Una delle lezioni della rivoluzione russa del 1917 fu che anche in un paese arretrato la classe operaia gioca un ruolo decisivo.
Il marxismo-leninismo non sottovalutó l’importanza del movimento contadino. Senza l’appoggio delle masse dei contadini, milioni dei quali impegnati al fronte, la Rivoluzione d’Ottobre non sarebbe stata possibile. Ma fu la classe operaia, pur rappresentando una chiara minoranza della società russa (poco più del 10%), a guidare il movimento rivoluzionario. È negli ambiti del lavoro salariato che, in ogni paese dove si siano instaurati rapporti capitalistici di produzione, si gioca lo scontro decisivo. Il ruolo dirigente nella lotta per il socialismo è assegnato alla classe operaia, non per diritto divino, ma per il ruolo che occupa nella produzione.
Guevara, formatosi politicamente negli anni Cinquanta e Sessanta, non considerò la classe operaia e il proletariato dei paesi capitalisti come decisivi, visto il periodo di “capitalismo dal volto umano” (lo Stato sociale) che si aprì nel dopoguerra e che avrebbe fiaccato, nella sua analisi, la spinta rivoluzionaria. Sbagliò, il Che, ad elevare una fase di riflusso delle lotte operaie, dato anche da un riformismo che, in quegli anni di riaccumulazione del capitale sembrava pagare, a teoria generale.
Nel suo tentativo di creare “due, tre, molti Vietnam”, Guevara generalizzò i metodi sperimentati nella rivoluzione cubana. La lotta si doveva sviluppare fuori dalle città, il partito non doveva strutturarsi come avanguardia della classe operaia. Queste teorie portarono in molti paesi dell’America Latina a strappare dalle fabbriche e dalle città i militanti delle organizzazioni rivoluzionarie al fine di concentrarli nelle campagne, persino in paesi ad alto tasso di industrializzazione come l’Uruguay o l’Argentina. Era il “fochismo”, teoria così riassunta nelle parole del Che: “non è sempre necessario aspettare che si diano tutte le condizioni per la rivoluzione; il focolaio insurrezionale può crearle.”
La storia del movimento operaio dimostra, invece, il contrario: i rivoluzionari intervengono nella lotta di classe, non la creano. Organizzano e dirigono una rivoluzione che non scoppia se non la si costruisce. Le esperienze del Congo e della Bolivia dimostrano quanto appena detto: nonostante tutti gli sforzi, il periodo passato in Congo diventerà “l’anno in cui non siamo stati da nessuna parte”, secondo quanto scrivono alcuni compagni di lotta del Che.
In Bolivia Guevara si recò a creare dal nulla un movimento guerrigliero in una zona spopolata, per giunta inadatta alla guerriglia, senza praticamente alcuna base d’appoggio nelle città. La Bolivia disponeva, invece, di un forte movimento operaio, la cui avanguardia erano i minatori dello stagno. Dopo qualche anno dall’impresa che a Guevara costò la vita, il movimento delle masse, con alla testa la classe operaia, spazzò via la dittatura, nel 1970 e aprì la pur breve esperienza della “Comune” di La Paz nel ‘71. Dove si trovavano, dunque, le risorse migliori per una lotta rivoluzionaria veramente efficace?..
Che Guevara pagò con la vita i suoi errori. Discutere oggi il suo lascito politico e teorico è un compito indispensabile. Ma non può essere svolto con il metodo scolastico di chi pensa di selezionare le “giuste” citazioni per accreditare alla propria corrente politica una maggiore vicinanza con la figura del Che.
Il Che fu un sincero rivoluzionario e lo studio del suo pensiero e il bilancio della sua pratica, dell’esperienza “fochista”, assumono significato attuale in primo luogo in relazione alle vicende presenti e future della rivoluzione. Quella che i rivoluzionari di oggi sono chiamati a costruire, nelle specifiche condizioni dei propri specifici paesi, poste le condizioni oggettive della crisi generale del capitalismo e la fase di nuove ondate di rivoluzioni proletarie che essa apre.