[MI] L’emergenza nazionale degli omicidi sul lavoro, intervista a Marco Spezia

Marco Spezia è un compagno che si occupa da una vita per professione, per mestiere, per passione e come contributo alla lotta di classe, della sicurezza suoi luoghi di lavoro. E’ promotore e curatore di Know your rights, una pubblicazione telematica che raccoglie le “newsletters”, bollettini di informazione tecnico-legali sul diritto alla salute e alla sicurezza sui luoghi di lavoro, e le “lettere dal fronte” del lavoro, testimonianze, commenti, riflessioni, spunti che “dal basso” trattano più in generale la questione del diritto al lavoro e del diritto alla salute e sicurezza non solo sul lavoro, ma anche sul territorio (per iscriversi alla newsletter: sp-mail@libero.it).
Nel mese di gennaio ha tenuto a Massa, in collaborazione con la Sezione del P.CARC, un’iniziativa rivolta tanto agli operai, quanto agli studenti (che “sul fronte del lavoro” ci finiscono per la famigerata Alternanza, senza alcuna preparazione, usati come carne da macello per il profitto) e da quella iniziativa prendiamo spunto per questa intervista.

Marco, la tua esperienza è più attendibile di ogni statistica ufficiale: esiste nel nostro paese un problema di sicurezza sui posti di lavoro? Di che dimensioni? E’ vero che “le cose vanno meglio” o pensi che il livello di disoccupazione incida sulle statistiche ufficiali? Infine, c’è una correlazione fra disoccupazione, precarietà e diminuzione della sicurezza sui posti di lavoro?
Innanzitutto nel nostro paese più che un problema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, dobbiamo parlare di emergenza quotidiana. Non c’è infatti giorno che in Italia non vi siano (in media) almeno quattro infortuni mortali: 1.350 morti all’anno per il 2017, considerando sia i morti sul posto di lavoro, sia i morti in itinere o su mezzi di trasporto…
Tale valore è ripreso dall’Osservatorio Indipendente Morti sul Lavoro di Carlo Soricelli (http://cadutisullavoro.blogspot.it) ed è un dato decisamente più attendibile di quelli diffusi dall’INAIL (per i motivi che vedremo dopo).
Oltre a queste morti, ogni giorno ve ne sono altrettante a causa di malattie professionali, quindi contratte per la insalubrità dei luoghi e delle condizioni di lavoro, per un totale di 1.350 morti (fonti Osservatorio Vega Engineering https://www.vegaengineering.com per il 2016).
E ancora, si contano ogni anno 420.000 infortuni, molti dei quali invalidanti (1.400 al giorno, 3 al minuto!) e 60.000 denunce di malattie professionale (dati per il 2016, sempre da Vega Engineering).
E’ evidente che stiamo parlando di una vera e propria guerra contro i lavoratori!
In merito all’attendibilità delle fonti ufficiali (dati INAIL), è evidente che esse non possono essere veritiere, per il semplice fatto che si riferiscono esclusivamente a lavoratori assicurati INAIL e quindi non considerano minimamente l’esercito di Partite IVA individuali, lavoratori in nero, pensionati che continuano a lavorare perché non riescono a tirare avanti. Non considerano quindi tutti quei lavoratori atipici che per evidenti ragioni di flessibilità sono invece in aumento.
L’Osservatorio Indipendente Morti sul Lavoro considera invece, mediante una capillare e certosina raccolta dati in tutta Italia, tutti i lavoratori, compresi quelli atipici.
Ed è per questo che l’Osservatorio è decisamente più veritiero e fotografa una realtà che non vede nessun miglioramento nel numero dei morti sul lavoro, ma sostanzialmente un andamento costante negli anni.
Se si considerano infatti il solo andamento dei morti sul posto di lavoro (che meglio fotografa le condizioni legate al rapporto di lavoro e ai luoghi e alle condizioni in cui si svolge), i numeri sono i seguenti:
2008: 640, 2009: 550, 2010: 560, 2011: 665, 2012: 620, 2013: 590, 2014: 665, 2015: 655, 2016: 640, 2017: 630.
E’ evidente che i “miglioramenti” sbandierati dall’INAIL (e che tengono appunto conto dei soli assicurati INAIL) e fatti propri per scopi di comodo da politici e sindacalisti di regime, nella realtà lavorativa non vi sono.
Guardando i dati INAIL, si può infatti vedere un trend di miglioramento, con una diminuzione dei morti per infortuni sul lavoro. Questo apparente miglioramento è dovuto proprio ai motivi sopra detti: si considerano infatti solo gli assicurati INAIL che sono in costante diminuzione, mentre si tralasciano i lavoratori atipici (Partite IVA, lavoratori in nero), che sono in aumento e che tra l’altro svolgono le lavorazioni più a rischio.
In merito alla precarietà, non c’è dubbio che essa non fa altro che peggiorare la situazione in merito alla sicurezza. Al di là di considerazioni in merito alla minore professionalità (anche in termini di sicurezza) che il lavoro precario comporta, i lavoratori precari sono spaventosamente ricattabili e lo sono molto di più dei lavoratori a tempo indeterminato. Di fronte a situazioni di pericolo preferiscono tacere, per timore di finire nel mirino del datore di lavoro, rischiando il posto di lavoro.

Più che una impressione, è una realtà: si parla molto di sicurezza e di prevenzione, ma autorità e istituzioni fanno poco, per non dire niente. Poi ci sono gli incidenti eclatanti, come quello alla Lamina di Milano, allora si leva un’onda di dichiarazioni accorate, appelli, richieste… cosa c’è che non va?
Effettivamente i numeri che abbiamo sopra visto sono spaventosi. Come detto si tratta di una vera e propria guerra quotidiana che dovrebbe chiamare tutte le istituzioni a intervenire in maniera decisa. Ma al di là di qualche ipocrita dichiarazione nei casi più eclatanti e mediaticamente rilavanti, non si fa niente.
Eppure, da un punto di vista legislativo, l’Italia è sempre stata all’avanguardia nella tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Già la Costituzione stabiliva il diritto alla tutela del lavoratore e dopo di essa le prime leggi degli anni ’50 hanno fissato regole stringenti per i datori di lavoro per tutelare i propri dipendenti.
Da dieci anni siamo poi arrivati al Testo Unico sulla sicurezza (il D.Lgs. 81/08) che assieme appunto alle fonti del diritto (Codice Civile, Codice Penale e Costituzione) costituisce una importante forma di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Oltre alle fonti legislative, la tecnica della sicurezza ha raggiunto elevatissimi livelli di tutela su tutti i campi (macchine, impianti elettrici, sicurezza antincendio, ecc.) con norme tecniche di altissimo livello.
Qual è dunque il motivo, se le leggi e le norme tecniche ci sono, perché si continui a morire e ad ammalarsi sul lavoro?
La risposta è semplice ed è la stessa che si ripete ogni qual volta si cerchi di proteggere gli sfruttati: la legge c’è ed è buona, ma volutamente non si applica e volutamente non si fa niente per farla applicare.
I motivi della mancata applicazione della normativa sono molteplici, ma riconducibili tutti a una causa principale: la concezione capitalista del lavoro che mette in primo piano la logica del profitto, al di là ogni altra considerazione etica o morale.
Il fatto è che creare le condizioni perché il lavoro sia sicuro e salubre ha un costo, per giunta un costo non produttivo, perché non è finalizzato alla crescita dei ricavi. Tutti questi maggiori costi come già detto non comportano una maggiore produttività e quindi non comportano un maggiore profitto, inteso come differenza tra ricavato della vendita e costo di produzione.
Per dirla con Karl Marx “Al padrone non interessa nulla della vita e della salute dell’operaio, se non ci sono le leggi che glielo impongono”.
Ma questa imposizione, nonostante le leggi ci siano, di fatto non sussiste, oppure sussiste in maniera percentualmente irrilevante.
In conclusione, mancando la coercizione a “fare sicurezza”, i padroni non la fanno, riducendo il costo del lavoro e aumentando il loro profitto, unica leva dell’economia capitalista.
Questa logica non interessa solo i datori di lavoro, ma coinvolge (con i dovuti distinguo) anche le associazioni e le istituzioni che dovrebbero vigilare sul corretto adempimento della normativa o che dovrebbero punire i mancati adempimenti ai sensi della normativa stessa, in quanto tali istituzioni sono comunque sotto il controllo diretto o indiretto dei centri di potere capitalistico finanziario o industriale.
Di conseguenza

– i partiti politici, anche quelli della cosiddetta “sinistra”, salvo casi rari, non inquadrano la mancata tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in un ambito più ampio di lotta di classe;

– i sindacati concertativi, accettando il ricatto “lavoro-sicurezza”, non supportano in maniera adeguata i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (figura prevista dalla stessa normativa), né pongono al centro delle loro vertenze il diritto alla salute e alla sicurezza;

– gli Organi di Vigilanza, anche a causa dell’endemica carenza di organico, eseguono le ispezioni delle aziende e dei cantieri in maniera saltuaria e spesso in maniera estremamente blanda o peggio concordata con i datori di lavoro

– gli Organi Giudiziari, oltre ad essere ingolfati dalla lentezza dei processi (che spesso comportano la prescrizione del reato), in molti casi stanno dalla parte degli assassini, con la conseguenza di scandalose assoluzioni, anche in casi di evidente colpevolezza;

– la maggioranza poi dei lavoratori stessi ha perso ogni nozione di lotta di classe, non comprendendo che essa si manifesta ancora oggi, anche se in forme diverse rispetto al passato, con la netta contrapposizione tra chi lavorando rischia di morire e chi non fa niente per evitarlo.

Infatti, senza nasconderlo, ci sono molte situazioni in cui gli operai stessi, trattando l’argomento, concludono che se ci sono incidenti è anche per negligenza e superficialità del singolo lavoratore. Qui si aprono due questioni: la prima è di carattere politico, nel senso che anni di concertazione sindacale, di tentativi di conciliazione di interessi inconciliabili fra padroni e operai, anni in cui la classe operaia è stata disarmata ideologicamente e politicamente hanno creato una situazione in cui fra i dipendenti stessi si è fatta strada l’idea che “tutto dipende dalla condotta individuale”, cioè i rapporti di sottomissione, i ricatti impliciti, le direttive non scritte sono considerate “normalità”, quindi le responsabilità sono individuali, sono di chi “doveva prestare attenzione”….
Di fatto si è creata una sorta di accettazione.
La concertazione ha portato alla consapevolezza che per difendere il proprio lavoro e il proprio salario, si debba accettare tutto, anche la pericolosità delle condizioni di lavoro.
In questa mentalità di rassegnazione da parte dei lavoratori, ha avuto gioco forza la mistificazione portata avanti dai padroni, secondo la quale la sicurezza dipende dal lavoratore ed è lui che se sbaglia deve pagare (quante volte le cronache parlano di “errore umano” a proposito degli infortuni), come se uno sbaglio sul lavoro non fosse tollerabile.
Il lavoratore ha perso di vista il contesto all’interno del quale opera (macchinari e impianti non a norma, luoghi di lavoro insicuri, cadenze lavorative inaccettabili) oppure lo ha accettato come non modificabile ed è stato forzato a vedere soltanto il suo comportamento come possibile fonte di rischio.
In generale il lavoratore, come tutti i cittadini, in mancanza di reali movimenti politici e sindacali che li ponessero al centro delle lotte, ha perso di vista i valori fondamentali del lavoro e della vita: dignità, rispetto, salute, sicurezza, sostituiti dai valori effimeri del capitale.

La seconda questione è che effettivamente, complici anche i sindacati di regime, è venuta meno la formazione, la conoscenza di leggi, procedure, diritti, comportamenti per tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori. E questo si tratta principalmente con la formazione, l’educazione e l’organizzazione nelle aziende, a prescindere dai sindacati, dalle sigle, ecc…
La legislazione prevede come una delle misure fondamentali di tutela della salute e della sicurezza, l’informazione e la formazione dei lavoratori.
Il problema è che questa viene fatta da figure aziendali o da consulenti pagati dalle aziende e si riconduce quindi a una serie di nozioni a uso e consumo dei padroni (quando viene fatta realmente…).
Effettivamente una vera consapevolezza della cultura della sicurezza che, partendo dalle nozioni legislative, normative e tecniche, spieghi al lavoratori quali sono i doveri dei datori di lavoro e quindi i diritti dei lavoratori, manca.
Manca inoltre una crescita culturale dei lavoratori che inserisca anche la mancata sicurezza sul lavoro in un’ottica più ampia di lotta di classe, in cui da una parte stanno le aziende con la loro sete di profitto (e quindi di riduzione di qualunque costo non produttivo, come la sicurezza), da una parte stanno i lavoratori salariati o i lavoratori autonomi che accrescono (anche con il lavoro insicuro) i profitti dell’azienda.

Noi pensiamo che i primi promotori della sicurezza e della salubrità sui luoghi di lavoro debbano essere gli operai stessi: è l’unico modo per far valere leggi e regolamenti che altrimenti rimangono carta straccia. Insomma: è giusto, ma non basta, appellarsi alle istituzioni. Come si favorisce il controllo popolare della sicurezza suoi luoghi di lavoro?
La legislazione dà (almeno in teoria) molte possibilità perché i lavoratori facciano valere i propri diritti.
I lavoratori possono eleggere i propri Rappresentanti della Sicurezza (RLS) che, a loro volta, in caso di inadempienze non risolte da parte dell’azienda, possono richiedere l’intervento degli Organismi di Vigilanza (ASL e Vigili del Fuoco) ed eventualmente rivolgersi alla Procura della Repubblica.
Inoltre anche il singolo lavoratore può segnalare la presenza di un reato (e qualunque inadempimento alla normativa di salute e sicurezza è un reato).
Il problema è che il singolo RLS o il singolo lavoratore, oltre ad essere ricattabili e facilmente “eliminabili” da parte dell’azienda, non hanno il peso sufficiente a smuovere istituzioni quali gli Organi di Vigilanza o Giudiziari.
Torniamo quindi a quanto detto prima.
Occorre creare nuovamente tra i lavoratori consapevolezza dei propri diritti, dei propri valori e della propria forza.
Storicamente soltanto nelle realtà lavorative dove i lavoratori hanno fatto “massa critica” ci sono stati dei miglioramenti delle condizioni di lavoro.
Solo se i lavoratori si presentano numerosi, uniti e con le idee chiare su cosa vogliono ottenere per un lavoro salubre e sicuro, potranno avere peso nei confronti non solo dell’azienda, ma anche delle istituzioni, degli Organi di Vigilanza e Giudiziari, dell’opinione pubblica.

Ultima domanda. L’iniziativa che hai tenuto a Massa è secondo noi un esempio molto positivo. Sei disposto a partecipare a iniziative simili in Lombardia?
Assolutamente sì.
Il mio progetto vuole contribuire a fare cultura sulla sicurezza nei lavoratori e nei loro rappresentanti. Ma non quella cultura che insegnano i datori di lavoro nei corsi di formazione “istituzionali” che vede nel lavoratore l’unico responsabile della sua sicurezza, bensì una cultura che parta da una considerazione di classe secondo la quale l’unico interesse del datore di lavoro, cioè del padrone, è il profitto, anche sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini.
Ed è quindi solo combattendo questo concetto produttivo che si può sperare di migliorare le condizioni di lavoro.
Sono sempre stato disponibile a partecipare a iniziative di formazione e di sensibilizzazione sui temi della tutela della salute e della sicurezza promosse da movimenti politici e sindacali che hanno a cuore i diritti dei lavoratori e dei cittadini.
Non mi tiro certi indietro.

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