche sulla produzione, ha portato al più alto grado questa interdipendenza dei vari rami dell’economia nazionale. Le banche e i rami più importanti dell’industria e del commercio si sono indissolubilmente fusi. (…) Per fare qualcosa di serio bisogna passare dalla burocrazia alla democrazia; dichiarare cioè la guerra ai re del petrolio e agli azionisti, decretare la confisca dei loro beni e la pena della prigione per il differimento della nazionalizzazione dell’industria del petrolio, per l’occultamento dei redditi e dei conti, per il sabotaggio della produzione, per il rifiuto di prendere provvedimenti atti ad aumentare la produzione. Bisogna fare appello all’iniziativa degli operai e degli impiegati, convocarli immediatamente in conferenze e congressi e concedere loro una certa parte dei benefici, a condizione che essi istituiscano un ampio controllo ed aumentino la produzione. Se questi provvedimenti democratici rivoluzionari fossero stati presi subito, sin dall’aprile 1917, la Russia, uno dei paesi più ricchi del mondo per le sue riserve di combustibile liquido, avrebbe potuto durante l’estate, utilizzando i trasporti fluviali e marittimi, fare molto, moltissimo per rifornire il popolo di combustibile in quantità sufficiente.
Né il governo borghese, né quello della coalizione dei socialisti-rivoluzionari, dei menscevichi e dei cadetti, hanno fatto assolutamente nulla; si sono limitati a giocare burocraticamente alle riforme. Non hanno osato prendere un solo provvedimento veramente democratico rivoluzionario. Gli stessi re del petrolio, la stessa stagnazione, lo stesso odio degli impiegati e degli operai contro gli sfruttatori, e, di conseguenza, la stessa disorganizzazione, lo stesso sperpero del lavoro del popolo: tutto come sotto lo zarismo; di mutato vi sono solo le intestazioni sulle carte che entrano ed escono dalle cancellerie “repubblicane”.
Nell’industria del carbone – non meno “matura” dal punto di vista tecnico e culturale per la nazionalizzazione e non meno vergognosamente amministrata dai rapinatori del popolo, dai re del carbone – assistiamo a una serie di fatti lampanti di sabotaggio diretto, di deterioramento diretto e di arresto della produzione da parte degli industriali. Persino la Rabociaia Gazieta, giornale menscevico, ministeriale, ha riconosciuto questi fatti. Ebbene? Non si è fatto assolutamente nulla all’infuori delle vecchie conferenze “paritetiche” burocratico-reazionarie dove gli operai e i banditi del cartello del carbone hanno un egual numero di rappresentanti!! Nessun provvedimento democratico-rivoluzionario; neppure l’ombra di un tentativo di istituire il solo controllo reale, il controllo dal basso, esercitato dai sindacati degli impiegati, degli operai, mediante il terrore verso gli industriali del carbone che portano il paese alla rovina e paralizzano la produzione! Ma come! non siamo noi “tutti” per la “coalizione”, se non con i cadetti almeno con i circoli industriali e commerciali? Ma questa coalizione significa appunto lasciare il potere ai capitalisti, lasciarli impuniti, permettere loro di frenare la produzione, di far ricadere tutto sulle spalle degli operai, di accrescere lo sfacelo economico e preparare in tal modo una nuova rivolta alla Kornilov!
3. Abolizione del segreto commerciale. (…) L’argomento abituale dei capitalisti, che la piccola borghesia ripete senza riflettere, è che in generale l’economia capitalista non ammette assolutamente l’abolizione del segreto commerciale, dato che la proprietà privata dei mezzi di produzione, la dipendenza delle piccole aziende dal mercato rendono necessaria la “sacra inviolabilità” dei libri commerciali e delle operazioni commerciali, comprese, naturalmente, quelle bancarie. (…) Il grande capitalismo moderno, che si trasforma ovunque in capitalismo monopolista, toglie ogni parvenza di fondatezza al segreto commerciale, ne fa un’ipocrisia e uno strumento che serve unicamente a dissimulare le frodi finanziarie e i profitti esorbitanti del grande capitale. La grande economia capitalista, per la sua stessa natura tecnica è un economia socializzata; essa lavora cioè per milioni di persone e associa con le sue operazioni direttamente o indirettamente, centinaia, migliaia e decine di migliaia di famiglie. È una cosa ben diversa dall’economia del piccolo artigiano o del contadino medio, i quali in generale non tengono nessun libro commerciale e perciò non hanno nulla a che vedere con l’abolizione del segreto commerciale!
Del resto, in una grande azienda, le operazioni sono conosciute da centinaia di persone, e anche più. La legge che protegge il segreto commerciale non serve ai bisogni della produzione o dello scambio, ma alla speculazione e al profitto nella loro forma più brutale: la frode vera e propria che, com’è noto, è particolarmente diffusa nelle società anonime, mascherata abilmente con conti e bilanci manipolati in modo da ingannare il pubblico.
(…) Per agire in modo democratico-rivoluzionario si dovrebbe emanare immediatamente una nuova legge che abolisca il segreto commerciale, che esiga dalle grandi aziende e dai ricchi i resoconti finanziari più completi, e che conferisca a ogni gruppo di cittadini, che raggiunga un numero sufficiente per esprimere un parere democraticamente valido (per esempio mille o diecimila elettori), il diritto di verificare tutti i documenti di qualsiasi grande azienda. Questo provvedimento è interamente e facilmente attuabile: basterebbe un semplice decreto; esso, e solo esso, darebbe libero corso all’iniziativa popolare del controllo esercitato dai sindacati degli impiegati, dai sindacati degli operai e da tutti i partiti politici; esso, e solo esso, renderebbe il controllo efficace e democratico (…).
4. L’associazione forzata delle aziende in cartelli. (…) La cartellizzazione forzata è da una parte un mezzo che serve allo Stato per stimolare lo sviluppo del capitalismo. Questo conduce, ovunque, dappertutto, all’organizzazione della lotta di classe, all’aumento del numero, della varietà e dell’importanza dei cartelli capitalisti. Ma dall’altra parte questa “cartellizzazione” forzata è la necessaria condizione preliminare di ogni controllo serio e di ogni risparmio del lavoro del popolo. (…) Non occorre nessun apparato, nessuna “statistica” per promulgare una tale legge, perché la sua applicazione dovrà essere affidata ai fabbricanti e agli industriali stessi, alle forze sociali esistenti, dovrà avvenire sotto il controllo delle forze sociali (cioè non governative, non burocratiche), anch’esse esistenti, ma che devono assolutamente appartenere ai cosiddetti “strati inferiori”, cioè alle classi oppresse, sfruttate, che nella storia sono sempre state infinitamente superiori agli sfruttatori per la loro attitudine all’eroismo, all’abnegazione, alla disciplina fraterna.
Supponiamo che da noi esista un governo veramente democratico e rivoluzionario e che esso decreti: è fatto obbligo a tutti i fabbricanti e a tutti gli industriali di ogni ramo della produzione che occupano, poniamo, almeno due operai, di raggrupparsi immediatamente in associazioni di distretto e di governatorato. La responsabilità di una rigorosa applicazione della legge ricade innanzitutto sui fabbricanti, sui direttori, sui membri dei consigli di amministrazione, sui grandi azionisti (poiché sono loro i veri capi dell’industria moderna, i suoi veri padroni). Nel caso in cui essi si rifiutassero di cooperare all’applicazione immediata della legge, verrebbero considerati come disertori del servizio militare e come tali puniti, rispondendo con i loro beni in base al principio della responsabilità collettiva, uno per tutti, tutti per uno. La responsabilità ricade inoltre su tutti gli impiegati, obbligati anch’essi a formare un unico sindacato, e su tutti gli operai raggruppati nel loro sindacato. La “cartellizzazione” ha per scopo di istituire una contabilità il più possibile completa, rigorosa e particolareggiata e soprattutto di coordinare le operazioni per l’acquisto delle materie prime, per lo smercio dei prodotti, per il risparmio delle risorse e delle forze del popolo. Grazie al raggruppamento in un solo cartello delle aziende sparse, questo risparmio raggiungerebbe immense dimensioni, come ci insegnano le scienze economiche, come ci mostra l’esempio di tutti i monopoli, cartelli e trust. Inoltre, lo ripetiamo ancora una volta, questa cartellizzazione di per sé non cambia di un iota i rapporti di proprietà e non toglie neppure un centesimo a nessun proprietario. (…)
Solo le grandi aziende hanno un’importanza decisiva; e qui esistono i mezzi tecnici e culturali e le forze necessarie per la “cartellizzazione”; quel che manca perché questi mezzi e queste forze vengano messi in moto è l’iniziativa di un potere rivoluzionario, iniziativa ferma, risoluta, di una severità implacabile verso gli sfruttatori. (…)
5. Regolamentazione del consumo. (…) Una politica democratica rivoluzionaria non si limiterebbe, durante le calamità inaudite che il paese attraversa, a stabilire la tessera del pane per lottare contro la catastrofe imminente. Aggiungerebbe al tesseramento, in primo luogo, il raggruppamento obbligatorio di tutta la popolazione in società di consumo, poiché senza tale raggruppamento il controllo sul consumo non potrebbe essere esercitato in pieno; in secondo luogo, il lavoro obbligatorio per i ricchi, affinché essi compiano gratuitamente il lavoro di segretari e altre funzioni analoghe in queste società di consumo; in terzo luogo, la ripartizione eguale tra la popolazione di tutti, effettivamente tutti, i generi di consumo, affinché gli oneri della guerra siano ripartiti in modo veramente equo; in quarto luogo un’organizzazione del controllo che permetta alle classi povere della popolazione di controllare il consumo delle classi ricche.
L’applicazione in questo campo di una vera democrazia, la manifestazione, da parte delle classi più bisognose, di un vero spirito rivoluzionario nell’organizzazione del controllo, stimolerebbero potentemente la tensione di tutte le forze intellettuali esistenti, lo sviluppo delle energie veramente rivoluzionarie di tutto il popolo. Oggi invece i ministri della Russia repubblicana e democratica rivoluzionaria, esattamente come i loro compari di tutti gli altri Stati imperialisti, pronunciano parole pompose sul “lavoro comune a vantaggio del popolo”, sulla “tensione di tutte le forze”, ma il popolo vede, intuisce, sente, quanto siano ipocrite queste parole. (…)
È possibile andare avanti se si rifiuta di marciare verso il socialismo? A un lettore nutrito delle idee opportuniste correnti fra i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi, quanto precede può facilmente suggerire la seguente obiezione: in sostanza, la maggior parte dei provvedimenti qui descritti non sono democratici, sono già provvedimenti socialisti!
Questa obiezione comune, che ricorre spesso in questa o quella forma sulla stampa borghese, socialista-rivoluzionaria e menscevica è una difesa reazionaria di un capitalismo arretrato, una difesa alla Struve. Noi, si dice, non siamo ancora maturi per il socialismo, è ancora troppo presto per “instaurarlo”, la nostra rivoluzione è borghese; bisogna perciò essere i servitori della borghesia. Questi marxisti mancati, servitori della borghesia, ai quali si sono uniti anche i socialisti-rivoluzionari che ragionano in questo modo, non comprendono (se si esaminano le basi teoriche delle loro concezioni) che cosa è l’imperialismo, che cosa sono i monopoli capitalisti, che cosa è lo Stato, che cosa è la democrazia rivoluzionaria. Poiché, una volta compreso ciò, si deve riconoscere che non si può andare avanti senza marciare verso il socialismo.
(…) Ma provatevi un po’ a sostituire allo Stato degli junker e dei capitalisti, allo Stato dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, uno Stato democratico rivoluzionario, uno Stato, cioè, che distrugga in modo rivoluzionario tutti i privilegi e non tema di attuare in modo rivoluzionario la democrazia più completa! Vedrete che il capitalismo monopolista di Stato, in uno Stato veramente democratico rivoluzionario, significa inevitabilmente e immancabilmente un passo, e anche più d’un passo, verso il socialismo! Infatti se una grandissima azienda capitalista diventa un monopolio, vuol dire che essa rifornisce tutto il popolo. Se è diventata un monopolio di Stato, vuol dire che lo Stato (cioè l’organizzazione armata della popolazione e in primo, luogo – in regime democratico rivoluzionario – degli operai e dei contadini) dirige tutta questa impresa. Nell’interesse di chi?
O nell’interesse dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, e allora non avremo uno Stato democratico rivoluzionario, ma burocratico reazionario, una repubblica imperialista; o nell’interesse della democrazia rivoluzionaria, e questo sarà allora un passo verso il socialismo.
(…) Non c’è via di mezzo. E in ciò sta la contraddizione fondamentale della nostra rivoluzione.
(…) Ma aver paura di andare avanti vuol dire andare indietro; (…)