[Italia] Dal rancore all’odio di classe

Riportiamo una articolo di Contropiano.org, dal titolo “Una società piena di rancore. Ma va?” che riprende quanto emerge da uno studio Censis in merito allo sviluppo del paese e alla percezione di questo sviluppo (o della crisi) delle masse popolari in Italia. Dalla disamina dei dati (che Contropiano.org riporta) il Censis dichiara che, nonostante “evidenti segnali di crescita” (tutt’altro, a nostro avviso, evidenti) il paese è pieno di rancore: un rancore espresso dalle masse popolari verso le istituzioni. Il Censis fa una scoperta, come dire, quasi banale: basterebbe guardare la frustrazione che ogni giorno pervade i posti di lavoro, o le 3 famiglie al giorno che vedono morire un proprio caro per via delle scarse norme di sicurezza sul lavoro: siamo a 864 casi da Gennaio ad oggi. Numeri parziali di una guerra più generale che noi definiamo “di sterminio non dichiarata” in quanto non porta i vessilli di una guerra guerreggiata ma conta lo stesso numero di morti e feriti, disagio e disperazione. Una guerra che le masse popolari, guidate dai comunisti, devono imparare a condurre perché non vi è altra scelta, altrimenti il rancore che oggi il Censis “rileva” sempre di più si manifesterà verso discriminazione razziale, concorrenza tra lavoratori, in guerra tra poveri. E’ un rancore che è frutto del marasma in cui la borghesia getta le masse popolari, e che trova sfogo solo nella mobilitazione reazionaria se noi comunisti non lavoriamo per elevare l’azione e la coscienza delle masse popolari “rancorose” del nostro paese: trasformare questo rancore in odio di classe verso la borghesia imperialista e il suo clero e volontà di costruire una società socialista. Il rancore è il prodotto che spontaneamente la società produce tra le fila della classe operaia e delle masse popolari. Sta a noi trasformarlo e la denuncia da sola non basta. Serve portare loro un progetto di società a cui possono contribuire nel costruirla. A tal proposito, riporto uno stralcio del “Che fare?” di Lenin, attualissimo. Anticipo soltanto che per “denuncia complessiva dell’intera società” Lenin intende una attività propedeutica e a premessa della una propaganda di una nuova società, una società socialista.

Franco C.

L’agitazione politica e la sua limitazione da parte degli economisti

A tutti è noto che la grande estensione e il rafforzamento della lotta economica (1) degli operai russi hanno proceduto di pari passo con lo sbocciare di una «letteratura» di denunce economiche (di fabbrica e di mestiere). I «fogli» denunciavano principalmente il regime delle officine e ben presto si manifestò fra gli operai una vera e propria passione per queste denunce. Non appena gli operai costatarono che i circoli socialdemocratici volevano e potevano offrir loro dei fogli di nuovo genere, che dicevano tutta la verità sulla loro vita miserabile, il loro lavoro estenuante e il loro asservimento, cominciarono, si può dire, a inondarci di corrispondenze di fabbrica e di officina. Questa «letteratura accusatrice» produceva un’impressione enorme non soltanto nella fabbrica della quale quel determinato foglio fustigava il regime, ma in tutte le fabbriche dove si era sentito parlare dei fatti denunciati. E, poiché i bisogni e le sofferenze degli operai delle diverse aziende e mestieri hanno molti punti comuni, la «verità sulla vita operaia» impressionava tutti. Una vera passione di «farsi stampare» s’impadronì anche degli operai più arretrati, nobile passione per questa forma embrionale di guerra contro tutto l’attuale regime sociale, costruito sulla spoliazione e sull’oppressione. E i «fogli» erano effettivamente, il più delle volte, una dichiarazione di guerra, perché le loro rivelazioni provocavano un fermento terribile fra gli operai, li incitavano a esigere l’eliminazione delle ingiustizie più stridenti e suscitavano in loro la volontà di sostenere le proprie rivendicazioni con degli scioperi. Gli stessi industriali, in fin de conti, furono costretti a vedere in questi fogli una dichiarazione di guerra, tanto che frequentemente non vollero neppure attendere la guerra vera e propria. Per il solo fatto di essere pubblicate, queste denunce, come sempre, furono efficaci, ebbero il valore di una forte pressione morale. Più di una volta accadde che la pubblicazione di un solo foglio fu sufficiente per ottenere che fossero soddisfatte tutte le rivendicazioni o una parte di esse. In una parola, le denunce economiche (sulle fabbriche) erano, e continuano a essere, uno strumento notevole di lotta economica: e così sarà finché esisterà il capitalismo il quale incita necessariamente gli operai a difendersi. Nei paesi europei più avanzati si può osservare ancora adesso che la denuncia di intollerabili condizioni di lavoro in qualche «mestiere» poco noto o in qualche branca di lavoro a domicilio a cui nessuno pensa, diventa il punto di partenza di un risveglio della coscienza di classe, l’inizio di una lotta rivendicativa e della diffusione del socialismo.(2)

In questi ultimi tempi la schiacciante maggioranza dei socialdemocratici russi è stata quasi interamente assorbita da questo lavoro di denuncia delle condizioni nelle fabbriche. Basta pensare alla Rabociaia Mysl per vedere fin dove si è arrivati: si è dimenticato che questa attività di per sé, sostanzialmente, non è ancora socialdemocratica, ma soltanto rivendicativa. Le denunce si riferiscono in sostanza unicamente ai rapporti tra gli operai di una data categoria e i loro padroni e non hanno altro risultato che d’insegnare ai venditori di forza-lavoro come vendere più vantaggiosamente questa «merce» e come lottare contro l’acquirente sul terreno puramente commerciale. Queste denunce potevano servire come punto di partenza ed essere parte integrante dell’attività socialdemocratica (a condizione di essere convenientemente utilizzate dall’organizzazione dei rivoluzionari), ma potevano anche (e, se ci si sottomette alla spontaneità, devono) sboccare in una lotta «puramente rivendicativa» e in un movimento operaio non socialdemocratico. La socialdemocrazia dirige la lotta della classe operaia non soltanto per ottenere condizioni vantaggiose nella vendita della forza-lavoro ma anche per abbattere il regime sociale che costringe i nullatenenti a vendersi ai ricchi. La socialdemocrazia rappresenta la classe operaia non nei suoi rapporti con un determinato gruppo d’imprenditori, ma nei suoi rapporti con tutte le classi della società contemporanea, con lo Stato, come forza politica organizzata. È dunque evidente che i socialdemocratici non soltanto non possono limitarsi alla lotta economica, ma non possono nemmeno ammettere che l’organizzazione di denunce economiche sia la parte prevalente della loro attività. Dobbiamo occuparci attivamente dell’educazione politica della classe operaia, dello sviluppo della sua coscienza politica. Su questo punto, ora, dopo la prima offensiva della Zaria e dell’Iskra contro l’economicismo, «tutti sono d’accordo» (sia pure, talvolta, soltanto a parole, come vedremo in seguito).

Ma ci si chiede: in che cosa deve consistere l’educazione politica?

Ci si può limitare a diffondere l’idea che la classe operaia è ostile all’autocrazia? Certamente no. Non basta spiegare agli operai la loro oppressione politica (allo stesso modo che non basta spiegare il contrasto dei loro interessi con quelli dei padroni). Bisogna fare dell’agitazione a proposito di ogni manifestazione concreta di questa oppressione (come abbiamo fatto per le manifestazioni concrete dell’oppressione economica). E poiché questa oppressione si esercita sulle più diverse classi della società, poiché si manifesta nei più diversi campi della vita e dell’attività professionale, civile, privata, familiare, religiosa, scientifica, ecc., non è forse evidente che non adempiremmo il nostro compito di sviluppare la coscienza politica degli operai se non ci incaricassimo di organizzare la denuncia politica dell’autocrazia sotto tutti i suoi . aspetti? Ma per fare dell’agitazione sulle manifestazioni concrete dell’oppressione non è forse necessario denunziare queste manifestazioni (allo stesso modo che per condurre l’agitazione economica bisogna denunziare gli abusi commessi nelle fabbriche)?

Sembra che la cosa sia chiara; ma in realtà risulta che la necessità di sviluppare in tutti i sensi la coscienza politica è riconosciuta «da tutti» soltanto a parole. Così il Raboceie Dielo, per esempio, lungi dall’organizzare delle campagne di denunce politiche che riguardino tutti i campi della società (o di fare i primi passi in tal senso) si è messo a tirar indietro l’Iskra che si era posta su questa via. Ascoltate: «La lotta politica della classe operaia è soltanto» (proprio no: non é soltanto) «la forma più sviluppata, ampia e attiva della lotta economica» (programma del Raboceie Dielo, n. 1, p. 3). «La socialdemocrazia ha ora il compito di dare per quanto possibile alla lotta economica stessa un carattere politico» (Martynov, nel n. 10, p. 42). E nella risoluzione e negli «emendamenti» del congresso dell’«Unione»: «La lotta economica è il mezzo più largamente applicabile per trascinare le masse alla lotta politica attiva» (Due congressi, pp. 11 e 17). Queste affermazioni, come il lettore vede riempiono di sé il Raboceie  Dielo – dalla nascita alle ultime «istruzioni della redazione» – ed esprimono tutte un unico punto di vista sull’agitazione e sulla lotta politica. Considerate poi queste idee ponendovi dal punto di vista, predominante fra gli economicisti, che l’agitazione politica deve seguire l’agitazione economica. È vero o non è vero che la lotta economica è in generale (3) «il mezzo più largamente applicabile» per trascinare le masse nella lotta politica? È completamente falso. Tutte le manifestazioni dell’oppressione poliziesca e dell’arbitrio assolutista, quali che siano (e non solo quelle legate alla lotta economica), sono mezzi non «meno largamente applicabili». Perché gli zemskie nacialniki e le punizioni  corporali inflitte ai contadini, la corruzione dei funzionari e il modo come la polizia tratta il «basso popolo» delle città, la lotta contro gli affamati e la repressione delle aspirazioni del popolo alla cultura e alla scienza, l’estorsione di tributi di ogni sorta, le persecuzioni contro le sette religiose, la dura disciplina dei soldati, i metodi soldateschi con gli intellettuali liberali, perché tutte queste e mille altre manifestazioni dell’oppressione, non direttamente legate alla lotta «economica», sarebbero in generale mezzi e motivi meno «largamente applicabili» per  l’agitazione politica, per trascinare le masse nella lotta politica? Anzi: nella somma dei casi quotidiani in cui l’operaio deve soffrire (per sé e per i suoi congiunti) della sua mancanza di diritti, dell’arbitrio e della  violenza, i casi di oppressione poliziesca nella lotta sindacale non sono che una piccola minoranza. Perché dunque ridurre preventivamente l’ampiezza dell’agitazione politica proclamando «più largamente applicabile» uno solo dei mezzi, accanto ai quali il socialdemocratico ne trova altri, non meno «largamente applicabili»?

In tempi molto molto remoti (un anno fa! … ) il Raboceie Dielo scriveva: «Le rivendicazioni politiche immediate diventano accessibili alle masse dopo uno, o in caso estremo, alcuni scioperi», «dopo che il governo ha messo in azione la polizia e i gendarmi» (n. 7, p. 15, agosto 1900). Questa teoria opportunista degli stadi è oggi stata respinta dall’«Unione», che ci fa una concessione dichiarando: «Non v’è nessuna necessità di fare, all’inizio, agitazione politica soltanto sul terreno economico» (Due congressi, p.11). Lo storico futuro della socialdemocrazia russa vedrà da questa sola rinuncia dell’«Unione» a una parte dei suoi vecchi errori meglio che da qualsiasi lunga argomentazione, fino a quale svilimento del socialismo siano giunti i nostri economicisti! Ma quale ingenuità dimostra l’«Unione» nel credere che, grazie a questa rinuncia a una forma di ristrettezza della politica, possa indurci ad accettare un’altra forma di ristrettezza! Non sarebbe stato più logico dire anche qui che si deve condurre la lotta economica nel modo più vasto possibile, che si deve sempre utilizzarla per l’agitazione politica, ma che «non v’è nessuna necessità» di considerare la lotta economica come il mezzo più largamente applicabile per attirare le masse alla lotta politica attiva?

L’«Unione» insiste sul fatto che essa ha sostituito con l’espressione    «il mezzo più largamente applicabile» l’altra, «il miglior mezzo», contenuta nella corrispondente risoluzione del IV Congresso dell’«Unione operaia ebraica» (Bund). In verità, saremmo imbarazzati a dire quale delle due risoluzioni sia migliore: secondo noi esse sono una peggiore dell’altra. L’«Unione» e il Bund deviano entrambi (in parte forse anche non consapevolmente, sotto l’influenza della tradizione) verso 1’interpretazione economicista, rivendicativa della politica. Che la loro deviazione si traduca nell’espressione «il migliore» o in quella «il più largamente applicabile», la cosa sostanzialmente non cambia. Se 1’«Unione» avesse detto che l’«agitazione politica sul terreno economico» è il mezzo più largamente applicato (applicato, non «applicabile»), essa avrebbe avuto ragione relativamente a un certo periodo di sviluppo del nostro movimento socialdemocratico. Avrebbe avuto ragione per ciò che si riferisce agli economicisti e a molti militanti (se non alla maggior parte di essi) degli anni 1898-1901, i quali, infatti, conducevano l’agitazione politica (nella misura in cui, in generale, la conducevano) quasi esclusivamente sul terreno economico. Come abbiamo visto, la Rabociaia Mysl e il «Gruppo di autoemancipazione» ammettono e raccomandano anche un’agitazione politica di questo genere. Il Raboceie Dielo avrebbe dovuto condannare risolutamente il fatto che l’agitazione economica, di per sé utile, era accompagnata da una nociva restrizione della lotta politica; invece proclama che il mezzo più applicato (dagli economicisti) è il più applicabile(!). Nulla di straordinario se, quando noi chiamiamo questa gente economicisti, non resti loro null’altro da fare che accusarci in tutti i modi di essere dei «mistificatori», dei «disorganizzatori », dei «nunzi apostolici» e dei «calunniatori»(4), che piangere davanti a tutti perché è stata fatta loro un’offesa mortale, che dichiarare quasi giurando: «neppure un’organizzazione socialdemocratica è ora colpevole di economicismo» (5). Ah! questi calunniatori, politici maligni! Non l’hanno forse fatto apposta ad inventare l’economicismo per recare, dato il loro odio verso l’umanità, offese mortali alla gente?

Martynov dice che il compito della socialdemocrazia è «dare alla stessa lotta economica un carattere politico»: qual è il senso concreto, reale di questa espressione di Martynov? La lotta economica è la lotta collettiva degli operai contro i loro padroni per aver migliori condizioni di vendita della forza-lavoro, per migliorare le condizioni di lavoro e di esistenza degli operai. Questa lotta è necessariamente una lotta di categoria, perché le condizioni di lavoro sono estremamente diverse nei diversi mestieri e, inoltre, perché la lotta per il miglioramento di queste condizioni non può non essere condotta per categorie (dai sindacati in Occidente, dalle associazioni di mestiere temporanee e dai manifestini in Russia, ecc.). Dare alla «lotta economica stessa un carattere politico», significa dunque adoprarsi a soddisfare le rivendicazioni economiche, a migliorare le condizioni di lavoro con delle «misure legislative ed amministrative» (come si esprime Martynov a p. 43 del suo articolo). È ciò che precisamente fanno ed hanno sempre fatto tutte le associazioni di mestiere. Leggete l’opera di due scienziati seri (e «seri» anche come opportunisti) come i coniugi Webb e vedrete che già da molto tempo le associazioni operaie inglesi hanno compreso e adempiono il compito di «dare alla lotta economica stessa un carattere politico», già da molto tempo lottano per la libertà di sciopero, per la eliminazione di ogni ostacolo giuridico al movimento cooperativo e rivendicativo, per la promulgazione di leggi sulla protezione della donna e del fanciullo, per il miglioramento delle condizioni di lavoro mediante una legislazione sanitaria e di fabbrica, ecc.

Così, dunque, la frase pomposa: «Dare alla stessa lotta economica un carattere politico» dissimula in realtà, sotto la sua apparenza «spaventosamente» profonda e rivoluzionaria, la tendenza tradizionale ad abbassare la politica socialdemocratica al livello della politica rivendicativa, sindacale! Col pretesto di correggere l’unilateralità dell’Iskra, che mette – capite! – «il rivoluzionamento del dogma al di sopra del rivoluzionamento della vita », ci presentano come un qualche cosa di nuovo la lotta per le riforme economiche.(6) In realtà, la frase: «Dare alla stessa lotta economica una carattere politico» non contiene null’altro che la lotta per le riforme economiche. E Martynov stesso sarebbe potuto giungere a questa facile conclusione se avesse meditato sul significato delle proprie parole. «Il nostro partito – egli dice, puntando le sue batterie contro l’Iskra – potrebbe e dovrebbe esigere dal governo misure legislative e amministrative concrete contro lo sfruttamento economico, la disoccupazione, la carestia, ecc.» (Raboceie Dielo, n. 10, pp. 42 e 43). Rivendicare misure concrete non significa forse rivendicare riforme sociali? E chiediamo ancora una volta ai lettori imparziali: calunniamo forse i partigiani del Raboceie Dielo chiamandoli bernsteiniani dissimulati, quando essi presentano come loro dissenso con l’Iskra la tesi della necessità della lotta per le riforme economiche?

La socialdemocrazia rivoluzionaria ha sempre compreso e continua a comprendere nella propria azione la lotta per le riforme, ma approfitta dell’agitazione «economica» non soltanto per presentare al governo rivendicazioni di ogni genere, ma anche (e innanzi tutto) per rivendicare la soppressione del regime autocratico. Essa ritiene inoltre suo dovere presentare al governo quest’ultima rivendicazione non soltanto sul terreno della lotta economica, ma su quello di tutte le manifestazioni della vita politica e sociale. Insomma essa usa la lotta per le riforme ai fini della lotta rivoluzionaria per la libertà e il socialismo come qualcosa che fa parte di un tutto. Martynov, invece, riesuma sotto altra forma la teoria degli stadi, sforzandosi di prescrivere alla lotta politica di seguire assolutamente, per così dire, la via economica. Presentando, nel momento della spinta rivoluzionaria, la lotta per le riforme come un «compito» a sé, egli spinge indietro il partito e fa il giuoco dell’opportunismo «economicista» e liberale.

Proseguiamo. Dissimulando pudicamente la lotta per le riforme sotto la formula pomposa: «Dare alla lotta economica stessa un carattere politico», Martynov presenta come qualcosa di particolare le sole riforme economiche (ed anche le sole riforme di fabbrica). Perché? Non lo sappiamo. Forse per inavvertenza. Ma se egli non si riferisce soltanto alle riforme «di fabbrica», tutta la sua tesi, che noi abbiamo citato più sopra, perde ogni senso. Forse perché egli considera che il governo non può fare e non farà probabilmente delle «concessioni» se non nel campo economico?(7) Se sì, questo è uno strano errore: le autorità possono fare, e fanno in realtà, delle concessioni anche in materia legislativa, sulle pene corporali, i passaporti interni, le quote per il riscatto, le sette religiose, la censura ecc. Le concessioni (o pseudoconcessioni) «economiche» sono evidentemente le meno gravose e le più vantaggiose per il governo, poiché esso spera di guadagnarsi così la fiducia delle masse operaie. Ma precisamente per questo noi socialdemocratici non dobbiamo in nessun modo far nascere l’idea (o il malinteso) che le riforme economiche ci stiano più a cuore delle altre, che le consideriamo come le più importanti, ecc. «Simili rivendicazioni – dice Martynov parlando delle rivendicazioni legislative e amministrative concrete da lui formulate prima – non sarebbero parole vuote perché, promettendo certi risultati tangibili, potrebbero essere attivamente sostenute dalle masse operaie…» Noi non siamo, oh no!, degli economicisti. Strisciamo soltanto dinanzi alla «tangibilità» dei risultati concreti, né più né meno servilmente dei signori Bernstein, Prokopovic, Struve, R. M. e tutti quanti. Lasciamo soltanto comprendere – con Narciso Tuporylov – che tutto ciò che non «promette dei risultati tangibili» non è che «parola vuota». Ci esprimiamo soltanto come se le masse operaie fossero incapaci di sostenere attivamente ogni protesta contro l’autocrazia, anche una protesta che non possa assolutamente promettere alcun risultato tangibile (e come se non avessero provato di esserne capaci a dispetto di coloro che rigettano sulle masse le colpe del proprio filisteismo).

Prendete anche solo gli esempi citati da Martynov sui «provvedimenti» contro la disoccupazione e la carestia. Mentre il Raboceie Dielo si occupa, a giudicare dalla sua promessa, di elaborare e rielaborare «rivendicazioni concrete [in forma di progetti di legge?] di provvedimenti legislativi e amministrativi», «che promettano risultati tangibili», l’Iskra, «che pone immancabilmente il rivoluzionamento del dogma al di sopra del rivoluzionamento della vita », ha cercato di spiegare il legame indissolubile che esiste fra la disoccupazione e tutto il regime capitalistico, ha avvertito che «sta per venire la carestia », ha denunciato la «lotta» poliziesca «contro gli affamati» e le scandalose «norme carcerarie provvisorie » e la Zaria ha pubblicato, come opuscolo di agitazione, una parte della Rassegna interna dedicata alla carestia. Ma, dio mio, come sono stati «unilaterali », nel farlo, questi ortodossi incorreggibilmente ristretti, questi dogmatici sordi a quel che la «vita stessa» impone! In nessuno dei loro articoli v’era – oh, orrore! – nessuna, pensate!, assolutamente nessuna, «rivendicazione concreta», «che prometta risultati tangibili»! Disgraziati dogmatici! Bisogna mandarli a imparare dai Kricevski e dai Martynov perché si convincano che la tattica è un processo di sviluppo, di crescita, ecc. e che bisogna dare alla stessa lotta economica un carattere politico!

« Oltre alla sua importanza rivoluzionaria immediata, la lotta economica degli operai contro i padroni e contro il governo [«la lotta economica contro il governo»!!] ha anche il merito di ricordare costantemente agli operai il loro asservimento politico» (Martynov, p. 44). Abbiamo citato questo passo non per ripetere per la centesima o la millesima volta ciò che abbiamo già detto, ma per ringraziare in modo particolare Martynov per questa nuova ed eccellente formula: «La lotta economica degli operai contro i padroni e contro il governo». Che perla! Con che inimitabile talento, con che magistrale eliminazione di tutte le differenze parziali, di tutte le diversità di sfumatura esistenti fra gli economicisti, è qui espressa, in una breve e luminosa proposizione, tutta la sostanza dell’economicismo, incominciando dall’appello agli operai ad una «lotta politica condotta nell’interesse generale per migliorare le sorti di tutti gli operai»(8), passando per la teoria degli stadi e terminando con la risoluzione del congresso sul «mezzo più largamente applicabile», ecc! «La lotta economica contro il governo» è precisamente la politica rivendicativa, la quale è ancora molto, ma molto lontana dalla politica socialdemocratica.

NOTE

  1. Per evitare ogni malinteso è opportuno notare che per «lotta economica» intendiamo sempre (secondo l’uso che si è stabilito da noi) la «lotta economica pratica» che Engels, nella citazione sopra riportata, ha chiamato la «resistenza ai capitalisti» e che, nei paesi liberi, è chiamata lotta professionale, sindacale o rivendicativa. 
  2. In questo capitolo parliamo unicamente della lotta politica e dell’idea più o meno ampia che se ne ha. Perciò ricorderemo soltanto di sfuggita, come semplice curiosità, il rimprovero che il Raboceie Dielo muove all’Iskra di fare «riserve eccessive» sulla lotta economica (Due congressi, p. 27; il rimprovero è ribadito da Martynov nel suo opuscolo Socialdemocrazia e classe operaia). Se i signori accusatori misurassero anche solo a chili e a fogli di stampa (come amano fare) la rubrica della lotta economica nella scorsa annata dell’Iskra e la confrontassero con la stessa rubrica del Raboceie Dielo e della Rabociaia Mysl messe insieme, costaterebbero senza alcuno sforzo di essere più indietro di noi anche da questo punto di vista. Ed è certamente la coscienza di questa semplice verità che li ha indotti a servirsi di argomenti che dimostrano chiaramente la loro confusione. «Volente o nolente [!] – essi scrivono – l’Iskra deve [!] tener conto delle imperiose esigenze della vita, pubblicare almeno [!!] delle corrispondenze sul movimento operaio» (Due congressi, p. 27). Ecco un argomento che ci mette veramente a terra!
  3. Diciamo «in generale» perché il Raboceie Dielo, nel caso specifico, tratta dei principi generali e dei compiti generali di tutto il partito. Vi sono certamente dei casi nei quali, praticamente, la politica deve seguire l’economia, ma soltanto degli «economicisti» possono parlarne in una risoluzione destinata a tutta la Russia. Vi sono anche casi nei quali si può, fin dall’inizio, condurre un’agitazione politica «soltanto sul terreno economico », eppure il Raboceie Dielo è giunto infine a concludere che «questo non è affatto necessario» (Due congressi, p. 11). Dimostreremo nel capitolo seguente che la tattica dei «politici» e dei rivoluzionari, non soltanto non ignora i compiti tradunionisti della socialdemocrazia, ma è, anzi, la sola capace di assicurare il metodico adempimento di questi compiti.
  4. Espressioni autentiche dell’opuscolo Due congressi, pp. 31, 32, 28 e 30.
  5. Due congressi, p. 32.
  6. Raboceie Dielo, n. 10, p. 6o. È la variante che ci offre Martynov dell’applicazione, nell’attuale situazione caotica del nostro movimento, della tesi «ogni passo in avanti del movimento effettivo vale più di una dozzina di programmi», applicazione che abbiamo già caratterizzato sopra. In fondo non è che la traduzione russa della famosa frase di Bernstein: «Il movimento è tutto, il fine è nulla».
  7. «È chiaro – dice Martynov – che noi raccomandiamo agli operai di presentare certe rivendicazioni economiche al governo, perché nel campo economico il governo autocratico è pronto, per necessità, a certe concessioni» (p. 43)
  8. Rabociaia Mysl, Supplemento speciale, p. 14.

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Una società piena di “rancore”. Ma và?!

di Stefano Porcari

La paura di precipitare in basso nella scala sociale è più forte delle aspettative di mobilità sociale verso l’alto. Secondo l’ultimo rapporto del Censis presentato oggi, è la paura del declassamento il nuovo “fantasma sociale” che inquieta quelli che una volta erano definiti – spesso arbitrariamente estendendoli oltre misura anche alle categorie operaie – i “ceti medi”.

Secondo i dati del Censis l’87,3% degli appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, così come l’83,5% del ceto medio e il 71,4% del ceto benestante. Al contrario temono che sia più facile scivolare in basso il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei ceti più abbienti.  Chi ha trovato lavoro in questi anni nella “ripresa dell’occupazione” si trova però o in cima o in basso della piramide professionale. Nel periodo 2011-2016 operai e artigiani sono diminuiti dell’11%, gli impiegati del 3,9%. Le professioni intellettuali invece sono cresciute dell’11,4% ma, all’opposto, aumentano gli addetti alle vendite e ai servizi personali (+10,2%) e il personale non qualificato (+11,9%). Nell’ultimo anno l’incremento di occupazione più rilevante riguarda gli addetti alla circolazione e alla consegna delle merci (+11,4%) e nella delivery economy. Nella ricomposizione della piramide professionale aumentano dunque le distanze tra l’area non qualificata e il vertice. E se tra il 2006 e il 2016 il numero complessivo dei liberi professionisti è aumentato del 26,2%, quelli che hanno meno di 40 anni sono diminuiti del 4,4% (circa 20.000 in meno). La quota di giovani professionisti sul totale è scesa al 31,3%: 10 punti in meno in dieci anni. Questa feroce polarizzazione che ha spinto molte persone verso il basso e solo poche verso l’alto, secondo il Censis sta provocando la “società del rancore”. L’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Secondo il Censis “L’onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno”. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. “Non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo” osserva il Rapporto annuale 2017. “L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica”. L’immigrazione poi evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, in aumento quando si scende nella scala sociale: 72% tra le casalinghe, 71% tra i disoccupati, 63% tra gli operai. Ma questa percezione deve fare i conti con una realtà sociale che vede l‘88,5% dei lavoratori stranieri (1.838.639 persone) occupati come operai, mentre tra gli italiani la quota scende al 41%. Al contrario, solo il 9,9% dei lavoratori stranieri (206.409 occupati) lavora come impiegato, contro il 48% degli italiani.   La “segregazione professionale”, che costringe gli stranieri in profili prettamente esecutivi, osserva il Censis, emerge anche dal dato sui quadri stranieri, che sono appena 11.618 e rappresentano lo 0,6% del totale dei lavoratori. La percentuale scende ancora per i dirigenti: 9.556 contro i 391.585 italiani.

Si conferma poi il dato secondo cui i lavoratori e le lavoratrici stranieri vanno a coprire segmenti del mercato del lavoro che non attirano e non entusiasmano certo i “nativi”. I rapporti di lavoro avviati nel 2016 mostrano che su 1.881.918 nuove contrattualizzazioni, 520.508 (il 27,7%) riguardano i braccianti agricoli, assunti nella quasi totalità dei casi con contratti stagionali. Seguono l’assistenza alle persone (158.977,l’8,4% del totale) e i collaboratori domestici (123.659, il 6,6%). Agricoltura e lavoro di cura ad anziani, handicappati etc. vedono dunque il prevalere dei lavoratori stranieri. Dal rapporto Censis si rileva poi che solo l’11,8% degli immigrati che arrivano in Italia è laureato, contro una media europea del 28,5% (ma con una media italiana che precipita al 18%). Nel 2016 il 25,7% delle famiglie straniere è in condizioni di povertà assoluta, quelle italiane sono il 4,4% (5,7% invece secondo l’Istat e si sale al 10,3% in povertà relativa). A Roma e Milano risiedono circa 990.000 stranieri, poco meno di un quinto del totale nazionale (il 19,7%). In 755 comuni (9,5% del totale), soprattutto periferici, la popolazione nell’ultimo quinquennio è cresciuta unicamente grazie agli immigrati, che hanno compensato la riduzione degli italiani. Ai cittadini extracomunitari appartiene lo 0,4% del totale del patrimonio a uso abitativo del Paese: è extracomunitario solo lo 0,7% dei 31.796.538 proprietari e circa il 20% dei possessori di casa si trova a Milano (41.608 proprietari). Ma la quota di stranieri che acquistano un immobile, conclude il Censis, è più alta nelle provincie più piccole. Relativamente alla sicurezza e ai reati, questi sono in forte diminuzione ma sono ovviamente più numerosi lì dove girano più soldi. Nel 2016 infatti i reati denunciati in Italia sono stati 2.487.389, l’8,2% in meno rispetto al 2008. In cima alla graduatoria per numero di reati denunciati troviamo Milano con 237.365 reati (ma in diminuzione del 15,5% rispetto al 2008), Roma con 228.856 (in diminuzione del 3,3% nel periodo considerato), Torino (136.384, -11,7%) e Napoli (136.043, -4%). Se si considera il «peso» della criminalità sul territorio, cioè l’incidenza dei reati sulla popolazione, al primo posto rimane Milano con 7,4 reati ogni 100 abitanti, seguita da Rimini (7,2), Bologna (6,6) e Torino (6,0). Nel breve periodo diminuiscono omicidi, rapine e furti, ma crescono i borseggi, i furti in abitazione, le truffe tradizionali e su Internet. Nel 2016 sono stati denunciati 162.154 borseggi, con un’incidenza media nazionale di 2,7 borseggi ogni 1.000 abitanti e un aumento del 31% dal 2008. Dal 2008 al 2016 le truffe sono cresciute del 45,4% (151.464 nell’ultimo anno).  E’ dunque una società rancorosa quella che la crisi e le misure economico/sociali adottate dai governi degli ultimi dieci anni hanno provocato.  Non è certo una radiografia sociale che desta sorpresa, piuttosto indica ancora una volta come l’alimentazione e le strumentalizzazioni di un problema molto relativo (l’arrivo degli immigrati e la sicurezza) siano in realtà smentiti dai dati materiali.  Colpisce invece l’aumento del disincanto e la sfiducia in tutto ciò che è istituzionale, a rimarcare una divaricazione crescente tra politica e società che quando si esprime elettoralmente ricorre sempre più al “voto per vendetta”, in coerenza perfetta con quella che il Censis definisce come “la società del rancore”.

 

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