[Italia] Malapolizia, abusi, violenze: intervista ad Adriano Chiarelli

Milano, 04.02.2018

In prossimità dell’udienza che domani 5 Febbraio a Milano vedrà in aula la compagna Rosalba, accusata di diffamazione da un ex agente del VII Reparto mobile di Bologna in relazione all’appello alla società civile “Cosa deve ancora accadere perché il VII Reparto mobile di Bologna venga smantellato?”, diamo voce ad Adriano Chiarelli, scrittore e sceneggiatore che attraverso articoli, libri e video su tematiche particolarmente scomode si è “meritato” le attenzioni dei poteri forti che hanno deciso di portarlo in tribunale.

Persone come Patrizia Moretti, come Lucia Uva, come Ilaria Cucchi, come lo stesso Adriano, sono divenute ormai punti di riferimento importanti. Essi sono oggettivamente parte di in un processo di cambiamento culturale e sociale profondo già in atto. Nonostante i grandi cambiamenti siano difficili da percepire nell’immediato, e il prezzo che si paga può essere alto, il sistema non è affatto inviolabile.

Di queste persone il sistema ha grandemente paura. E in questo sta la riprova dell’efficacia della loro azione.

Il vecchio, per quanto grande e forte sembri, va ormai a morire e il nuovo, per quanto debole e piccolo appaia, si appresta a sorgere.

 

 

 

 

 

***

 

Intervista a Adriano Chiarelli

  1. Adriano ci racconti brevemente chi sei e cosa fai?

Sono uno scrittore e sceneggiatore fermamente convinto che la scrittura debba essere al servizio dell’impegno civile e politico.

  1. Il 25 gennaio scorso a Latina è iniziato contro di te un processo per “diffamazione”, per l’articolo “Il Movimento NO TAV accerchiato dalla legge”. Ad aver sporto denuncia sono stati l’ex procuratore capo Giancarlo Caselli ed i pubblici ministeri di Torino Rinaudo e Padalino. Puoi dirci qualcosa su questo procedimento e i motivi di tale ritorsione?

I querelanti hanno ritenuto gravemente diffamatori alcuni passaggi dell’articolo nei quali descrivevo lo stato d’animo e il senso di frustrazione dell’intero movimento NoTav, che nell’articolo ritenevo vittima di continui e incessanti attacchi giudiziari. Sono stato perciò querelato per diffamazione aggravata e mi accingo ad affrontare un processo difficile e dall’esito imprevedibile.

 

  1. A quando e dove la prossima udienza di questo processo?

La prossima udienza si terrà il 4 maggio prossimo presso il Tribunale di Latina. Chi vorrà sostenermi sarà il benvenuto.

  1. Non è la prima volta che vieni portato in tribunale per “diffamazione”: anche per il documentario “Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva” hai dovuto affrontare un processo per lo stesso capo di imputazione. Quali strutture dello Stato in quel frangente hanno cercato di impedirti di portare alla luce la verità dei fatti, operando così in aperta violazione della Costituzione e dell’articolo 21?

In realtà la prima querela si riferisce al libro “Malapolizia”, sempre per il caso Uva. Anche questo processo va avanti. Il rinvio a giudizio risale al maggio 2016 ed è ancora in corso il processo di primo grado. In questo processo sono stato denunciato da tutti i pubblici ufficiali coinvolti nella tragica serata in cui Giuseppe morì per cause, ormai dopo 10 anni, non ancora stabilite da nessun tribunale.

  1. Sistematicamente quando ci sono casi di abusi, violenze e omicidi da parte delle forze dell’ordine si innesca un meccanismo di depistaggio e copertura degli agenti. Perché lo Stato ha paura “della verità e della giustizia” e sabota l’introduzione del codice identificativo e di un effettivo reato di tortura? Credi anche tu che non si tratti solo di “mele marce” ma di un problema più profondo e strutturale?

La lezione che ho appreso in questi anni è che la legge non è in grado, non vuole e non può processare i propri rappresentanti, siano essi pubblici ufficiali o membri dell’ordinamento giuridico. Quando lo fa, lo fa nel modo più frettoloso possibile, con errori spesso in malafede che lasciano facilmente pensare a situazioni di coperture reciproche, insabbiamenti e responsabilità di altro tipo. Lo dimostra la serie storica di casi e relativi processi, non lo dico io. La risposta a questa domanda è molto semplice: non c’è la volontà di fare un passo avanti, di civilizzare e rendere trasparente la forza pubblica. Una pulizia del genere dovrebbe partire anche da una bonifica ideologica, considerato l’alto tasso di fascistizzazione delle forze di polizia. Né ci si riesce a districare in un ordinamento giuridico che nei casi di malapolizia diventa, guarda caso, assai elastico e soggetto a interpretazioni e forzature di ogni tipo, che quasi sempre avvantaggiano le divise. Nessuno ha interesse a migliorare la situazione, perché non c’è convenienza politica; perché la devozione a tutti i livelli verso forze dell’ordine è dura a morire. Ancora oggi ci sono ampi settori dell’opinione pubblica che non sanno nulla di Cucchi o Aldrovandi e ritengono inconcepibile che la polizia possa commettere errori o possa addirittura essere mandata a processo. Per la maggioranza degli italiani è semplicemente una cosa che non sta né in cielo né in terra. L’humus culturale su cui tutto ciò si basa è squisitamente fascista, come in Spagna è squisitamente franchista. L’eredità cancerogena del fascismo e del razzismo vede continuità in larga parte nell’esercizio della forza pubblica. 

  1. In Italia esistono reparti delle forze dell’ordine hanno una lunga storia di abusi e violenze, come il VII Reparto Mobile di Bologna. Gli agenti che invece denunciano gli abusi e operano coeremente con quanto affermato nella Costituzione (una minoranza delle forze dell’ordine) vengono isolati, mobbizzati, trasferiti, ecc. Esiste quindi in indirizzo chiaro all’interno dello Stato per coprire gli abusi in divisa. Cosa bisogna fare secondo te per unire l’azione di chi dentro le forze dell’ordine denuncia gli abusi e non china la testa e chi nelle società civile e nei movimenti si batte per l’applicazione della Costituzione, per la “verità e la giustizia”?

Bisogna incoraggiare e sostenere chi dall’interno decide di incrinare il sistema e spezzare la spirale di silenzio. Anche in tal senso ci sono molti passi in avanti da fare, magari ripartendo dalla funzione dei sindacati.

  1. Dal punto di vista materiale (penso magari a forme di emarginazione professionale) ma anche psicologico che impatto hanno avuto su di te gli attacchi che ti vengono portati? La solidarietà che hai ricevuto quanto ha contato?

Gran bella domanda. Devo dire che da Malapolizia in poi ho attraversato momenti di buio sia psicologico che professionale, con forti ripercussioni anche sulla vita personale. Mi fermo a riferire solo due aspetti di questo mio percorso: ho trascorso anni ad ascoltare il dolore di madri, padri, sorelle e fratelli delle vittime di malapolizia. Ho fatto mio quel dolore, travalicando qualsiasi distanza tra osservatore e soggetto osservato, se vogliamo usare un linguaggio freddo. Ecco, io quella distanza non l’ho mai voluta interporre tra me e persone come Lucia Uva, Patrizia Aldrovandi, Giuliana Rasman. Questo è ciò che intendo quando dico che, nel mio infinito piccolo, la mia scrittura deve essere al servizio dell’impegno civile e quindi delle persone. In questi anni ho messo le mie modeste doti di scrittore e narratore al servizio di chi non ha mai avuto voce. Ho provato io a essere la loro voce, a far parlare loro attraverso la scrittura e il video, mettendomi completamente da parte. Qualcosa abbiamo ottenuto. Oggi “malapolizia” è un termine di uso comune e molte, molte più persone sanno di cosa stiamo parlando quando parliamo di Uva, Aldrovandi, Rasman e tutti gli altri. In alcune circostanze siamo arrivati molto vicini a influenzare determinati processi, senza ahimé riuscirci in pieno.

Un altro aspetto, per rispondere alla domanda sulla “solidarietà”: la solidarietà fa sempre piacere, nei momenti difficili scalda il cuore, ma deve tramutarsi in azioni concrete e di sostegno. Non vale solo per me, ovviamente. Ciò contro cui punto il dito con veemenza è invece lo sciacallaggio di certi personaggi che tendono a trasformare il “mondo della malapolizia” in un sistema di relazioni di potere, in un settore da monopolizzare per scopi personali o di altra natura. Un cancro nel cancro. La lotta al fianco delle vittime è e deve rimanere di tutti, fascisti esclusi ovviamente. I morti sono nostri fratelli e nostre sorelle caduti per mano di un sistema marcio e corrotto. Chi cerca di mettere la firma o un patentino politico o un logo cool sui morti di malapolizia va considerato un nemico della causa.

  1. Il 5 febbraio inizierà a Milano un processo per “diffamazione” contro la nostra compagna Rosalba, denunciata da un agente, Vladimiro Rulli, del VII Reparto mobile di Bologna in risposta alla campagna portata avanti per lo scioglimento di questo reparto ma anche per il sostegno che abbiamo sempre dato a chi promuove e attua il copwatching. Sul sito Vigilanza Democratica di cui Rosalba era intestataria si diceva a questo proposito: “Le telecamere, la schedatura, le intercettazioni, le intrusioni, le infiltrazioni, vanno ovviamente bene per individuare e reprimere chi scende in piazza a guadagnarsi il sacrosanto diritto a una vita sana e dignitosa. Vanno bene per montare inchieste fasulle a danno di attivisti, di lavoratori a rischio di licenziamento e di disoccupati che manifestano il loro dissenso e la loro collera. Sono invece deprecabili quando scoprono gli altarini della casta, i suoi giochi di potere, le sue sporche manovre. Rendere noti volti e nomi di mandanti ed esecutori di abusi e di azioni eversive è un atto fondamentale di vigilanza democratica, che mira a difendere i diritti politici conquistati con la Resistenza Partigiana, a realizzare la Costituzione, a sostenere il cambiamento e impedire svolte reazionarie e autoritarie”. Qual è il tuo pensiero a questo proposito? Vuoi dire qualcosa in merito?

Le parole di Rosalba sono già potenti ed efficaci nella loro disperata chiarezza. Ciò che mi sento di aggiungere è che la natura del sistema ormai è chiara, ha raggiunto livelli di sfacciataggine inauditi: i deboli, i poveri, gli emarginati sono destinati a essere schiacciati da settori dello stato ritenuti inviolabili. I nostri processi dimostrano che tentare di opporsi, anche solo con le parole, a questo stato di cose è un atto che si rischia di pagare a caro prezzo.

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