Le narrazioni della sinistra borghese anticomunista sul ‘68, di cui ricorre quest’anno il 50° anniversario, sono infarcite di tesi surreali e antistoriche che hanno l’obiettivo di presentarlo come una forma di protesta estranea al movimento comunista e anzi contro la “rigida dottrina marxista”, una forma di ribellione idealista, romantica e libertaria nata come utopia e come utopia dissoltasi nel movimento degli anni ‘70 “estremista”, “militarista” e sovversivo.
Riprenderemo prossimamente la questione che attiene all’inquadramento storico del movimento del ‘68 che nacque sulla spinta della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale e prese linfa dalla lotta contro il revisionismo moderno che aveva la sua base in Cina (la grande rivoluzione culturale Proletaria lanciata da Mao Tse-tung nel 1966 – vedi Resistenza n. 7/8 – 2016), in questo articolo sfatiamo un altro mito promosso dalla sinistra borghese, quello del 1968 come movimento esclusivamente studentesco. Di certo università e scuole medie superiori furono investite, anche in Italia, dal movimento che in Francia si sviluppava nelle università e gli studenti furono effettivamente protagonisti di un grande sommovimento sociale, tuttavia la premessa italiana di quel movimento (e più in generale la premessa di quello che sarà l’autunno caldo operaio del 1969) fu in una piccola cittadina del Veneto, Valdagno, in provincia di Vicenza. E la scintilla fu lo sciopero degli operai e delle operaie della Marzotto, l’industria tessile (4000 dipendenti) attorno a cui era nata la città.
La Marzotto è stata il centro della vita politica ed economica della valle dell’Agno fin dal Biennio Rosso: è stata una delle poche fabbriche venete a mobilitarsi durante quel periodo in cui Torino era il fulcro della mobilitazione. Durante la Resistenza è stata un centro importantissimo per la Brigata partigiana “Stella” composta da più di 800 partigiani, che ha salvato per ben tre volte la fabbrica dai bombardamenti e dalla distruzione mentre i Marzotto, collaboratori dei fascisti, scapparono in Svizzera abbandonando la fabbrica.
Il ’68 a Valdagno ha le radici piantate nella Resistenza e coltivate da quegli stessi partigiani che sono diventati operai e che non sono più disposti a tollerare condizioni di lavoro disumane, il cottimo, il “marcatempi” fordista, le malattie croniche per il lavoro usurante, i reparti confino (quelli dello spurgo delle lane, dove il fetore stordiva e a cui erano destinati i sindacalisti e gli operai più combattivi).
Il 19 aprile, la celere interviene per disperdere un picchetto con cariche violentissime, ma gli operai, anziché ritirarsi, combattono e chiamano alla mobilitazione la cittadinanza e gli scontri diventano una rivolta: la statua di Gaetano Marzotto, nel centro del paese, viene abbattuta, 47 operai sono arrestati. Il giorno successivo la cittadina scende in piazza per chiedere la liberazione degli operai e dopo pochi giorni il Consiglio Comunale (a maggioranza DC) si dimette per protesta contro le mancate scarcerazioni.
Nonostante la liberazione dei 47 operai seguono nel maggio, giugno, luglio e in tutto l’autunno successivo scioperi e manifestazioni che portano gli operai, da gennaio e fino a fine febbraio del 1969, a occupare la fabbrica.
L’abbattimento della statua del padrone nel centro cittadino non fu solo il simbolo di una lotta gloriosa: con quella mobilitazione gli operai della Marzotto ottennero, primi in Italia, il diritto ad avere i propri delegati di reparto, il diritto a riunirsi in assemblea in fabbrica e quello ad avere propri organismi indipendenti dai sindacati, conquista che divenne “per tutti” solo nel 1970.